Annali d'Italia, vol. 6 - 15
_re Lodovico_, il quale si alterò non solo per questo, ma ancora perchè
esso papa non avea restituiti i suoi benefizii al protonotario, figlio
di Giovanni Bentivoglio, ancorchè la facoltà di dimorar nel Milanese ai
Bentivogli, e la restituzione suddetta fossero state dianzi accordate
dal medesimo papa. Crebbe lo sdegno di Giulio dacchè intese risoluto il
re di procedere coll'armi contra di Genova; laonde, senza più attendere
il concerto fatto col re di abboccarsi seco, allorchè egli fosse venuto
in Italia, nel dì 22 di febbraio si partì da Bologna, e s'inviò alla
volta di Roma. Pria nondimeno di abbandonar quella città, ordinò che
si rifacesse alla porta di Galiera una fortezza, col pretesto consueto
della sicurezza della città, ma infatti per tenere in briglia quel
popolo: due azioni che rincrebbero non poco, la prima agli amici de'
Bentivogli, e l'altra ad ognun di que' cittadini. Arrivò il papa a Roma
nel dì 27 di marzo, dove tutto si applicò ai maneggi d'una forte lega
contro i Veneziani, per ricuperar le città da loro occupate in Romagna.
E perciocchè i Bentivogli nell'aprile seguente fecero un tentativo
per rientrare in Bologna; e veniva lor fatto, se _Ippolito cardinal di
Este_ non si opponeva: nel dì primo di maggio fu diroccato il palazzo
di essi Bentivogli in Stra' San Donato, che era de' più belli d'Italia
di que' tempi. Crebbe nell'anno presente il tumulto di Genova[353].
Perchè fu forzato quel sedizioso popolo dai Franzesi a ritirarsi
dall'assedio di Monaco, senza più rispettare la maestà e padronanza
del re Lodovico, creò doge Paolo da Novi, tintore di seta, uomo della
feccia della plebe, e venne ad un'aperta e total ribellione: tutto
pazzamente fatto, perchè niun v'era che lor facesse sperar soccorso per
sostenere un sì ardito disegno. Per quanto il _cardinal del Finale_,
cioè Carlo del Carretto, gli esortasse ad implorare il perdono, di
cui si faceva egli mallevadore, crebbe la loro ostinazion sempre più.
Il re Lodovico, che a sue spese avea imparato qual differenza vi
sia tra il fare in persona la guerra e il commetterla ai capitani,
passato in Italia, si fermò ad Asti; e, dacchè ebbe fatto venir per
mare molti legni armati, si mosse verso il fine d'aprile coll'esercito
di terra per passare il Giogo. Poca resistenza potè fare alla di lui
possanza lo sforzo dei popolari di Genova, di modo che inviarono ad
offerirgli l'ingresso nella città; ed egli, nel dì 28 di esso mese,
colla spada nuda in mano, senza volere che si parlasse di patti, vi
entrò. Contuttociò non pensò il buon re ad imitare i tiranni, ma sì
bene a seguir l'esempio de' saggi ed amorevoli principi, che mai non
si dimenticano d'esser padri, ancorchè i sudditi si scordino d'essere
figli. Mise buona guardia alle porte della città, affinchè gli Svizzeri
e venturieri non vi entrassero e mettessero tutto a sacco. Trovati gli
anziani inginocchiati e dimandanti misericordia, rimise la spada nel
fodero, contentandosi poi di mettere al popolo una taglia di trecento
mila scudi, da pagarsi in 14 mesi, con rimetterne da lì a poco cento
mila. Ordinò la fabbrica di una fortezza al Capo del Faro, e, dopo
aver fatta giustizia di alcuni, e data nuova forma a quel governo, nel
dì 14 di maggio se ne tornò in Lombardia, dove licenziò l'esercito
per quetare i sospetti insorti in varii potentati. Bramava egli di
ripassare in Francia, ma perchè udì vicina la partenza di _Ferdinando
il Cattolico_ da Napoli, che desiderava di seco abboccarsi in Savona,
si fermò ad aspettarlo.
Dalle lettere de' suoi ministri d'Aragona e dalle istanze di _Giovanna_
sua figlia regina di Castiglia, veniva esso re Cattolico sollecitato
a tornarsene in Ispagna, per ripigliare il governo anche della stessa
Castiglia; perciocchè Giovanna dopo la morte del marito arciduca,
tanto dolore provò di tal perdita che s'infermò in lei non meno il
corpo che la mente. E intanto i due suoi figliuoli, _Carlo_ che fu
poi imperadore, e _Ferdinando_, per la loro età non erano peranche
atti al comando. Dopo aver dunque il re Ferdinando lasciate molte
buone provvisioni in Napoli e pel regno, e mutati tutti gli uffiziali
messi nelle fortezze da Consalvo, nel dì 4 di giugno sciolse le vele
verso ponente colla regina sua consorte, e senza volersi abboccare col
papa, che si era portato ad Ostia per questo, continuò il suo viaggio.
Obbligato da venti contrarii prese porto in Genova, e poscia nel dì
28 di giugno arrivò a Savona, accolto con gran pompa e finezze dal re
Cristianissimo, ma con aver prima esatte buone sicurezze per la sua
persona. Furono per quattro giorni in istretti e segreti ragionamenti,
dimenticate le precedenti nemicizie, siccome conveniva a principi
d'animo grande[354]. Avea Ferdinando, colle maggiori dimostrazioni di
benevolenza e promesse di vantaggi, menato seco da Napoli anche il gran
capitano _Consalvo_. Non si saziò il re Lodovico di mirare ed onorare
un personaggio che con tante pruove d'accortezza e valore avea tolto
a lui un regno; impetrò ancora da Ferdinando che questo grand'uomo
cenasse alla medesima tavola, dove erano assisi essi due re e la
regina. Sì graziosa finezza del re franzese verso di Consalvo ad altro
non servì che ad accrescere le gelosie nella testa spagnuola del re
Cattolico. In fatti, siccome avvertirono il Giovio e il Guicciardino,
quello fu l'ultimo giorno della gloria di Consalvo; imperocchè, giunto
in Ispagna, non potè mai ottenere il grado di gran mastro de' cavalieri
di San Iago, per cui gli aveva il re impegnata la parola. Insorsero
anche altri dissapori e contrattempi, per cagion dei quali mai più di
lui si servì il re nè in affari politici, nè in militari. Mancò di
vita Consalvo nel dì 2 di dicembre nel 1515; nè lasciò il re a lui
morto di far quegli onori che in vita gli avea negato, con ordinare
che dappertutto gli fossero celebrati sontuosi funerali: ricompensa ben
meschina ad uomo di tanto merito. Stette poi poco a tenergli dietro lo
stesso Ferdinando, siccome dirassi al suo luogo e tempo.
NOTE:
[352] Antichità Estensi, Par. II.
[353] Agostino Giustiniani. Senarega. Guicciardini.
Anno di CRISTO MDVIII. Indizione XI.
GIULIO II papa 6.
MASSIMILIANO I re de' Rom. 16.
L'anno fu questo in cui i principali potentati dell'Europa meridionale
si unirono per atterrar la potenza della _repubblica veneta_,
sfoderando cadauno sì le recenti che le rancide pretensioni loro sopra
la Terra ferma posseduta da essi Veneti. Ma prima di questo fatto
avvenne che _Massimiliano re de' Romani_ si era messo in pensiero di
calare in Italia, non tanto per prendere, secondo il rito dei suoi
predecessori, la corona e il titolo imperiale in Roma, quanto per
ristabilire i diritti dell'imperio germanico in queste provincie, e
recare a Pisa, continuamente infestata da' Fiorentini, quel soccorso
che tante volte promesso e non mai eseguito, fece poi nascere il
proverbio del _Soccorso di Pisa_[355]. Chiesto a' Veneziani il passo
e l'alloggio per quattro mila cavalli, ebbe per risposta da quel
senato, che s'egli volea venir pacificamente e senza tanto apparato
d'armi, l'avrebbono con tutto onore ben ricevuto; ma che apparendo con
tanto armamento diversi i di lui disegni, non poteano acconsentire
al suo passaggio. A questa risoluzione de' Veneziani diede maggior
fomento _Lodovico XII_, re di Francia, che con esso loro era in lega,
perchè troppo si era divolgato, non mirare ad altro i movimenti di
Massimiliano, che a spogliar lui dello Stato di Milano in favore
dell'abbattuta casa Sforzesca. Per questo rifiuto e per altri motivi
sdegnato Massimiliano, circa il fine di gennaio col marchese di
Brandeburgo mosse lor guerra dalla parte di Trento, dove i Veneziani
possedevano Rovereto, tentando di aprirsi per le montagne un passaggio
verso Vicenza. Poscia con altre forze entrò nel Friuli, e s'impadronì
di Cadore con altri luoghi. Abbondava allora l'Italia di valenti
capitani, e il senato veneto non fu lento a sceglierne i migliori, e ad
ingrossarsi di gente. _Niccolò Orsino_ conte di Pitigliano, generale,
fu spedito con _Andrea Gritti_ provveditore a Rovereto, _Bartolomeo di
Alviano_, altro generale, con _Giorgio Cornaro_ alla difesa del Friuli.
Mosso a questo rumore il re di Francia, per sospetto che la festa fosse
fatta per lo Stato di Milano, ordinò anch'egli a _Carlo d'Ambosia_
signor di Sciomonte, governatore di Milano, di accorrere in aiuto
de' Veneziani insieme col famoso maresciallo di Francia _Gian-Giacomo
Trivulzio_.
Seguirono molte baruffe e saccheggi sul Trentino, e in que' contorni,
ma non di conseguenza, perchè i Franzesi teneano ordini segreti di
attendere alla difesa, e non alla offesa, per non irritar maggiormente
Massimiliano. Così non fu dalla parte del Friuli. L'animoso Alviano,
entrato nella valle di Cadore, e messi in rotta i Tedeschi, nel dì 23
di febbraio, cioè nell'ultimo giovedì di carnevale, ebbe a patti quel
castello. Nel dì seguente pose il campo a Cormons, castello assai ricco
e forte di sito, che ricusò di rendersi. Si venne all'assalto e alla
scalata, che costò molto sangue agli aggressori, e fra gli altri vi
perì Carlo Malatesta, giovane amatissimo nell'esercito, e di grande
espettazione. Il Guicciardino e il Bembo mettono la di lui morte sotto
Cadore; la Cronica veneta manoscritta, che presso di me si conserva,
scritta da chi si trovò presente a tutta la seguente guerra, il fa
morto sotto Cormons. Ebbe poi l'Alviano a patti quel castello, e per
rallegrare i suoi soldati, loro lasciollo in preda. Quindi si spinse
addosso a Gorizia, e in quattro giorni che le batterie giocarono,
ridusse nel dì 28 di marzo quel presidio a renderla. Di là si inviò
per istrade disastrose a Trieste, città molto mercantile e popolata, il
cui distretto fu in breve messo tutto a saccomano. Posto l'assedio per
terra, secondato da una squadra di navi venete per mare, fu anch'essa
obbligata a capitolare la resa, salvo l'avere e le persone. Lo stesso
avvenne a Porto Naone e a Fiume. Allora fu che Massimiliano, al vedere
andar ogni cosa a rovescio delle sue speranze, crescere il pericolo
suo, cominciò dalla parte di Trento a trattar di tregua, la quale nel
dì 30 d'aprile fu conchiusa per tre anni fra esso re dei Romani e i
Veneziani, senza voler aspettar le risposte del re di Francia.
Si rodeva di rabbia Massimiliano contra de' Veneziani, per essere
uscito con tanta vergogna e danno dal preso impegno, essendo restati
in man d'essi i luoghi occupati. Al che si aggiunse ancora il suono
di alcune canzoni satiriche pubblicate in Venezia contra di lui.
Mostravasi parimente mal soddisfatto dei Veneti il re Lodovico per
l'accordo seguito senza consentimento suo con Massimiliano. Ciò servì
poscia a riunir segretamente gli animi di questi due potentati contro
la repubblica veneta; e tanto più, perchè nelle lor massime concorreva
il pontefice, acceso di somma voglia di ricuperar le città della
Romagna, e che perciò maggiormente accendeva il fuoco altrui. Sotto
dunque lo specioso titolo di acconciar le differenze vertenti fra
Massimiliano e il duca di Gueldria patrocinato da' Franzesi, _Giorgio
d'Ambosia cardinale_ di Roano, personaggio di grande accortezza, primo
mobile della corte di Francia e legato del papa, passò a Cambrai,
per trattar ivi di lega con _Margherita vedova duchessa di Savoia_,
munita d'ampio mandato da Massimiliano suo padre. Al qual congresso
intervenne ancora, col pretesto di accelerar la pace, l'ambasciatore di
_Ferdinando il Cattolico_, principe che forse fu il primo a promuovere
questa alleanza. Nel dì 10 di dicembre fu segnata la suddetta lega
offensiva contro la repubblica di Venezia, in Cambrai fra _Massimiliano
Cesare_, _Lodovico re_ di Francia, e _Ferdinando re_ d'Aragona, e
per parte ancor di _papa Giulio II_, ancorchè il cardinal di Roano
non avesse mandato valevole a tal atto. Fu insieme lasciato luogo di
entrarvi a _Carlo duca di Savoia_, ad _Alfonso duca di Ferrara_ e a
_Francesco marchese di Mantova_, i quali a suo tempo vi si aggiunsero
anch'essi; e fu questa non meno ratificata dai principali contraenti,
che dal papa nel marzo dell'anno seguente. Per ingannare il pubblico,
altro non si pubblicò allora, se non la concordia ivi stabilita fra
Massimiliano e Carlo suo nipote dall'un canto, e il duca di Gueldria
dall'altro, e si tenne ben segreta la macchina preparata contra de'
Veneziani. Le pretensioni di queste potenze erano, per conto del
_pontefice_, di ricuperar le città di Ravenna, Cervia, Rimini e Faenza,
occupate le prime un pezzo fa, ed ultimamente le altre. L'autore
della bella storia franzese della Lega di Cambrai, creduto da molti
il cardinale di Polignac, vi aggiugne ancora Imola e Cesena, quasi
che ancor queste fossero in mano de' Veneziani, il che non sussiste.
La verità nondimeno è, che negli atti di essa lega, dati alla luce da
più d'uno, e in questi ultimi anni dal signor Du-Mont nel suo Corpo
Diplomatico, si leggono anche le suddette due città per negligenza del
cardinal di Roano. Pretendeva _Massimiliano_, chiamato ivi _imperadore
eletto_, le città di Verona, Padova, Vicenza, Trivigi e Rovereto, il
Friuli, il patriarcato di Aquileia, coi luoghi occupati nell'ultima
guerra. Così _Lodovico re_ di Francia intendeva di riacquistare
Brescia, Crema, Bergamo, Cremona e Ghiaradadda, ch'erano una volta
pertinenze del ducato di Milano, quasi che la repubblica veneta non le
possedesse da gran tempo in vigore di legittimi trattati. Finalmente
il _re Cattolico_ volea riavere i porti del regno di Napoli, già
impegnati ai Veneziani dal re Ferdinando, figlio d'Alfonso I, cioè
Trani, Brindisi, Otranto e Monopoli nel golfo Adriatico. Delle altre
condizioni di questo trattato non occorre ch'io parli, se non che per
disobbligar Cesare dal fresco giuramento della tregua di tre anni, fu
creduto sufficiente che il papa fulminasse a suo tempo un interdetto ed
altre censure orribili contro i Veneziani, se in termine di quaranta
giorni non restituivano le terre della Chiesa: dopo il qual tempo
richiedesse di assistenza lo eletto imperadore, come avvocato della
Chiesa Romana.
Diede fine in quest'anno al suo vivere e a' suoi affanni _Lodovico
Sforza_, soprannominato il Moro, già duca di Milano, dopo aver avuto
tempo di far buona penitenza in carcere de' suoi trascorsi peccati.
E siccome in que' tempi troppo era familiare il sospetto de' veleni,
corse anche voce ch'egli per questa via fosse giunto al termine de'
suoi giorni, ma senza apparire alcun giusto motivo di abbreviargli la
vita. Nel giugno eziandio dell'anno presente tornarono i Fiorentini a
dare il guasto alle biade dei Pisani, con giugnere sino alle mura della
città. Questo tante volte replicato flagello estenuò talmente le forze
del popolo pisano, che sarebbe oramai stato facile ad essi Fiorentini
di ridurlo a rendersi, se non si fossero ritenuti per li riguardi che
aveano al re di Francia e al re Cattolico, cadaun de' quali volea far
mercatanzia di quella città: cioè esigea di grosse somme, se ne doveano
permettere l'acquisto. Diedero inoltre essi Fiorentini un altro guasto
a buona parte del Lucchese, perchè non cessava quel popolo di mandar
soccorsi a Pisa.
NOTE:
[354] Giovio. Guicciardino. Mariana, De Reb. Hispan.
[355] Continuator Sabellici. Guicciardino. Istoria Veneta MS.
Anno di CRISTO MDIX. Indizione XII.
GIULIO II papa 7.
MASSIMILIANO I re de' Rom. 17.
Di grandi avventure o, per dir meglio, disavventure fu ben gravido
l'anno presente in Italia. Non si potè tener così occulto il trattato
conchiuso in Cambrai, che non traspirasse al senato veneto; e tanto
più all'osservare i grandi armamenti che si faceano in più parti. Si
cominciarono perciò molti consigli in Venezia per provvedere a turbine
sì minaccioso. Trovavasi certamente allora la repubblica veneta nel più
bell'auge della sua fortuna. Per l'Istria, per la Dalmazia, in Candia,
in Cipri, e in altre parti del Levante si stendea la sua potenza. Uno
de' più fertili e ricchi pezzi dell'Italia era sotto il suo dominio.
La sola meravigliosa e sì popolata città di Venezia potea dirsi un
emporio di ricchezze tanto del pubblico che de' privati, a cagione del
gran commercio che da più secoli faceano i Veneti per mare, della gran
copia delle lor navi, del dovizioso loro arsenale che non avea pari
in Europa. Colà si portavano le merci dell'Oriente, e particolarmente
le specierie, che si distribuivano poi per la maggior parte delle
città dell'Italia, Germania e Francia. Immenso era questo guadagno,
se non che solamente circa questi tempi cominciò a calare, per avere
i Portoghesi trovato il passaggio per mare alle Indie Orientali, e
sempre più s'andò sminuendo da lì innanzi per l'industria d'altre
potenze marittime che passano oggidì a dirittura nelle stesse Indie.
Chi vuol avere un saggio delle ricchezze che nel secolo decimoquinto
colavano in quella potente città, non ha che da leggere una parlata
fatta nell'anno 1421, dal doge _Tommaso Mocenigo_, e registrata nella
Cronica Veneta di Marino Sanuto da me data alla luce[356]. Perciò al
bisogno grandi erano le forze di quella repubblica non meno in mare che
per terra; grande ancora il coraggio, la fedeltà, l'unione. Soprattutto
la saviezza, dote inveterata in quel senato, presedeva ai lor consigli;
e per le buone e puntuali paghe che dava essa repubblica, facilmente
correvano a lei le genti d'armi e i bravi condottieri de' quali allora
abbondava l'Italia. Tentarono bensì i Veneziani coll'offerta di Faenza,
e fors'anche di Rimini, di placare il pontefice. Fecero altri tentativi
presso Cesare e presso il re Cattolico: tutto indarno, perchè niun
d'essi credette compatibile col suo onore il recedere dal pattuito
nella lega. Si accinsero dunque animosamente i Veneti ad accrescere
le lor forze, risoluti alla difesa, e misero insieme un esercito di
due mila e cento lancie, ossia d'uomini d'arme, di mille cinquecento
cavalli leggieri italiani, di mille e ottocento stradioti greci, e
di dieciotto mila fanti da guerra, a' quali aggiunsero ancora dodici
mila altri fanti delle cernide de' contadini. La Cronica scritta
a penna di autore Anonimo Padovano, ma contemporaneo, la qual si
conserva presso di me, riferisce il nome di tutti i capitani[357];
e poi confessa che almeno secento di questi uomini d'arme erano vili
famigli, perchè scelti in fretta, ed essere stati que' contadini più
atti al badile e all'aratro, che a' fatti di guerra. Poteano questi
nondimeno servire per guastatori, e per fianco ai presidiarii, secondo
le occorrenze. Oltre a ciò, gran preparamento si fece di legni armati
per mare, e ne' fiumi, e nel lago di Garda. Condussero ancora alcuni
della casa Orsina e Savella, e _Fracasso da San Severino_, condottieri
di molta gente d'armi. Ma il papa impedì loro il venire. Fu anche
impedito il passo a Giovanni conte di Comania, a Michele Frangipane
e a Bothandreas capitano della Liburnia, che doveano condurre mille
e cinquecento cavalli. Chiamati in consiglio _Bartolomeo d'Alviano_
e il _conte di Pitigliano_, generali delle lor armi, per intendere i
lor sentimenti, l'ultimo d'essi, come più vecchio, fu di parere che
si fortificassero le città di Terra ferma, e provvedute che fossero
di buon presidio, si stesse alla difesa, menando la cosa in lungo,
per li vantaggi che poteano venire dal guadagnar tempo contra una lega
facile a disciogliersi per varii avvenimenti[358]. Giudicò all'incontro
l'Alviano, che si avesse ad uscire in campagna, prima che fosse calato
in Italia col preparato nuovo esercito il re Lodovico, meglio essendo
il far la guerra in casa altrui, che l'aspettarla nella propria; e
potendo anche avvenire che si prendesse qualche città dello Stato di
Milano, la cui conquista frastornasse i primi disegni de nemici. Prese
il senato un partito di mezzo, cioè ordinò che l'esercito non passasse
l'Adda, ma si tenesse in que' contorni. Nel mese d'aprile attaccatosi
il fuoco nell'arsenale di Venezia, ne bruciò gran parte colla perdita
di dodici corpi di galee sottili, e di molte monizioni. Da lì a
pochi giorni a cagion d'un fulmine si bruciò la rocca del castello di
Brescia con tutta la polve da fuoco e tutte le munizioni. Cadde ancora
l'archivio della repubblica: avvenimenti che dalla gente superfiziale
furono presi per preliminari e presagi di maggiori sciagure.
Arrivarono di Francia in Italia nella primavera di quest'anno mille
e ducento lancie, due mila cavalli leggeri, sei mila fanti Svizzeri,
e sei altri mila Guasconi e Piccardi, che si unirono con cinquecento
lancie, mille arcieri ed otto mila fanti, che erano nello Stato di
Milano. Giunse molto più tardi anche lo stesso re Lodovico col duca
di Lorena e copiosa nobiltà franzese. Nel dì 5 d'aprile ebbe ordine
_Carlo d'Ambosia_ signor di Sciomonte, di dar principio alla danza con
una scorreria. Passato l'Adda a Cassano, prese Treviglio, Rivolta, ed
altre castella, mettendo a sacco il territorio. Nello stesso tempo
_Francesco Gonzaga_ marchese di Mantova, entrato nella lega, assalì
il Veronese, ma fu respinto da Bartolomeo d'Alviano. Prese eziandio
Casal Maggiore, ma gli convenne abbandonarlo. In questo mentre fulminò
il papa interdetti ed orribili censure contro i Veneziani, e diede
principio anch'egli alle offese. _Francesco Maria della Rovere_,
nipote d'esso papa, già divenuto duca d'Urbino per la morte del _duca
Guidubaldo_, e generale dell'esercito pontificio, corse sul Faentino,
ed assediò Brisighella, dove perirono fra soldati e abitanti più di due
mila persone: e fu dato il sacco alla misera terra, con trattar chiese
e donne come avrebbono fatto i Turchi. Ebbe esso duca anche il castello
di Russi, e di là andò a mettere il campo a Ravenna, città creduta
allora inespugnabile per le tante fortificazioni fattevi da' Veneziani.
Dacchè si furono i Franzesi impadroniti di Treviglio, il _conte di
Pitigliano_ generale primario dell'armata veneta, che s'era postato
a Pontevico, si affrettò a raunar le sue genti, e mossosi contro i
nemici, gli obbligò a ritirarsi di là dall'Adda. Ricuperati alcuni dei
luoghi perduti, perchè un buon presidio franzese tenea saldo Treviglio,
convenne adoperar le artiglierie, e venire all'assalto. Lo sostennero
i Franzesi, ma provata la risolutezza degli aggressori, e perduta la
speranza di soccorso, appresso si renderono prigioni. Dionisio de'
Naldi capitano della compagnia de' Brisighelli, che innanzi agli altri
era stato all'assalto, inviperito ancora per le disgrazie della sua
patria, ottenne il sacco dell'infelice terra. Neppur ivi tralasciato
fu alcuno sfogo dell'empietà, della crudeltà e della libidine, con
rivolgersi nondimeno in grave danno dell'armata veneta siffatta
barbarie, perciocchè non poterono i capitani ritener gran copia d'altri
soldati, che non corresse a cercar ivi bottino, di maniera che per
farli uscire di là, si ricorse al brutto ripiego di attaccare il fuoco
alla terra, la quale, dianzi ricca ed amena, si ridusse all'ultima
miseria. Di questo scompiglio profittando il re Lodovico, potè a
man salva far transitare tutto il suo esercito per li ponti che avea
sull'Adda a Cassano.
Furono a vista le due potenti armate, e il re non sospirava che di
venir ad un fatto d'armi: lo che non meno era desiderato e proposto
dall'_Alviano_ governatore del campo veneto, ed uomo assai caldo.
Ma il saggio conte di Pitigliano stette costante in sostenere che il
meglio era di temporeggiare, e vincere colla spada nel fodero, oppure
di aspettar buona congiuntura per assalirli. Vedutosi dal re, che
neppur colla sfida inviata potea tirare i Veneziani ad un conflitto,
s'inviò in ordine di battaglia dietro l'Adda per la via che conduce a
Pandino. La vanguardia era guidata da _Gian-Giacomo Trivulzio_, celebre
capitano di questi tempi. Il re con lo Sciomonte era nel mezzo. Il
_signor della Palissa_ conducea la retroguardia. Similmente si mosse
l'armata veneta, e per altro cammino andò fiancheggiando la nemica.
L'Alviano guidava la vanguardia, il conte di Pitigliano il corpo
di battaglia, e Antonio de' Pii coi legati veneti la retroguardia.
O per accidente delle strade, o per industria dei Franzesi, tanto
s'avvicinarono i due eserciti, che l'Alviano, quando men sel pensava,
si trovò necessitato a menar le mani, e si venne ad un terribil fatto
di armi nel dì 14 di maggio, due miglia lungi da Pandino, in luogo
appellato l'Agnadello. Con sommo valore si combattè da ambe le parti.
Ma non passarono tre ore, che toccò la vittoria ai Franzesi. Circa
dieci mila restarono morti sul campo, i più nondimeno italiani. V'ha
chi dice otto, e chi solamente sei mila, secondo il costume dell'altre
battaglie. Slargò ben la bocca il Buonaccorsi con dire uccisi quindici
mila e più de' Veneziani. L'Alviano, ferito in volto, restò prigione,
e solamente dopo tre anni fu rimesso in libertà. La strage fu nella
fanteria veneta, perchè la cavalleria non tenne saldo. Rimasero padroni
i Franzesi del campo, di molta artiglieria, insegne e munizioni. Più
strano è il trovar qui discordia fra gli scrittori in un punto di
somma importanza: cioè, se crediamo al Guicciardino[359], il conte di
Pitigliano _colla maggior parte si astenne dal fatto di arme_, o perchè
già vide disperato il caso per la rotta dell'Alviano, o per isdegno
contra di lui per avere, contro l'autorità sua, preso a combattere.
Fra Paolo dei Cherici carmelitano veronese, che fiorì in questi tempi,
e condusse la sua Storia manoscritta sino al 1537, scrive[360], che
esso conte e i provveditori veneti, sbaragliato che fu l'Alviano,
vergognosamente se ne fuggirono. L'autore Anonimo Padovano della
Storia Veneta sopraccitata asserisce[361] che il Pitigliano entrò
colle sue schiere nel fatto d'armi, e gli convenne voltar le spalle.
Lo che vien confermato da un'altra Storia veneta manoscritta, il cui
autore veneziano pretende[362] che alcuni capitani italiani usassero
tradimento, conchiudendo infine che il Pitigliano con pochi si salvò
a Caravaggio. Il Bembo[363] e Pietro Giustiniano[364] passano sotto
silenzio questo punto. Ben pare che se il Pitigliano fosse stato colle
mani alla cintola in sì gran bisogno, si sarebbe tirato addosso un
rigoroso processo.
Certo è che tutto l'esercito franzese unito combattè, laddove il
Pitigliano arrivò a combattere solamente dappoichè l'Alviano era in
rotta. Se unita tutta l'armata veneta fosse stata a fronte de' nemici,
poteva essere diverso il fine di quella giornata.
Dappoichè il re Luigi ebbe solennizzata in più forme questa vittoria,
appellata dipoi di Ghiaradadda, e ordinato che ivi si fabbricasse una
Chiesa col titolo di santa Maria della Vittoria, non perdè tempo a
profittare di sì buon vento. Impadronissi di Caravaggio e di tutta la
Ghiaradadda; e giacchè era corso il terrore per tutte le città venete,
poco stette a rendersegli Cremona, per opera di Soncino Benzone, di
cui troppo s'erano fidati i Veneziani. Appresso vennero i Cremonesi
alla divozion de' Franzesi, e da lì a qualche tempo anche la fortezza.
Altrettanto fece Bergamo. La nobiltà parimente e il popolo di Brescia,
veggendo imminente l'assedio, e prevedendo la propria rovina, al primo
comparir delle armi franzesi, mandarono al re le chiavi della loro
città, giacchè aveano dianzi ricusato di ricevere dentro il presidio
veneto. Cavalcò dipoi il re al forte castello di Peschiera, dove
il Mincio esce dal lago, e, fatta colle artiglierie buona breccia,
si venne all'assalto. Stanchi finalmente i cinquecento fanti che
erano ivi di presidio, più volte fecero segno di volersi rendere,
ma non esauditi, furono infine tagliati tutti a pezzi dai Franzesi,
entrati colà a forza d'armi. Pietro Giustiniano, il Guicciardino e il
Buonaccorsi scrivono che Andrea Riva provveditor veneto vi fu impiccato
ai merli col figliuolo. Con questa barbarie turchesca si facea la
guerra in que' tempi da' principi cristiani. Avrebbe anche potuto il re
Luigi passare il Mincio, e insignorirsi di Verona, perchè quel popolo,
sull'esempio de' Bresciani, non avea voluto ammettere la guarnigion
destinata dai Veneziani. Ma perchè il paese di là dal Mincio era
riserbato a Massimiliano Cesare, non se ne volle ingerire. Per tante
calamità, e perchè riparo non v'era alla diserzion continua delle poche
milizie che s'erano salvate somma era la costernazione in Venezia. Il
creduto migliore ripiego, a cui s'appigliò quel saggio Senato, fu di
esso papa non avea restituiti i suoi benefizii al protonotario, figlio
di Giovanni Bentivoglio, ancorchè la facoltà di dimorar nel Milanese ai
Bentivogli, e la restituzione suddetta fossero state dianzi accordate
dal medesimo papa. Crebbe lo sdegno di Giulio dacchè intese risoluto il
re di procedere coll'armi contra di Genova; laonde, senza più attendere
il concerto fatto col re di abboccarsi seco, allorchè egli fosse venuto
in Italia, nel dì 22 di febbraio si partì da Bologna, e s'inviò alla
volta di Roma. Pria nondimeno di abbandonar quella città, ordinò che
si rifacesse alla porta di Galiera una fortezza, col pretesto consueto
della sicurezza della città, ma infatti per tenere in briglia quel
popolo: due azioni che rincrebbero non poco, la prima agli amici de'
Bentivogli, e l'altra ad ognun di que' cittadini. Arrivò il papa a Roma
nel dì 27 di marzo, dove tutto si applicò ai maneggi d'una forte lega
contro i Veneziani, per ricuperar le città da loro occupate in Romagna.
E perciocchè i Bentivogli nell'aprile seguente fecero un tentativo
per rientrare in Bologna; e veniva lor fatto, se _Ippolito cardinal di
Este_ non si opponeva: nel dì primo di maggio fu diroccato il palazzo
di essi Bentivogli in Stra' San Donato, che era de' più belli d'Italia
di que' tempi. Crebbe nell'anno presente il tumulto di Genova[353].
Perchè fu forzato quel sedizioso popolo dai Franzesi a ritirarsi
dall'assedio di Monaco, senza più rispettare la maestà e padronanza
del re Lodovico, creò doge Paolo da Novi, tintore di seta, uomo della
feccia della plebe, e venne ad un'aperta e total ribellione: tutto
pazzamente fatto, perchè niun v'era che lor facesse sperar soccorso per
sostenere un sì ardito disegno. Per quanto il _cardinal del Finale_,
cioè Carlo del Carretto, gli esortasse ad implorare il perdono, di
cui si faceva egli mallevadore, crebbe la loro ostinazion sempre più.
Il re Lodovico, che a sue spese avea imparato qual differenza vi
sia tra il fare in persona la guerra e il commetterla ai capitani,
passato in Italia, si fermò ad Asti; e, dacchè ebbe fatto venir per
mare molti legni armati, si mosse verso il fine d'aprile coll'esercito
di terra per passare il Giogo. Poca resistenza potè fare alla di lui
possanza lo sforzo dei popolari di Genova, di modo che inviarono ad
offerirgli l'ingresso nella città; ed egli, nel dì 28 di esso mese,
colla spada nuda in mano, senza volere che si parlasse di patti, vi
entrò. Contuttociò non pensò il buon re ad imitare i tiranni, ma sì
bene a seguir l'esempio de' saggi ed amorevoli principi, che mai non
si dimenticano d'esser padri, ancorchè i sudditi si scordino d'essere
figli. Mise buona guardia alle porte della città, affinchè gli Svizzeri
e venturieri non vi entrassero e mettessero tutto a sacco. Trovati gli
anziani inginocchiati e dimandanti misericordia, rimise la spada nel
fodero, contentandosi poi di mettere al popolo una taglia di trecento
mila scudi, da pagarsi in 14 mesi, con rimetterne da lì a poco cento
mila. Ordinò la fabbrica di una fortezza al Capo del Faro, e, dopo
aver fatta giustizia di alcuni, e data nuova forma a quel governo, nel
dì 14 di maggio se ne tornò in Lombardia, dove licenziò l'esercito
per quetare i sospetti insorti in varii potentati. Bramava egli di
ripassare in Francia, ma perchè udì vicina la partenza di _Ferdinando
il Cattolico_ da Napoli, che desiderava di seco abboccarsi in Savona,
si fermò ad aspettarlo.
Dalle lettere de' suoi ministri d'Aragona e dalle istanze di _Giovanna_
sua figlia regina di Castiglia, veniva esso re Cattolico sollecitato
a tornarsene in Ispagna, per ripigliare il governo anche della stessa
Castiglia; perciocchè Giovanna dopo la morte del marito arciduca,
tanto dolore provò di tal perdita che s'infermò in lei non meno il
corpo che la mente. E intanto i due suoi figliuoli, _Carlo_ che fu
poi imperadore, e _Ferdinando_, per la loro età non erano peranche
atti al comando. Dopo aver dunque il re Ferdinando lasciate molte
buone provvisioni in Napoli e pel regno, e mutati tutti gli uffiziali
messi nelle fortezze da Consalvo, nel dì 4 di giugno sciolse le vele
verso ponente colla regina sua consorte, e senza volersi abboccare col
papa, che si era portato ad Ostia per questo, continuò il suo viaggio.
Obbligato da venti contrarii prese porto in Genova, e poscia nel dì
28 di giugno arrivò a Savona, accolto con gran pompa e finezze dal re
Cristianissimo, ma con aver prima esatte buone sicurezze per la sua
persona. Furono per quattro giorni in istretti e segreti ragionamenti,
dimenticate le precedenti nemicizie, siccome conveniva a principi
d'animo grande[354]. Avea Ferdinando, colle maggiori dimostrazioni di
benevolenza e promesse di vantaggi, menato seco da Napoli anche il gran
capitano _Consalvo_. Non si saziò il re Lodovico di mirare ed onorare
un personaggio che con tante pruove d'accortezza e valore avea tolto
a lui un regno; impetrò ancora da Ferdinando che questo grand'uomo
cenasse alla medesima tavola, dove erano assisi essi due re e la
regina. Sì graziosa finezza del re franzese verso di Consalvo ad altro
non servì che ad accrescere le gelosie nella testa spagnuola del re
Cattolico. In fatti, siccome avvertirono il Giovio e il Guicciardino,
quello fu l'ultimo giorno della gloria di Consalvo; imperocchè, giunto
in Ispagna, non potè mai ottenere il grado di gran mastro de' cavalieri
di San Iago, per cui gli aveva il re impegnata la parola. Insorsero
anche altri dissapori e contrattempi, per cagion dei quali mai più di
lui si servì il re nè in affari politici, nè in militari. Mancò di
vita Consalvo nel dì 2 di dicembre nel 1515; nè lasciò il re a lui
morto di far quegli onori che in vita gli avea negato, con ordinare
che dappertutto gli fossero celebrati sontuosi funerali: ricompensa ben
meschina ad uomo di tanto merito. Stette poi poco a tenergli dietro lo
stesso Ferdinando, siccome dirassi al suo luogo e tempo.
NOTE:
[352] Antichità Estensi, Par. II.
[353] Agostino Giustiniani. Senarega. Guicciardini.
Anno di CRISTO MDVIII. Indizione XI.
GIULIO II papa 6.
MASSIMILIANO I re de' Rom. 16.
L'anno fu questo in cui i principali potentati dell'Europa meridionale
si unirono per atterrar la potenza della _repubblica veneta_,
sfoderando cadauno sì le recenti che le rancide pretensioni loro sopra
la Terra ferma posseduta da essi Veneti. Ma prima di questo fatto
avvenne che _Massimiliano re de' Romani_ si era messo in pensiero di
calare in Italia, non tanto per prendere, secondo il rito dei suoi
predecessori, la corona e il titolo imperiale in Roma, quanto per
ristabilire i diritti dell'imperio germanico in queste provincie, e
recare a Pisa, continuamente infestata da' Fiorentini, quel soccorso
che tante volte promesso e non mai eseguito, fece poi nascere il
proverbio del _Soccorso di Pisa_[355]. Chiesto a' Veneziani il passo
e l'alloggio per quattro mila cavalli, ebbe per risposta da quel
senato, che s'egli volea venir pacificamente e senza tanto apparato
d'armi, l'avrebbono con tutto onore ben ricevuto; ma che apparendo con
tanto armamento diversi i di lui disegni, non poteano acconsentire
al suo passaggio. A questa risoluzione de' Veneziani diede maggior
fomento _Lodovico XII_, re di Francia, che con esso loro era in lega,
perchè troppo si era divolgato, non mirare ad altro i movimenti di
Massimiliano, che a spogliar lui dello Stato di Milano in favore
dell'abbattuta casa Sforzesca. Per questo rifiuto e per altri motivi
sdegnato Massimiliano, circa il fine di gennaio col marchese di
Brandeburgo mosse lor guerra dalla parte di Trento, dove i Veneziani
possedevano Rovereto, tentando di aprirsi per le montagne un passaggio
verso Vicenza. Poscia con altre forze entrò nel Friuli, e s'impadronì
di Cadore con altri luoghi. Abbondava allora l'Italia di valenti
capitani, e il senato veneto non fu lento a sceglierne i migliori, e ad
ingrossarsi di gente. _Niccolò Orsino_ conte di Pitigliano, generale,
fu spedito con _Andrea Gritti_ provveditore a Rovereto, _Bartolomeo di
Alviano_, altro generale, con _Giorgio Cornaro_ alla difesa del Friuli.
Mosso a questo rumore il re di Francia, per sospetto che la festa fosse
fatta per lo Stato di Milano, ordinò anch'egli a _Carlo d'Ambosia_
signor di Sciomonte, governatore di Milano, di accorrere in aiuto
de' Veneziani insieme col famoso maresciallo di Francia _Gian-Giacomo
Trivulzio_.
Seguirono molte baruffe e saccheggi sul Trentino, e in que' contorni,
ma non di conseguenza, perchè i Franzesi teneano ordini segreti di
attendere alla difesa, e non alla offesa, per non irritar maggiormente
Massimiliano. Così non fu dalla parte del Friuli. L'animoso Alviano,
entrato nella valle di Cadore, e messi in rotta i Tedeschi, nel dì 23
di febbraio, cioè nell'ultimo giovedì di carnevale, ebbe a patti quel
castello. Nel dì seguente pose il campo a Cormons, castello assai ricco
e forte di sito, che ricusò di rendersi. Si venne all'assalto e alla
scalata, che costò molto sangue agli aggressori, e fra gli altri vi
perì Carlo Malatesta, giovane amatissimo nell'esercito, e di grande
espettazione. Il Guicciardino e il Bembo mettono la di lui morte sotto
Cadore; la Cronica veneta manoscritta, che presso di me si conserva,
scritta da chi si trovò presente a tutta la seguente guerra, il fa
morto sotto Cormons. Ebbe poi l'Alviano a patti quel castello, e per
rallegrare i suoi soldati, loro lasciollo in preda. Quindi si spinse
addosso a Gorizia, e in quattro giorni che le batterie giocarono,
ridusse nel dì 28 di marzo quel presidio a renderla. Di là si inviò
per istrade disastrose a Trieste, città molto mercantile e popolata, il
cui distretto fu in breve messo tutto a saccomano. Posto l'assedio per
terra, secondato da una squadra di navi venete per mare, fu anch'essa
obbligata a capitolare la resa, salvo l'avere e le persone. Lo stesso
avvenne a Porto Naone e a Fiume. Allora fu che Massimiliano, al vedere
andar ogni cosa a rovescio delle sue speranze, crescere il pericolo
suo, cominciò dalla parte di Trento a trattar di tregua, la quale nel
dì 30 d'aprile fu conchiusa per tre anni fra esso re dei Romani e i
Veneziani, senza voler aspettar le risposte del re di Francia.
Si rodeva di rabbia Massimiliano contra de' Veneziani, per essere
uscito con tanta vergogna e danno dal preso impegno, essendo restati
in man d'essi i luoghi occupati. Al che si aggiunse ancora il suono
di alcune canzoni satiriche pubblicate in Venezia contra di lui.
Mostravasi parimente mal soddisfatto dei Veneti il re Lodovico per
l'accordo seguito senza consentimento suo con Massimiliano. Ciò servì
poscia a riunir segretamente gli animi di questi due potentati contro
la repubblica veneta; e tanto più, perchè nelle lor massime concorreva
il pontefice, acceso di somma voglia di ricuperar le città della
Romagna, e che perciò maggiormente accendeva il fuoco altrui. Sotto
dunque lo specioso titolo di acconciar le differenze vertenti fra
Massimiliano e il duca di Gueldria patrocinato da' Franzesi, _Giorgio
d'Ambosia cardinale_ di Roano, personaggio di grande accortezza, primo
mobile della corte di Francia e legato del papa, passò a Cambrai,
per trattar ivi di lega con _Margherita vedova duchessa di Savoia_,
munita d'ampio mandato da Massimiliano suo padre. Al qual congresso
intervenne ancora, col pretesto di accelerar la pace, l'ambasciatore di
_Ferdinando il Cattolico_, principe che forse fu il primo a promuovere
questa alleanza. Nel dì 10 di dicembre fu segnata la suddetta lega
offensiva contro la repubblica di Venezia, in Cambrai fra _Massimiliano
Cesare_, _Lodovico re_ di Francia, e _Ferdinando re_ d'Aragona, e
per parte ancor di _papa Giulio II_, ancorchè il cardinal di Roano
non avesse mandato valevole a tal atto. Fu insieme lasciato luogo di
entrarvi a _Carlo duca di Savoia_, ad _Alfonso duca di Ferrara_ e a
_Francesco marchese di Mantova_, i quali a suo tempo vi si aggiunsero
anch'essi; e fu questa non meno ratificata dai principali contraenti,
che dal papa nel marzo dell'anno seguente. Per ingannare il pubblico,
altro non si pubblicò allora, se non la concordia ivi stabilita fra
Massimiliano e Carlo suo nipote dall'un canto, e il duca di Gueldria
dall'altro, e si tenne ben segreta la macchina preparata contra de'
Veneziani. Le pretensioni di queste potenze erano, per conto del
_pontefice_, di ricuperar le città di Ravenna, Cervia, Rimini e Faenza,
occupate le prime un pezzo fa, ed ultimamente le altre. L'autore
della bella storia franzese della Lega di Cambrai, creduto da molti
il cardinale di Polignac, vi aggiugne ancora Imola e Cesena, quasi
che ancor queste fossero in mano de' Veneziani, il che non sussiste.
La verità nondimeno è, che negli atti di essa lega, dati alla luce da
più d'uno, e in questi ultimi anni dal signor Du-Mont nel suo Corpo
Diplomatico, si leggono anche le suddette due città per negligenza del
cardinal di Roano. Pretendeva _Massimiliano_, chiamato ivi _imperadore
eletto_, le città di Verona, Padova, Vicenza, Trivigi e Rovereto, il
Friuli, il patriarcato di Aquileia, coi luoghi occupati nell'ultima
guerra. Così _Lodovico re_ di Francia intendeva di riacquistare
Brescia, Crema, Bergamo, Cremona e Ghiaradadda, ch'erano una volta
pertinenze del ducato di Milano, quasi che la repubblica veneta non le
possedesse da gran tempo in vigore di legittimi trattati. Finalmente
il _re Cattolico_ volea riavere i porti del regno di Napoli, già
impegnati ai Veneziani dal re Ferdinando, figlio d'Alfonso I, cioè
Trani, Brindisi, Otranto e Monopoli nel golfo Adriatico. Delle altre
condizioni di questo trattato non occorre ch'io parli, se non che per
disobbligar Cesare dal fresco giuramento della tregua di tre anni, fu
creduto sufficiente che il papa fulminasse a suo tempo un interdetto ed
altre censure orribili contro i Veneziani, se in termine di quaranta
giorni non restituivano le terre della Chiesa: dopo il qual tempo
richiedesse di assistenza lo eletto imperadore, come avvocato della
Chiesa Romana.
Diede fine in quest'anno al suo vivere e a' suoi affanni _Lodovico
Sforza_, soprannominato il Moro, già duca di Milano, dopo aver avuto
tempo di far buona penitenza in carcere de' suoi trascorsi peccati.
E siccome in que' tempi troppo era familiare il sospetto de' veleni,
corse anche voce ch'egli per questa via fosse giunto al termine de'
suoi giorni, ma senza apparire alcun giusto motivo di abbreviargli la
vita. Nel giugno eziandio dell'anno presente tornarono i Fiorentini a
dare il guasto alle biade dei Pisani, con giugnere sino alle mura della
città. Questo tante volte replicato flagello estenuò talmente le forze
del popolo pisano, che sarebbe oramai stato facile ad essi Fiorentini
di ridurlo a rendersi, se non si fossero ritenuti per li riguardi che
aveano al re di Francia e al re Cattolico, cadaun de' quali volea far
mercatanzia di quella città: cioè esigea di grosse somme, se ne doveano
permettere l'acquisto. Diedero inoltre essi Fiorentini un altro guasto
a buona parte del Lucchese, perchè non cessava quel popolo di mandar
soccorsi a Pisa.
NOTE:
[354] Giovio. Guicciardino. Mariana, De Reb. Hispan.
[355] Continuator Sabellici. Guicciardino. Istoria Veneta MS.
Anno di CRISTO MDIX. Indizione XII.
GIULIO II papa 7.
MASSIMILIANO I re de' Rom. 17.
Di grandi avventure o, per dir meglio, disavventure fu ben gravido
l'anno presente in Italia. Non si potè tener così occulto il trattato
conchiuso in Cambrai, che non traspirasse al senato veneto; e tanto
più all'osservare i grandi armamenti che si faceano in più parti. Si
cominciarono perciò molti consigli in Venezia per provvedere a turbine
sì minaccioso. Trovavasi certamente allora la repubblica veneta nel più
bell'auge della sua fortuna. Per l'Istria, per la Dalmazia, in Candia,
in Cipri, e in altre parti del Levante si stendea la sua potenza. Uno
de' più fertili e ricchi pezzi dell'Italia era sotto il suo dominio.
La sola meravigliosa e sì popolata città di Venezia potea dirsi un
emporio di ricchezze tanto del pubblico che de' privati, a cagione del
gran commercio che da più secoli faceano i Veneti per mare, della gran
copia delle lor navi, del dovizioso loro arsenale che non avea pari
in Europa. Colà si portavano le merci dell'Oriente, e particolarmente
le specierie, che si distribuivano poi per la maggior parte delle
città dell'Italia, Germania e Francia. Immenso era questo guadagno,
se non che solamente circa questi tempi cominciò a calare, per avere
i Portoghesi trovato il passaggio per mare alle Indie Orientali, e
sempre più s'andò sminuendo da lì innanzi per l'industria d'altre
potenze marittime che passano oggidì a dirittura nelle stesse Indie.
Chi vuol avere un saggio delle ricchezze che nel secolo decimoquinto
colavano in quella potente città, non ha che da leggere una parlata
fatta nell'anno 1421, dal doge _Tommaso Mocenigo_, e registrata nella
Cronica Veneta di Marino Sanuto da me data alla luce[356]. Perciò al
bisogno grandi erano le forze di quella repubblica non meno in mare che
per terra; grande ancora il coraggio, la fedeltà, l'unione. Soprattutto
la saviezza, dote inveterata in quel senato, presedeva ai lor consigli;
e per le buone e puntuali paghe che dava essa repubblica, facilmente
correvano a lei le genti d'armi e i bravi condottieri de' quali allora
abbondava l'Italia. Tentarono bensì i Veneziani coll'offerta di Faenza,
e fors'anche di Rimini, di placare il pontefice. Fecero altri tentativi
presso Cesare e presso il re Cattolico: tutto indarno, perchè niun
d'essi credette compatibile col suo onore il recedere dal pattuito
nella lega. Si accinsero dunque animosamente i Veneti ad accrescere
le lor forze, risoluti alla difesa, e misero insieme un esercito di
due mila e cento lancie, ossia d'uomini d'arme, di mille cinquecento
cavalli leggieri italiani, di mille e ottocento stradioti greci, e
di dieciotto mila fanti da guerra, a' quali aggiunsero ancora dodici
mila altri fanti delle cernide de' contadini. La Cronica scritta
a penna di autore Anonimo Padovano, ma contemporaneo, la qual si
conserva presso di me, riferisce il nome di tutti i capitani[357];
e poi confessa che almeno secento di questi uomini d'arme erano vili
famigli, perchè scelti in fretta, ed essere stati que' contadini più
atti al badile e all'aratro, che a' fatti di guerra. Poteano questi
nondimeno servire per guastatori, e per fianco ai presidiarii, secondo
le occorrenze. Oltre a ciò, gran preparamento si fece di legni armati
per mare, e ne' fiumi, e nel lago di Garda. Condussero ancora alcuni
della casa Orsina e Savella, e _Fracasso da San Severino_, condottieri
di molta gente d'armi. Ma il papa impedì loro il venire. Fu anche
impedito il passo a Giovanni conte di Comania, a Michele Frangipane
e a Bothandreas capitano della Liburnia, che doveano condurre mille
e cinquecento cavalli. Chiamati in consiglio _Bartolomeo d'Alviano_
e il _conte di Pitigliano_, generali delle lor armi, per intendere i
lor sentimenti, l'ultimo d'essi, come più vecchio, fu di parere che
si fortificassero le città di Terra ferma, e provvedute che fossero
di buon presidio, si stesse alla difesa, menando la cosa in lungo,
per li vantaggi che poteano venire dal guadagnar tempo contra una lega
facile a disciogliersi per varii avvenimenti[358]. Giudicò all'incontro
l'Alviano, che si avesse ad uscire in campagna, prima che fosse calato
in Italia col preparato nuovo esercito il re Lodovico, meglio essendo
il far la guerra in casa altrui, che l'aspettarla nella propria; e
potendo anche avvenire che si prendesse qualche città dello Stato di
Milano, la cui conquista frastornasse i primi disegni de nemici. Prese
il senato un partito di mezzo, cioè ordinò che l'esercito non passasse
l'Adda, ma si tenesse in que' contorni. Nel mese d'aprile attaccatosi
il fuoco nell'arsenale di Venezia, ne bruciò gran parte colla perdita
di dodici corpi di galee sottili, e di molte monizioni. Da lì a
pochi giorni a cagion d'un fulmine si bruciò la rocca del castello di
Brescia con tutta la polve da fuoco e tutte le munizioni. Cadde ancora
l'archivio della repubblica: avvenimenti che dalla gente superfiziale
furono presi per preliminari e presagi di maggiori sciagure.
Arrivarono di Francia in Italia nella primavera di quest'anno mille
e ducento lancie, due mila cavalli leggeri, sei mila fanti Svizzeri,
e sei altri mila Guasconi e Piccardi, che si unirono con cinquecento
lancie, mille arcieri ed otto mila fanti, che erano nello Stato di
Milano. Giunse molto più tardi anche lo stesso re Lodovico col duca
di Lorena e copiosa nobiltà franzese. Nel dì 5 d'aprile ebbe ordine
_Carlo d'Ambosia_ signor di Sciomonte, di dar principio alla danza con
una scorreria. Passato l'Adda a Cassano, prese Treviglio, Rivolta, ed
altre castella, mettendo a sacco il territorio. Nello stesso tempo
_Francesco Gonzaga_ marchese di Mantova, entrato nella lega, assalì
il Veronese, ma fu respinto da Bartolomeo d'Alviano. Prese eziandio
Casal Maggiore, ma gli convenne abbandonarlo. In questo mentre fulminò
il papa interdetti ed orribili censure contro i Veneziani, e diede
principio anch'egli alle offese. _Francesco Maria della Rovere_,
nipote d'esso papa, già divenuto duca d'Urbino per la morte del _duca
Guidubaldo_, e generale dell'esercito pontificio, corse sul Faentino,
ed assediò Brisighella, dove perirono fra soldati e abitanti più di due
mila persone: e fu dato il sacco alla misera terra, con trattar chiese
e donne come avrebbono fatto i Turchi. Ebbe esso duca anche il castello
di Russi, e di là andò a mettere il campo a Ravenna, città creduta
allora inespugnabile per le tante fortificazioni fattevi da' Veneziani.
Dacchè si furono i Franzesi impadroniti di Treviglio, il _conte di
Pitigliano_ generale primario dell'armata veneta, che s'era postato
a Pontevico, si affrettò a raunar le sue genti, e mossosi contro i
nemici, gli obbligò a ritirarsi di là dall'Adda. Ricuperati alcuni dei
luoghi perduti, perchè un buon presidio franzese tenea saldo Treviglio,
convenne adoperar le artiglierie, e venire all'assalto. Lo sostennero
i Franzesi, ma provata la risolutezza degli aggressori, e perduta la
speranza di soccorso, appresso si renderono prigioni. Dionisio de'
Naldi capitano della compagnia de' Brisighelli, che innanzi agli altri
era stato all'assalto, inviperito ancora per le disgrazie della sua
patria, ottenne il sacco dell'infelice terra. Neppur ivi tralasciato
fu alcuno sfogo dell'empietà, della crudeltà e della libidine, con
rivolgersi nondimeno in grave danno dell'armata veneta siffatta
barbarie, perciocchè non poterono i capitani ritener gran copia d'altri
soldati, che non corresse a cercar ivi bottino, di maniera che per
farli uscire di là, si ricorse al brutto ripiego di attaccare il fuoco
alla terra, la quale, dianzi ricca ed amena, si ridusse all'ultima
miseria. Di questo scompiglio profittando il re Lodovico, potè a
man salva far transitare tutto il suo esercito per li ponti che avea
sull'Adda a Cassano.
Furono a vista le due potenti armate, e il re non sospirava che di
venir ad un fatto d'armi: lo che non meno era desiderato e proposto
dall'_Alviano_ governatore del campo veneto, ed uomo assai caldo.
Ma il saggio conte di Pitigliano stette costante in sostenere che il
meglio era di temporeggiare, e vincere colla spada nel fodero, oppure
di aspettar buona congiuntura per assalirli. Vedutosi dal re, che
neppur colla sfida inviata potea tirare i Veneziani ad un conflitto,
s'inviò in ordine di battaglia dietro l'Adda per la via che conduce a
Pandino. La vanguardia era guidata da _Gian-Giacomo Trivulzio_, celebre
capitano di questi tempi. Il re con lo Sciomonte era nel mezzo. Il
_signor della Palissa_ conducea la retroguardia. Similmente si mosse
l'armata veneta, e per altro cammino andò fiancheggiando la nemica.
L'Alviano guidava la vanguardia, il conte di Pitigliano il corpo
di battaglia, e Antonio de' Pii coi legati veneti la retroguardia.
O per accidente delle strade, o per industria dei Franzesi, tanto
s'avvicinarono i due eserciti, che l'Alviano, quando men sel pensava,
si trovò necessitato a menar le mani, e si venne ad un terribil fatto
di armi nel dì 14 di maggio, due miglia lungi da Pandino, in luogo
appellato l'Agnadello. Con sommo valore si combattè da ambe le parti.
Ma non passarono tre ore, che toccò la vittoria ai Franzesi. Circa
dieci mila restarono morti sul campo, i più nondimeno italiani. V'ha
chi dice otto, e chi solamente sei mila, secondo il costume dell'altre
battaglie. Slargò ben la bocca il Buonaccorsi con dire uccisi quindici
mila e più de' Veneziani. L'Alviano, ferito in volto, restò prigione,
e solamente dopo tre anni fu rimesso in libertà. La strage fu nella
fanteria veneta, perchè la cavalleria non tenne saldo. Rimasero padroni
i Franzesi del campo, di molta artiglieria, insegne e munizioni. Più
strano è il trovar qui discordia fra gli scrittori in un punto di
somma importanza: cioè, se crediamo al Guicciardino[359], il conte di
Pitigliano _colla maggior parte si astenne dal fatto di arme_, o perchè
già vide disperato il caso per la rotta dell'Alviano, o per isdegno
contra di lui per avere, contro l'autorità sua, preso a combattere.
Fra Paolo dei Cherici carmelitano veronese, che fiorì in questi tempi,
e condusse la sua Storia manoscritta sino al 1537, scrive[360], che
esso conte e i provveditori veneti, sbaragliato che fu l'Alviano,
vergognosamente se ne fuggirono. L'autore Anonimo Padovano della
Storia Veneta sopraccitata asserisce[361] che il Pitigliano entrò
colle sue schiere nel fatto d'armi, e gli convenne voltar le spalle.
Lo che vien confermato da un'altra Storia veneta manoscritta, il cui
autore veneziano pretende[362] che alcuni capitani italiani usassero
tradimento, conchiudendo infine che il Pitigliano con pochi si salvò
a Caravaggio. Il Bembo[363] e Pietro Giustiniano[364] passano sotto
silenzio questo punto. Ben pare che se il Pitigliano fosse stato colle
mani alla cintola in sì gran bisogno, si sarebbe tirato addosso un
rigoroso processo.
Certo è che tutto l'esercito franzese unito combattè, laddove il
Pitigliano arrivò a combattere solamente dappoichè l'Alviano era in
rotta. Se unita tutta l'armata veneta fosse stata a fronte de' nemici,
poteva essere diverso il fine di quella giornata.
Dappoichè il re Luigi ebbe solennizzata in più forme questa vittoria,
appellata dipoi di Ghiaradadda, e ordinato che ivi si fabbricasse una
Chiesa col titolo di santa Maria della Vittoria, non perdè tempo a
profittare di sì buon vento. Impadronissi di Caravaggio e di tutta la
Ghiaradadda; e giacchè era corso il terrore per tutte le città venete,
poco stette a rendersegli Cremona, per opera di Soncino Benzone, di
cui troppo s'erano fidati i Veneziani. Appresso vennero i Cremonesi
alla divozion de' Franzesi, e da lì a qualche tempo anche la fortezza.
Altrettanto fece Bergamo. La nobiltà parimente e il popolo di Brescia,
veggendo imminente l'assedio, e prevedendo la propria rovina, al primo
comparir delle armi franzesi, mandarono al re le chiavi della loro
città, giacchè aveano dianzi ricusato di ricevere dentro il presidio
veneto. Cavalcò dipoi il re al forte castello di Peschiera, dove
il Mincio esce dal lago, e, fatta colle artiglierie buona breccia,
si venne all'assalto. Stanchi finalmente i cinquecento fanti che
erano ivi di presidio, più volte fecero segno di volersi rendere,
ma non esauditi, furono infine tagliati tutti a pezzi dai Franzesi,
entrati colà a forza d'armi. Pietro Giustiniano, il Guicciardino e il
Buonaccorsi scrivono che Andrea Riva provveditor veneto vi fu impiccato
ai merli col figliuolo. Con questa barbarie turchesca si facea la
guerra in que' tempi da' principi cristiani. Avrebbe anche potuto il re
Luigi passare il Mincio, e insignorirsi di Verona, perchè quel popolo,
sull'esempio de' Bresciani, non avea voluto ammettere la guarnigion
destinata dai Veneziani. Ma perchè il paese di là dal Mincio era
riserbato a Massimiliano Cesare, non se ne volle ingerire. Per tante
calamità, e perchè riparo non v'era alla diserzion continua delle poche
milizie che s'erano salvate somma era la costernazione in Venezia. Il
creduto migliore ripiego, a cui s'appigliò quel saggio Senato, fu di
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