Annali d'Italia, vol. 6 - 11

ed, entrato in Pisa, vi fu ben veduto. Così per ora vergognosamente
ebbe fine la guerra dei Pisani, e si mormorò forte d'essi dappertutto
per la morte data al Vitelli. Nello stesso giorno, che tolta dicemmo
la vita al Vitelli, pagò il suo debito alla natura _Marsilio Ficino_
Fiorentino, ristoratore in Italia della filosofia platonica, ed uno de'
più insigni letterati che s'abbia avuto l'Italia.
Niun interesse stava in questi tempi più a cuore al novello re di
Francia _Lodovico XII_ che la meditata conquista del ducato di Milano
e del regno di Napoli, de' quali si pretendeva egli erede: dell'uno,
per le ragioni di _Valentina Visconte _avola sua; dell'altro, per la
cessione fattane già dalla casa d'Angiò alla corona di Francia[325].
Prese egli le necessarie misure per tali imprese, facendo pace
coi _re_ di _Spagna_ e d'_Inghilterra_, e con _Massimiliano re_
de' Romani, e nello stesso tempo procacciando di aver le potenze
d'Italia a sè favorevoli, o almeno non opposte a' disegni suoi. Colle
grazie compartite a _Cesare duca_ Valentino s'era egli affezionato
_papa Alessandro VI_; e più ancora se ne prometteva, dacchè esso
pontefice, in cuore di cui il primo mobile era l'ingrandimento de'
proprii figliuoli, non avea potuto indurre _Federigo re_ di Napoli a
concedere una sua figliuola in moglie del suddetto duca Valentino, e
il principato di Taranto in dote; e però tutte le mire della grandezza
del figliuolo avea rivolte alla corte di Francia. Infatti l'accorto
re Lodovico non ebbe difficoltà di promuovere le nozze d'esso duca
Valentino con una figliuola di _Giovanni d'Albret_ re di Navarra
del real sangue di Francia, con condizione nondimeno che il papa la
dotasse di ducento mila scudi, e promovesse al cardinalato _monsignor
d'Albret_ fratello di quella principessa. In questa maniera tanto il
papa, quanto il duca suo figliuolo diventarono affatto franzesi, e
alli dieci di maggio seguì il matrimonio suddetto: del che sommamente
si rallegrò il papa. Ma niuno potea maggiormente ostare in Italia
alle idee del re Lodovico, che la potenza veneta. Trovò egli la via di
guadagnare ancor questa. Oltre all'essere i Veneziani mal soddisfatti
di _Lodovico il Moro_, considerato da essi per uomo pieno sempre di
doppiezze, e per traditore, massimamente pel fresco affare di Pisa,
il re gli invitò ad entrar seco in lega contro del medesimo Lodovico,
con esibir loro Cremona, città comodissima agli Stati di quella
repubblica. Per sì vantaggiosa esibizione prestò volentieri l'orecchio
quel senato alle proposizioni del re, e solamente fece istanza che
a Cremona s'aggiugnesse anche la Ghiaradadda; e il re liberalmente
accordò quanto vollero, pensando forse fin d'allora di ripigliarsela,
e con buona derrata, a suo tempo[326]. Fu pubblicata questa lega nel dì
25 di marzo, ed in essa entrò dipoi anche il papa, con patto che il re
prestasse aiuto al duca Valentino, per conquistare Imola, Faenza, Forlì
e Pesaro.
Intanto il re di Francia, essendosi collegato ancora con _Filiberto
duca_ di Savoia, cominciò a spedir soldatesche ad Asti sotto il comando
di _Gian-Giacomo Trivulzio_, sperimentato capitano, e nemico del duca
di Milano, che l'avea spogliato di tutti i suoi beni. Mandò ancora il
_conte di Lignì_ e il _signor d'Obignì_ con altre genti d'armi; ed
egli, per dar più calore alla guerra già determinata contra d'esso
duca di Milano, e per essere maggiormente a portata per li bisogni
occorrenti, si portò in persona a Lione. Fra il Trivulzio e i Guelfi
del ducato di Milano passavano intelligenze ed intrinsichezze di
molta conseguenza. Lodovico poi per li suoi vecchi peccati e per le
nuove sue estorsioni era odiato dai più, nè gli sconveniva il nome
di tiranno. Fece egli un potente armamento di gente, e general d'essa
_Gian-Galeazzo San Severino _genero suo; ma contra di lui era lo sdegno
di Dio[327]. Nell'agosto diedero i Franzesi principio alla guerra. Dopo
aver preso i due forti castelli d'Arazzo ed Anone, s'impadronirono
di Valenza. Tortona spontaneamente mandò loro le chiavi, e, senza
voler aspettare la forza, s'arrenderono Voghera, Castelnuovo e Ponte
Corone. Nel medesimo tempo i Veneziani coll'esercito loro entrarono
nella Ghiaradadda, e s'impossessarono di Caravaggio. Passò l'esercito
franzese sotto Alessandria. V'era dentro il general dello Sforza, cioè
il San Severino, con una poderosa guarnigione; ma vi era eziandio
il _conte di Gaiazzo_ suo fratello, capitano altresì dello Sforza,
segretamente già accordato co' Franzesi. Lo stesso Gian-Galeazzo
due dì dopo l'assedio all'improvviso se ne fuggì di Alessandria, con
dir poi d'essere stato ingannato da una lettera finta sotto nome di
_Lodovico Sforza_ duca di Milano: il che gli fece dubitar della sua
testa. Comunque sia, certo è che la sua partenza sbigottì sì forte il
presidio di quella città, che molti si diedero alla fuga, e i Franzesi
entrati spogliarono il resto di quei soldati, e misero poi a sacco
l'infelice città. Mortara e Pavia neppur esse fecero resistenza. Tutte
queste disavventure, e in poco tempo succedute, fecero conoscere a
Lodovico il Moro che era venuto il tempo di provar la mano di Dio
sopra di sè e sopra la sua famiglia. E però, deliberato di ritirarsi in
Germania, mandò innanzi i figliuoli, e con loro il tesoro, consistente
in ducento quaranta mila scudi d'oro oltre alle gioie e perle. Dopo
aver deputato alla custodia del castello di Milano, benchè contro
il parere dei suoi, _Bernardino da Corte_ con tre mila fanti, e
munizioni senza fine, perchè conservandosi questo, sperava coll'aiuto
dell'imperador _Massimiliano_ e degli Svizzeri di ritornare in casa;
nel dì 2 di settembre ito a Como, passò dipoi nel Tirolo. Allora il
popolo di Milano spedì ambasciatori al campo franzese, invitandolo a
venire, e restò in breve consolato. Tutte le altre città del ducato di
Milano prestarono anch'esse ubbidienza ai Franzesi, fuorchè Cremona
che, secondo i patti, venne in potere de' Veneziani. Successi tali e
mutazioni sì subitanee, accadute senza spargere una stilla di sangue,
fecero inarcar le ciglia a tutti gl'Italiani, ed empierono di terrore
_Federigo re_ di Napoli, il quale nelle disgrazie di _Lodovico ii
Moro_ cominciava già a leggere le proprie. Non passarono dodici giorni
dopo la fuga del duca che il creduto sì fedele Bernardino da Corte,
senza aspettare un colpo d'artiglieria, per gran somma di danaro vendè
l'allora creduto inespugnabil castello di Milano ai Franzesi, con tanta
infamia del suo nome, che venne dipoi riguardato come un mostro, e
fuggito e maledetto da ognuno, e fin dagli stessi Franzesi, in guisa
tale che, non potendo reggere al dolore e all'obbrobrio, da lì a pochi
giorni finì di vivere, seppur non fu aiutato a terminare la vita.
Di così prosperosi avvenimenti informato il _re Lodovico_, da Lione
calò in Italia, e fece la sua solenne entrata in Milano nel dì 6
d'ottobre[328], accolto con istrepitosi viva da quel popolo, che,
liberato dall'aspro giogo di Lodovico il Moro, sperava giorni più
lieti sotto il governo franzese. Essendo stato lasciato in Milano
_Francesco Sforza_ picciolo figliuolo del morto duca _Gian-Galeazzo_
colla _duchessa Isabella_ sua madre, fu poi condotto dal re in Francia,
e dedicato alla vita monastica. Isabella nell'anno seguente se ne
ritornò a Napoli ad essere spettatrice della final rovina della real
sua casa _Gian-Giacomo Trivulzio_, da cui principalmente riconobbe il
re un sì presto e felice acquisto del ducato di Milano, ebbe in dono
la nobil terra di Vigevano. Nè fu pigra la città di Genova a spedire
ambasciatori, e a darsi con onorevoli condizioni al trionfante re
di Francia. Giunsero a fargli riverenza anche gli ambasciatori de'
Fiorentini, i quali, non ostante molta contrarietà, conchiusero lega
con lui. Intanto asprissima guerra ai Veneziani facea _Baiazetto_
imperador de' Turchi non solo in Levante, ma sino nel Friuli, dove
penetrarono que' Barbari, commettendo innumerabili crudeltà. Persona
non vi fu che non credesse avere _Lodovico il Moro_ sollecitati
quegl'infedeli contra de' Veneziani per vendicarsi di loro, siccome
principal cagione della rovina di lui e della felicità de' Franzesi,
della quale non di meno cominciarono essi Veneziani a pentirsi ben
tosto, e maggiormente poi ebbero a pentirsene ne' primi anni del secolo
susseguente. Ed ecco darsi principio negli ultimi mesi di quest'anno
ad un'altra guerra in Romagna. Era tutto lieto _papa Alessandro_ per
li progressi delle armi franzesi in Lombardia, perchè, secondo i patti,
doveano queste aiutare il _duca Valentino_ suo figliuolo a conquistare
le città d'essa Romagna, destinata più di ogni altra contrada ad essere
il magnifico principato della casa Borgia. Trovò egli in questi tempi
delle ragioni di torre alla casa de' Gaetani Sermoneta con altre terre,
delle quali immediatamente investì _Lucrezia Borgia_ sua figliuola,
moglie in questi tempi di _don Alfonso_ d'Aragona duca di Biseglia, e
dichiarata governatrice perpetua di Spoleti e del suo ducato. Poscia
si diede il pontefice a spronare il _re Lodovico_, acciocchè prestasse
la promessa gagliarda assistenza al duca Valentino per la guerra
disegnata contra dei signori di Romagna e della Marca, cioè contra
degli _Sforza_ di Pesaro, de' _Malatesti_ di Rimini, de' _Manfredi_
di Faenza, dei _Riarii_ d'Imola e Forlì, de' _Varani_ di Camerino e
de' conti di Montefeltro _duchi d'Urbino_: Teneano questi signori con
bolle pontificie le loro città: non importa; doveano queste cedere al
bisogno di stabilire la grandezza della casa Borgia; e pretesti di
spogliarne i padroni non mancavano a chi voleva alzare un maestoso
edilizio sopra la loro rovina: che questa fu di ordinario l'origine
e la mira delle guerre fatte dai pontefici di que' tempi, non mai
contenti, finchè non alzavano i suoi figliuoli o nipoti al grado e
dominio principesco, con tradire manifestamente l'intenzione di Dio e
della Chiesa nel sublimarli a quella sacrosanta dignità. Venuto dunque
il _duca Valentino_, accompagnando sempre il _re Lodovico_ da Lione a
Milano, e spalleggiato dai pressanti uffizii del pontefice, ottenne dal
re un grosso corpo di gente; che, unito colle soldatesche pontificie,
si trovò capace di eseguir poscia felicemente i di lui disegni. Dopo
un mese di dimora in Milano se ne tornò il re in Francia, lasciando il
governo dello stato di Milano nelle mani del valoroso maresciallo suo
_Gian-Giacomo Trivulzio_[329]; ed allora, cioè nella metà di novembre,
anche il duca Valentino con due mila cavalli e sei mila fanti venne
a piantar l'assedio ad Imola. Poca resistenza fece quella città: la
rocca si tenne lo spazio di venti giorni, e poi capitolò. Passò di là
all'assedio di Forlì. Dentro v'era _Caterina Sforza_, donna d'animo
virile, vedova del già conte _Girolamo Riario_, che vigorosamente si
mise alla difesa. Con tali strepitosi avvenimenti ebbe fine l'anno
presente.

NOTE:
[324] Guicciardini, Istoria d'Italia. Sanuto, Istoria di Venezia, tom.
22 Rer. Ital. Ammirati, Istoria di Firenze. Nardi, Istoria di Firenze.
[325] Belcaire. Hist. Guicciardini, Istoria d'Italia. Corio, Istor. di
Milano. Giovio, ed altri.
[326] Navagero, Istoria di Venezia, loro. 24 Rer. Ital. Corio, Istoria
di Milano.
[327] Guicciardini, Istoria d'Italia. Corio, Istor. di Milano.
Navagero, Istoria di Venezia. Sanuto, Istor. Venet., tom. 22 Rer. Ital.
[328] Diar. di Ferrari, tom. 24 Rer. Ital. Sanuto, Istoria di Venezia,
tom. 22 Rer. Ital. Corio, Istoria di Milano. Guicciardini, Istor.
d'Italia. Belcaire, Histoire, ed altri.


Anno di CRISTO MD. Indizione III.
ALESSANDRO VI papa 9.
MASSIMILIANO I re de' Rom. 8.

Continuò il _duca Valentino_ sul principio di quest'anno, l'assedio di
Forlì[330]. Perduta la città, _Caterina Sforza_ si ridusse alla difesa
della cittadella e della rocca, mostrando in ciò non men vigilanza e
bravura che i più esperti e veterani uffiziali. Ma, per li frequenti
colpi delle artiglierie, caduta parte del muro, ed aperta ampia
breccia, per quella entrarono le genti del Valentino con tal prestezza,
che raggiunsero i soldati di Caterina nel ritirarsi che faceano nella
rocca; ad entrati in essa, della medesima s'insignorirono, ammazzando
chi venne loro alle mani. Caterina rifugiatasi in una torre, con
alcuni pochi fu fatta prigione, e mandata dipoi a Roma, e custodita
in castello Sant'Angelo. Ma _Ivo d'Allegre_, capitano delle milizie
franzesi ausiliare del duca Valentino, preso da ammirazione del
coraggio di questa insigne dama e principessa, e da compassione al suo
sesso, ne impetrò, da lì a non molto, la liberazione. Divenne poi,
o, per dir meglio, era divenuta essa Caterina moglie di _Giovanni
de Medici_, padre di quel _Giovanni_ che nel secolo susseguente si
acquistò la gloria di prode capitano, e generò _Cosimo_, che fu primo
granduca di Toscana. Le iniquità commesse da' Franzesi in Forlì furono
indicibili. Non potè per allora il duca Valentino proseguir il corso
di sua fortuna, perchè, insorte nel ducato di Milano le novità, delle
quali parlerò fra poco, dovette accorrere colà il signor di Allegre
colle milizie regie, dopo aver lasciata in Romagna memoria per un pezzo
delle immense ruberie, disonestà ed altre ribalderie da loro commesse.
Impadronitosi dunque d'Imola, Cesena e Forlì, se ne tornò a Roma il
_duca Valentino_, dove volle far la sua entrata come trionfante con
incredibil pompa e corteggio nel dì 26 di febbraio. Era questo l'anno
del giubileo, in cui se i cristiani guadagnarono le indulgenze dei loro
peccati, anche _papa Alessandro_ seppe guadagnare dei gran tesori[331],
perchè concedea per tutta la cristianità quelle indulgenze medesime
a chi non potea venire a Roma, purchè pagassero il terzo di ciò che
avrebbono speso nel viaggio: alla raccolta del qual danaro furono
deputati dappertutto i questori; e questo danaro, colle decime imposte
al clero, e la vigesima agli Ebrei, dovea poi servire, secondo i soliti
pretesti, per far la guerra contro al Turco; ma servì infine ad altri
usi. Nonostante l'anno santo un lieto carnovale si fece in Roma, e
il duca Valentino lasciò, in tal occasione, la briglia al suo fasto
con giuochi e feste di indicibil magnificenza e spesa, per le quali
nobilissime azioni meritò d'essere dichiarato gonfaloniere della santa
Romana Chiesa.
Pochi mesi erano soggiornati in Milano e nelle altre città di quel
ducato i Franzesi, che la poca disciplina da loro osservata in
quei tempi, e la sfrenata lor disonestà, di cui molto parlano le
storie[332], cominciò ad essere di troppo peso a que' popoli, e a farli
sospirar di nuovo il governo degli abbattuti loro principi. Quel che è
più, mal sofferendo i Ghibellini, potente fazione in quelle contrade,
che _Gian-Giacomo Trivulzio_, capo de' Guelfi, comandasse le feste,
cominciarono ad animare al ritorno _Lodovico il Moro_ e il _cardinale
Ascanio_ suo fratello. Questi per tanto, giacchè andarono loro ben
presto fallite le speranze poste in _Massimiliano_ re de' Romani,
principe negligentissimo ne' propri affari, privo sempre e sempre
sitibondo di danaro, si rivolsero agli Svizzeri con assoldarne otto
mila, e misero insieme ancora cinquecento uomini d'arme borgognoni. Sul
fine di gennaio, senza perdere tempo, calarono essi pel lago di Como
a quella città, che aprì loro le porte. Bastò questo perchè il popolo
di Milano si levasse a rumore, gridando: _Moro, Moro_. Mossesi ancora,
perchè Lodovico avea lor fatto credere di venire con un esercito
infinito: il che non fu vero. Si rifugiarono i Franzesi nel castello,
e il Trivulzio si ritirò a Mortara. Sul principio di febbraio giunse
prima il cardinale Ascanio, poscia Lodovico a Milano con festa di quel
popolo. Ed amendue si affrettarono ad assoldar quante genti d'armi
poterono. Anche le città di Pavia e di Parma alzarono le bandiere del
Moro: altrettanto erano per fare Piacenza e Lodi, se, chiamati in aiuto
i Veneziani dai Franzesi, non vi fossero entrati colle loro milizie.
Tornò bensì all'ubbidienza di esso Moro Tortona; ma, sopraggiunto
colà _Ivo di Allegre_ colle soldatesche richiamate dalla Romagna, ed
assistito dai Guelfi, ricuperò quella città, mettendo dipoi a sacco non
meno i Ghibellini nemici, che i Guelfi amici. Passò _Lodovico il Moro_
all'assedio di Novara, ed, obbligati i Franzesi a rendere la città,
si diede a bersagliar la fortezza tuttavia resistente. Fu mirabile
intanto la sollecitudine del _re Lodovico_ per ispedire in Lombardia
nuove genti sotto il comando del signore _della Tremoglia_, di maniera
che sul principio d'aprile questo capitano, unito col _Trivulzio_ e
col _conte di Lignì_, ebbe in pronto un'armata di mille e cinquecento
lancie, dieci mila fanti svizzeri e sei mila franzesi, co' quali si
appressò a Novara. Pure più ne' tradimenti che nelle forza delle lor
armi riposero i comandanti franzesi la speranza di vincere.
Già s'erano intesi gli uffiziali svizzeri militanti per la Francia
con quei che erano al servigio di _Lodovico il Moro_, promettendo
loro una gran somma di oro; e menarono così accortamente la loro
trama, che venne lor fatto di tradire il duca con eterna infamia del
loro nome. Col pretesto dunque di non voler combattere coi proprii
fratelli, gli Svizzeri tedeschi abbandonarono Lodovico il Moro, e con
licenza dei Franzesi uscirono di Novara per tornarsene al loro paese.
Per misericordia ottenne Lodovico di poter fuggire con loro, e tanto
egli come i tre San Severini travestiti da Svizzeri marciarono colla
truppa, per ridursi in salvo. Scoperti dai traditori, furono tutti e
quattro fermati e fatti prigionieri nel dì 10 d'aprile: spettacolo
sì miserabile, che trasse le lagrime insino a molti dei nemici. Si
sbandò per questa calamità il resto delle truppe sforzesche; e, portata
la dolorosa nuova a! _cardinal Ascanio_, che attendeva in Milano
all'assedio del castello, tosto si partì anch'egli da quella città,
ed inviossi frettolosamente alla volta del Piacentino per non essere
colto[333]. Ma giunto la notte a Rivolta, castello del conte _Corrado
Lando_ suo amico, e quivi avendo preso riposo, trovò quella sfortuna
ch'egli andava fuggendo. Imperocchè, avvisati di ciò _Carlo Orsino_
e _Soncino Benzone_, capitani delle genti veneziane che stavano in
Piacenza, cavalcarono speditamente colà, e colla forza obbligarono
il conte Lando (ingiustamente accusato da alcuni di tradimento) a
consegnar loro l'infelice porporato, con _Ermes Sforza_, fratello del
morto duca _Gian-Galeazzo_, e con altri gentiluomini di sua famiglia.
Fu mandato a Venezia il cardinale; ma il re Lodovico prima colle
preghiere, e poi colle minaccie di guerra, tanto battè, che l'ebbe
nelle mani. Furono condotti in Francia questi sventurati principi.
_Lodovico il Moro_ confinato nel castello di Loches nel Berrì in una
oscura camera senza libri, senza carta ed inchiostro, ebbe quanto
tempo volle per potere riflettere alla caducità delle umane grandezze,
e ai frutti della smoderata sua ambizione e vanità, cioè alla cagione
delle sue e delle altrui rovine, per aver chiamato in Italia le armi
straniere, ed assassinato il proprio nipote, essendo esso Lodovico
dopo dieci anni di prigionia mancato poi di vita. Al _cardinale
Ascanio_, che con intrepidezza accolse le sue disavventure, fu data
per carcere la torre di Borges, quella stessa dove il medesimo _re
Lodovico_, allorchè era duca d'Orleans, tenuto fu prigione: tanto è
varia e suggetta a peripezie la sorte de' mortali. Poca cura si prese
del cardinal suddetto _papa Alessandro_, siccome venduto al volere
dei Franzesi, e però solamente sotto il pontefice _Giulio II_ riebbe
Ascanio la sua libertà.
In gran pericolo di un sacco si trovò il popolo di Milano dopo la
caduta del Moro; ma, avendo essi inviata un'ambasceria ai _cardinal
di Roano_, che veniva spedito dal re in Italia per governatore,
impetrarono che il gastigo si riducesse al pagamento di trecento mila
ducati d'oro: pena che loro fu anche per la maggior parte rimessa
dalla clemenza del saggio _re Lodovico_. Non potè poi resistere esso
re alle premure di _papa Alessandro_, che di nuovo gli fece istanza
di gente[334], affinchè il _duca Valentino_ terminasse il sospirato
conquisto della Romagna. Questi erano allora i gran pensieri del
pontefice, il quale poco avea profittato di un indizio dello sdegno di
Dio contro la di lui persona, che sì malamente corrispondeva ai doveri
del sacrosanto suo ministero. Imperciocchè nella festa di san Pietro
svegliatosi un terribil vento, con gragnuola e fulmini, rovesciò il
più alto camino del Vaticano con tal empito, che il suo peso ruppe
il tetto, e due travi della stanza superiore alla pontificia. Penetrò
questa rovina nella stanza medesima, dove dimorava il papa, con essersi
rotto un trave. Vi perirono _Lorenzo Chigi_ gentiluomo sanese, e due
altre persone. Lo stesso papa si trovò bensì vivo sotto le pietre,
ma stordito e leso ancora in più parti del corpo. Per buona ventura,
quel trave ch'era caduto servì a lui di riparo. Questo colpo, invece
di servire di paterno avviso ad Alessandro per farlo ravvedere, il
confermò piuttosto nella persuasione della protezion del cielo; e
però, dopo un pubblico ringraziamento a Dio che lo avesse preservato
dalla morte, seguitò lo scandaloso cammino di prima. Fu in questi
tempi assassinato da alcuni sgherri _don Alfonso_ d'Aragona marito
di _Lucrezia Borgia_; e perchè le ferite non furono sufficienti, a
levarlo di vita, il veleno diede compimento all'opera. Ne fu creduto
autore il _duca Valentino_, il quale, divenuto tutto franzese, e
volendo andar unito con quella corona alla distruzion degli Aragonesi,
giudicò meglio di levar di mezzo un parentado sì fatto, siccome quello
che più non si adattava alle mire presenti. Impetrato dunque ch'ebbe
esso duca Valentino un possente soccorso di Franzesi, condotto da
_Ivo d'Allegre_, nel mese di ottobre ricominciò la guerra in Romagna.
Non durò fatica ad impossessarsi di Pesaro, perchè _Giovanni Sforza_,
già di lui cognato, si ritirò per tempo, non volendo che per cagion
sua ricevessero danno immenso que' cittadini[335]. Anche _Pandolfo
Malatesta_ gli cedè il campo, e fecegli aprir le porte di Rimini. La
sola Faenza, dove egli si trasferì dipoi, fece gagliarda resistenza,
perchè il giovinetto _Astorre de' Manfredi_ signor della terra si trovò
così ben sostenuto dall'amore e dalla fedeltà de' suoi sudditi, che
rendè per questo anno inutili i di lui sforzi, benchè poi nel seguente
gli convenisse cedere alla forza, e restar poi vittima della lussuria e
della crudeltà del duca Valentino. Guerra ancora fu nell'anno presente
in Toscana, più che mai ardendo di voglia i Fiorentini di ricuperare
la città di Pisa. Ebbero soccorsi dal re di Francia; condussero ancora
al loro soldo qualche migliaio di Svizzeri, gente ch'avea cominciato
ad essere alla moda di questi tempi. Fu posto il campo a quella città,
si venne all'assalto; ma essendosi valorosamente difeso quel popolo,
segretamente aiutato da' Genovesi, Sanesi e Lucchesi, ed insorte
appresso molte discordie dalla parte dei Francesi e degli Svizzeri,
appoco appoco si sciolse quell'esercito, altro non riportandone i
Fiorentini se non vergogna e un incredibil danno al proprio erario.
Con tali imprese terminò l'anno; ebbe fine il secolo presente, e fine
ancora farò io a questi racconti.


CONCLUSIONE DELL'OPERA


Meco è venuto il lettore osservando i principali avvenimenti
dell'Italia per tanti passati anni. S'egli da per sè finor non ha
fatta una riflessione assai facile, naturale ed importante, gliela
ricorderò io prima di congedarmi da lui. Ed è quella, che chiunque ora
vive, per quel che riguarda il pubblico stato delle cose, e non già
il privato d'ogni particolare persona, avrebbe da alzare le mani al
cielo, e ringraziare Iddio d'essere nato piuttosto in questo che ne'
secoli da me fin ora descritti. Non mancarono certamente anche ne'
lontani tempi alcuni principi buoni, vi furono talvolta continuati
giorni di pace, magnifici spettacoli e delizie. Nè si può negare che
negli ultimi predetti secoli, cioè dopo il mille e cento, di gran
lunga abbondasse più l'Italia di ricchezze che oggidì. Tuttavia,
considerando all'ingrosso que' tempi, nulla vede chi non vede il
gran divario che passa fra questi e quelli. Miravansi allora tanti
piuttosto tiranni che principi, crudeli fin col proprio sangue, non
che verso i lor sudditi. Oggidì sì moderati, sì benigni, sì clementi
troviamo i regnanti. Per lo più tutto era allora guerra, e guerra
senza legge, andando ordinariamente in groppa con essa i saccheggi,
gl'incendii ed ogni sorta di ribalderie. In questo infelice stato
abbiam lasciata poc'anzi l'Italia, e per moltissimi anni vi continuò
essa dipoi. Per lo contrario, se oggidì guerra si fa (e pur troppo si
fa con aggravio di molti paesi), pochi son quei monarchi e generali
che si dimentichino di esser cristiani e di guerreggiar con cristiani.
Del resto, una invidiabil tranquillità s'è lungamente goduta, e ne
sono stati partecipi anche i giorni nostri: bene temporale che non si
può abbastanza apprezzare. Che terribili, anzi indicibili sconcerti e
disastri poi producesse una volta la frenesia delle fazioni _guelfa_ e
_ghibellina_, nol può concepire, se non chi legge le storie particolari
delle città italiane, e truova come fossero frequenti nel pubblico
e ne' privati le nemicizie, gli omicidii, le prepotenze, gli esilii
e i capestri. Per misericordia di Dio restò in fine libera da tante
perniciose pazzie l'Italia, nè più v'ha città, da cui sia
per questo bandita la quiete e la pubblica concordia. A cagion delle
guerre suddette, e della poca cura degl'Italiani, francamente una
volta si introduceva in queste contrade la pestilenza, e, portando la
desolazione da per tutto, col penetrare d'uno in un altro paese, era
divenuta oramai un malore non men familiare e stabile fra noi, che sia
fra' Turchi. Le diligenze che si usano oggidì han provveduto a questo
flagello; e se queste non si rallenteranno, non ne faran pruova neppure
i posteri nostri. Che se a talun poco pratico sembrasse talora che i
tempi correnti si scoprissero meno nemici della lussuria di quel che
fossero i già passati, sappia ch'egli travede. Talmente sfrenato era
talvolta questo vizio, che, in paragon d'allora, quasi beata si può
chiamare l'età nostra. E molto più merita essa questo nome, dacchè la
pulizia de' costumi e le lettere, cioè le scienze ed arti tutte sono
ora in tanto auge e splendore; laddove rozzi erano negli antichi secoli
i costumi, l'ignoranza occupava non solamente i bassi, ma anche i più
sublimi scanni. Aggiungasi a questo, esser data allora negli occhi
d'ognuno la scorretta vita dell'uno e dell'altro clero; infezione
giunta sino agli stessi pastori, ed anche ai primi della Chiesa di
Dio, e disavventura che non si può nascondere nè abbastanza deplorare
per gli scandali infiniti che ne derivarono. Corrono già ducento anni
ch'è tolta questa pessima ruggine dalla Chiesa di Dio, nè più van
pettoruti i vizii in trionfo, essendo migliorati i costumi, accresciuta
la pietà, e levati molti abusi dei barbarici secoli: motivi tutti a
noi di chiamar felice il secolo nostro in confronto di tanti altri da
noi fin qui osservati. Nè venga innanzi alcuno con dire di trovar egli
de' pregi e del buono ne' secoli andati, e forse qualche bene di cui
ora siam privi; aggiunga ancora osservarsi tuttavia de' difetti ne'
governi tanto ecclesiastici che secolari, il lusso di troppo cresciuto,
l'effeminatezza negli uomini, la libertà nelle donne ed altri sì
fatti malanni; che gli si dimanderà se sappia qual cosa sia l'uomo e
qual sia il mondo presente. Ha da uscire fuor di questo globo chi non
vuol vedere vizii, peccati, difetti e guai. Intanto a chi bramasse la
continuazione della storia d'Italia, facile sarà il trovarla maneggiata
dalle penne di molti storici italiani. Ne ho ancor io recato un buon
saggio nella parte II delle Antichità Estensi, già data alla luce; e
però tanto più mi credo disobbligato dal farne una nuova dipintura.


ANNALI
D'ITALIA
DALL'ANNO 1501 FINO AL 1750.


PREFAZIONE


DI
LODOVICO ANTONIO MURATORI

Dappoichè ebbi condotto gli Annali d'Italia fino all'anno di Cristo
1500, aveva io deposta la penna con intenzione di non proseguir più