Annali d'Italia, vol. 5 - 38

aggiustamento. Vivamente si raccomandò poscia Mastino a _Lodovico
il Bavaro_, per aver gente ed altri aiuti da lui, con dargli in
ostaggio Francesco Cane suo figliuolo ed altri nobili per sicurezza
de' pagamenti; ma restò burlato da lui. Poco poi potè godere del
nuovo suo principato _Marsilio da Carrara_ signore di Padova, perchè,
infermatosi, nel dì 21 di marzo dell'anno presente mancò di vita.
Non lasciando egli figliuoli proprii, prima di morire, coll'assenso
della repubblica veneta, fece eleggere suo successore nella signoria
di Padova _Ubertino da Carrara_ suo cugino, che stato nella gioventù
discolo e malvivente, cominciò a governare il suo popolo, più
procurando di farsi temere che amare[1309]. Per altro fu uomo di gran
senno, e tenne in molta riputazione il nome suo e di sua casa. La
prima impresa di lui quella fu di portarsi all'assedio di Monselice,
per affrettarne il più tosto possibile l'acquisto. Ma dentro vi era
_Pietro del Verme_, la cui fedeltà verso Mastino, ed insieme la bravura
ed accortezza rendea vani tutti i tradimenti e gli assalti d'Ubertino.
Fecero fra loro una guerra arrabbiata. Intanto _Orlando Rosso_ generale
dell'armata veneta nel mese d'aprile mise in marcia le sue genti, e
saccheggiando pervenne fino alle porte di Verona, dove fece correre
un palio. Nel dì 8 di maggio se gli diede Montecchio maggiore, terra
che da lì a non molto fu assediata da Mastino. Fu egli astretto a
ritirarsene con mal ordine; e seguirono dipoi varii combattimenti,
ma con isvantaggio sempre delle di lui milizie, che specialmente nel
dì 29 di settembre furono sconfitte a Montagnana. Finalmente nel dì
19 di agosto[1310] la terra di Monselice si arrendè ad Ubertino da
Carrara, ma non già la rocca, di cui si cominciò l'assedio. Uscì libero
colla sua gente Pietro del Verme, e cavalcò a Verona. Per danari ebbe
poscia il Carrarese anche la rocca di Monselice nel dì 18 di novembre.
Tale doveva essere in questi tempi la rabbia di Mastino[1311], che
cavalcando per Verona nel giorno 27 d'agosto insieme con Azzo da
Correggio, incontratosi con _Bartolomeo dalla Scala_ vescovo della
città, per meri sospetti ch'egli tramasse congiura contra di lui, come
avea fatto il vescovo di Vicenza, sguainata la spada, di propria mano
l'uccise. Per questa scelleraggine contra di lui procedette _papa
Benedetto XII_ alle rigorose censure, e stette Mastino gran tempo
in disgrazia della santa Sede. Nel dì 19 di ottobre le genti venete
entrarono ne' borghi di Vicenza, e quivi si afforzarono; colpo che fece
disperare Mastino, e più che mai applicarsi ad un trattato di pace,
siccome diremo all'anno seguente.
Giacchè in Sicilia regnavano delle dissensioni, e al valente _re
Federigo_ era succeduto il _re Pietro_, persona di mente assai
debole[1312], stimò _Roberto re_ di Napoli che fosse giunto il
sospirato giorno da poter ricuperar quell'isola. Nel mese dunque di
maggio spedì colà una flotta di sessanta tra galee e legni da trasporto
con mille e cinquecento cavalieri e molta fanteria. Un'altra parimente,
ed anche maggiore, ne inviò a quella volta nel mese di giugno sotto
il comando di _Carlo duca_ di Durazzo suo nipote. Ognuno si credeva
che tante forze ingoierebbero senza fallo la Sicilia tutta; ma appena,
dopo lungo assedio, presero Termole, e intanto entrata la peste, ossia
una forte epidemia, in quell'armata, bisognò sloggiare, e tornarsene
con perdita di molta gente a Napoli. Riuscirono inutili tutti i
tentativi, umiliazioni ed esibizioni fatte da _Lodovico il Bavaro_ per
riacquistare la grazia del papa[1313]. Colpa non fu del buon pontefice,
che inclinava alla pace, e chiaramente dicea che compativa gli eccessi
commessi dal Bavaro, perchè il suo predecessore _Giovanni XXII_, col
non volergli fare giustizia, l'avea come spinto nel precipizio. Disse
anche all'orecchio agli ambasciatori di Lodovico, quasi piangendo,
d'essere dispostissimo a favorire il lor principe; ma aver lettere
di _Filippo re_ di Francia, colle quali il minacciava di trattarlo
peggio di quel che _Filippo il Bello_ avea trattato _papa Bonifazio
VIII_, qualora assolvesse il Bavaro dalle scomuniche. Ecco se è vero
che i romani pontefici furono in una babilonica schiavitù, finchè
vollero tener ferma la loro residenza di là da' monti. So che questo è
negato da alcuni; se poi con buone ragioni, nol so. Ora cotali durezze
della corte pontificia, benchè cagionate dalla prepotenza altrui,
diedero occasione al Bavaro e agli elettori dell'imperio (eccettuatone
_Giovanni_ re di _Boemia_) di unire una dieta nel territorio di
Magonza, in cui nel dì quindici di luglio formarono un decreto[1314],
che chiunque è eletto dai principi elettorali concordi, o dalla maggior
parte di essi, re de' Romani, non ha bisogno d'approvazione e consenso
della santa Sede per prendere il titolo di re e per amministrare i
diritti dell'imperio: il che fu una gran ferita all'autorità e agli
antichi diritti della santa Sede. Tanto è poi andata innanzi la
faccenda, che laddove gli antichi principi eletti prendevano il titolo
solamente di re di Germania e d'Italia, oppure de' Romani, senza
giammai usar quello d'imperadori de' Romani, se non dopo la coronazione
romana, cominciarono ad intitolarsi, anche senza essere coronati dal
papa, imperadori de' Romani: il che è divenuto uso stabile. Intorno a
questi punti disputano gli eruditi politici: lasciamoli noi disputare,
e andiamo avanti. Venne in quest'anno a morte nel dì 21 d'aprile
_Teodoro marchese di Monferrato_[1315], che avea portato in Italia
il sangue de' greci imperadori, ed ebbe per successore _Giovanni_ suo
unico figliuolo, che superò in valore e fortuna il padre.
NOTE:
[1308] Cortus. Histor., tom. 12 Rer. Ital.
[1309] Gatari, Istor. Padov., tom. 17 Rer. Ital.
[1310] Chron. Patav., tom. 8 Rer. Ital. Cortus. Histor., tom. 12 Rer.
Ital.
[1311] Chron. Veronens., tom. 8 Rer. Ital.
[1312] Giovanni Villani, lib. 11, cap. 78.
[1313] Albertus Argent., Chron.


Anno di CRISTO MCCCXXXIX. Indiz. VII.
BENEDETTO XII papa 6.
Imperio vacante.

A mal partito, e in gran pericolo di perdere il resto, oramai si
trovava _Mastino dalla Scala_ per la forza e superiorità di tanti
suoi nemici; e però più che mai si diede all'ingegno per uscir fuori
di questa troppo ostinata tempesta. Studiossi dunque di guadagnare
(il Villani dice[1316] col potente segreto della moneta) alcuni
maggiorenti di Venezia, e segretamente trattò di pace particolare co'
Veneziani, rimettendosi tutto in loro, e pregandoli nello stesso tempo
di non volerlo disfare. Fece anche correr voce che se non seguiva
aggiustamento, sarebbe calato _Lodovico il Bavaro_ in Italia con sei
mila barbute: il che potè influire a far accettare le proposizioni
d'accordo nel senato veneto. Non mancarono i Veneziani d'avvisare per
tempo i Fiorentini ch'era in piedi questo trattato; ma perchè loro
si esibivano solamente alcune castella, e non già la città di Lucca,
che, secondo i patti della lega, si dovea cedere al loro comune, se ne
sdegnarono forte, parendo lor questo un tradimento. Inviarono pertanto
a Venezia i loro ambasciatori, acciocchè disturbassero l'accordo,
oppure insistessero per la cessione di Lucca. Di più non poterono
ottenere. Adunque nel dì 24 di gennaio del presente anno[1317] si
conchiuse la pace in Venezia, le cui condizioni si veggono riferite dal
Cortusi. In vigor di essa ai _Veneziani_ fu ceduta la città di Trivigi;
ad _Ubertino da Carrara_ Bassano e Castelbaldo; ai _Fiorentini_ Pescia,
Buggiano ed Altopascio, oltre ad altre terre prese innanzi da loro
al territorio di Lucca. _Alberto dalla Scala_ coi Fogliani di Reggio
ed altri prigioni fu liberato dalle carceri, e nel dì 14 di febbraio
arrivò a Verona, incontrato da Mastino suo fratello a Legnago. Grandi
schiamazzi fecero per questo accordo i Fiorentini; ma a che servirono?
Certo fu mirabil cosa che Mastino in mezzo a sì fiero incendio potesse
conservare le città di Verona, Vicenza, Parma e Lucca; la qual ultima
andò egli a visitare nel primo giorno di aprile, con dar buon ordine
alla guardia d'essa, ben persuaso che i Fiorentini, se si fosse
presentata l'occasione, avrebbono dimenticata ben tosto la pace fatta
con lui. Volle dal popolo di Lucca venti mila fiorini d'oro, perchè ne
avea gran bisogno. In Parma lasciò a quel governo Azzo da Correggio
suo zio materno, che il servì di proposito, per quanto vedremo. Un
altro assai strepitoso avvenimento appartiene all'anno presente,
che si vede riferito fuor di sito non solamente dal Corio[1318], ma
anche da Bonincontro Morigia[1319] e da Galvano Fiamma[1320], autori
contemporanei, narrandolo gli uni all'anno 1337, e l'altro al 1339.
Forse son guasti i loro testi, o la diversità dell'era cristiana
produsse questo imbroglio; certo essendo che il fatto, ch'io son per
narrare, accadde in quest'anno, come s'ha da Giovanni Villani[1321],
dal Gazata[1322], dai Cortusi[1323] e da altri storici[1324]. Appena
fu stabilita la pace suddetta, che a Mastino parve un'ora mille anni
di sgravarsi del troppo pesante fardello di tante milizie che erano
al suo soldo, per esser egli restato co' suoi sudditi smunto affatto
di moneta. Specialmente gli era a carico la cavalleria tedesca, che in
gran numero era stata a' suoi servigi.
Usava in corte di Mastino _Lodrisio Visconte_, figliuolo di un fratello
di Matteo Magno, cioè quel medesimo che nell'anno 1327 unito con
_Marco Visconte_ procurò più degli altri la depressione di _Galeazzo
Visconte_, e la prigionia di lui, di _Azzo, Luchino_ e _Giovanni
Visconti_. Dacchè il giovane Azzo ricuperò il dominio di Milano,
Lodrisio o spontaneamente se n'andò, o fu cacciato da quella città.
Gli venne in pensiero di valersi di questa congiuntura per riavere
il contado del Seprio, di cui fu ne' tempi addietro investito; anzi
di occupar Milano, se gli veniva fatto. Ne trattò con Mastino. Bella
occasione parve a lui questa di vendicarsi d'Azzo Visconte, che gli
avea tolta Brescia. Diede lo Scaligero le paghe ai soldati, mostrando
di licenziarli, e Lodrisio di assoldarli in servigio proprio. Circa
tre mila e cinquecento uomini d'armi raunò egli, e gran copia di
fanti: alla quale armata diede il nome di _compagnia di s. Giorgio_.
S'ingrossò questa dipoi, perchè si trattava di andare a bottinare in
paese grasso e ricco. E fu essa (il che è da notare) la prima compagnia
di soldati masnadieri, e ladri che si formò in Italia, e servì poi
d'esempio a tante altre, che vedremo insorgere a' danni degli Italiani,
e vengono chiamate _compagnie_ dagli storici fiorentini. S'inviò
Lodrisio Visconte con quest'armata di ferrabuti pel Bresciano, dando
il sacco dappertutto, e, passato il fiume Oglio, afflisse le campagne
del Bergamasco. Nel dì 9 di febbraio valicò l'Adda, senza che potessero
impedirgli il passo le soldatesche postate alle ripe; e andò a riposare
a Legnano, mettendo intanto a sacco e fuoco quelle contrade. Colà
convocò quanti amici potè[1325], e vi concorsero a furia i ribaldi,
dimodochè già pensava di marciare a dirittura verso Milano. A questo
non mai pensato accidente si trovava mal provveduto _Azzo Visconte_;
affrettossi dunque di chiamare da tutte le sue città le milizie, e
dimandò soccorso a tutte le sue amistà. Era allora la terra coperta
d'alta neve e di ghiaccio: contuttociò i _marchesi Estensi_ cugini
d'Azzo[1326] immediatamente gl'inviarono alcune centinaia di cavalli
sotto il comando di Brandaligi da Marano. Altri combattenti gli vennero
da _Tommaso marchese_ di Saluzzo suo cognato, da _Lodovico di Savoja_
suocero suo, dal conte di Savoja, da _Jacopo_ signor di Piemonte, da
_Taddeo de' Pepoli_, dai _Gonzaghi_ e da _Genova_. Altri aiuti ancora
erano per viaggio, ma senza poter giugnere a tempo alla fiera danza che
si fece. Fu commessa la guardia di Milano a _Giovanni Visconte_, zio
d'Azzo e vescovo di Novara, con ottocento cavalli. Fu dato il comando
dell'armata a _Luchino Visconte_, altro zio del medesimo Azzo. Uscito
dunque Luchino con più di tre mila e cinquecento cavalli, duemila
balestrieri, e quattordici mila fanti, andò ad accamparsi a Nerviano
col grosso di sua gente, compartendo il restante in Parabiago e nelle
ville circonvicine. _Lodrisio_, che già cominciava a penuriar di viveri
e foraggi, non volle maggiormente differir la battaglia; e tanto più
perchè sapeva che l'esercito de' Visconti di giorno in giorno s'andava
più ingrossando per l'arrivo di nuove truppe. Era il dì 21 di febbraio,
festa di s. Agnese, e fioccava la neve a furia. Uscito prima del far
del giorno da Legnano, andò ad assalir quella parte dell'esercito
milanese che era a Parabiago. Dormiva tuttavia la buona gente. Lodrisio
li svegliò ben tosto, e cominciò a farne macello. Quei che poterono
prendere l'armi e saltare a cavallo, bravamente si diedero anch'essi
a menar le mani; ma molti ne perirono, e vi andava il resto, se non
giugneva Luchino Visconte col suo corpo di gente. Allora si diede
principio ad una terribile e sanguinosa battaglia, e si fecero di gran
prodezze da ambe le parli, cedendo ora gli uni ed ora gli altri. La
presa della città di Milano, che si faceva da Lodrisio sperar vicina
alla sua gente, animava i suoi al forte combattimento, e sprone era
agli altri la difesa della patria e l'amor della gloria. Prevalsero
dopo molte ore di ostinata contesa cotanto l'armi di Lodrisio[1327],
che _Giovanni del Fiesco_, cognato di Luchino, poco fa fatto cavaliere,
fu ucciso, e lo stesso _Luchino_ generale rimase prigione.
Già la vittoria parea dichiarata in favor di Lodrisio, quando
arrivarono freschi alla battaglia trecento cavalieri savoiardi, ed
Ettore conte di Panago o Panigo, con altra gente che, trovando i
nemici pel sì lungo combattere stanchi e disordinati, attendendo allo
spoglio, poca difficoltà incontrarono a sbaragliarli ed atterrarli. Fu
riscosso Luchino; Lodrisio si diede per prigione a Giovannino Visconte
figliuolo di Vercellino e nipote suo, dianzi fatto prigioniere da lui.
Pochi de' suoi si salvarono, parte uccisi, parte presi[1328]. Più di
quattromila combattenti fra l'una parte e l'altra rimasero estinti sul
campo; e degli stessi vincitori pochi vi furono che non riportassero
qualche ferita e segnale perpetuo d'essere stati a quel fatto: sì
duro ed ostinato fu il loro conflitto. Il Villani scrive che de' soli
Milanesi vi restarono morti settecento cavalieri e più di tremila
a piedi[1329]; e che cinque furono i combattimenti e le sconfitte
di quella giornata tra dall'una parte e dall'altra: del che fu egli
informato da persone degne di fede, che vi si trovarono presenti.
E, tornando il vittorioso Luchino a Milano, sconfisse ancora Malerba
capitano di settecento cavalieri, che Lodrisio avea mandati al passo
verso Milano, per dare addosso a chi scappasse a quella volta. Più di
settecento cavalli vi furono uccisi, e di quei di Lodrisio ne furono
presentati due mila e cento presi, senza gli altri rubati e trafugati.
Insomma non v'era memoria di una battaglia sì fiera e pertinace,
fatta in mezzo alla grossa neve, come fu questa. Corse voce, nata
probabilmente dall'immaginazion della buona gente, che s'era veduto
in aria s. Ambrosio col flagello percuotere i nemici, e perciò da lì
innanzi si cominciò a dipignere quel santo arcivescovo, ed anche a
coniarlo nelle monete, col flagello in mano, e non già per qualche
vittoria riportata contro i Francesi, come crede il volgo. Perchè poi
la clemenza fu una delle virtù principali d'_Azzo Visconte_, la fece
ben egli risplendere anche in questa congiuntura. Quantunque degni di
morte fossero que' masnadieri per tante ruberie ed incendii commessi,
pure a tutti diede la libertà col sol giuramento di non più militare
contra di lui. Neppur volle infierire contra dello stesso Lodrisio,
autore di sì dolorosa tragedia. Contentossi di confinarlo insieme con
due suoi figliuoli nella fortezza di San Colombano, dove sopravvisse
alcuni anni, e fu poi rimesso in libertà. Restò dovunque Azzo Visconte
pacifico signore di Milano, Como, Vercelli, Lodi, Piacenza, Cremona,
Crema, Borgo S. Donnino, Bergamo, Brescia e di altri luoghi. Teneva
parte di dominio in Pavia; essendo mancata di vita _Giovanna_ figliuola
del _conte Nino_ pisano, sua sorella uterina, perchè nata da _Beatrice
Estense_ sua madre nel primo matrimonio, per testamento d'essa ebbe
tutta la di lui pingue eredità in Pisa, e le ragioni d'essa sopra
il giudicato di Gallura, cioè sopra la terza parte della Sardegna.
Però nell'anno presente prese la cittadinanza di Pisa, e mosse le sue
pretensioni contra del _re d'Aragona_, occupatore della Sardegna.
Aggiugne Galvano Fiamma[1330], che dalle civili fazioni di Genova
gli fu anche esibito il dominio di quella città, e che per la sua
morte andò in nulla questo trattato. Giorgio Stella negli Annali di
Genova di ciò non dice parola. Ma che? in tanta gloria, in si grande
innalzamento della casa de' Visconti, ecco la morte che rapisce nel
dì 14 o 16 d'agosto dell'anno presente _Azzo Visconte_ in età di soli
trentasette anni. Non si saziano Buonincontro Morigia[1331] e Galvano
Fiamma, scrittori contemporanei, di descrivere le insigni doti e virtù
di questo principe, che non avea allora pari in Italia, trattone il
_re Roberto_. Era egli l'amore di Milano perchè pio, perchè giusto e
clemente, perchè egualmente amava e favoriva Guelfi e Ghibellini, e
per tutte le sue città voleva la pace fra i cittadini. Somma fu la sua
magnificenza in fabbricar palagi, fortezze, ponti e delizie; grande la
sua gloria per le vittorie ottenute, per tante città conquistate, e per
avere risuscitata e cotanto accresciuta la potenza della sua casa. Nè
è maraviglia se i popoli sì facilmente si accordassero in volerlo per
padrone, perchè egli era padre de' religiosi, amator della concordia,
affabilissimo, inclinato sempre a far grazie, geloso della castità,
e ornato d'altre nobili virtù. Di _Caterina_ figliuola di _Lorenzo di
Savoja_ non ebbe prole, e però l'eredità dei suoi Stati e beni, o per
testamento, per succession legale, pervenne ai due suoi zii paterni
_Luchino_ e _Giovanni_, tuttavia solamente vescovo di Novara. Ossia che
Giovanni spontaneamente lasciasse al fratello la sua parte del dominio,
oppure, siccome io vo sospettando che Luchino maggior di età ed uomo
fiero non volesse compagni nel governo: sappiam di certo che il solo
Luchino da lì innanzi fu principe di Milano e dell'altre città, che
prima ubbidivano al nipote Azzo.
Novità furono in Genova nell'anno presente[1332]. Parendo al popolo
di quella città di non essere assai ben trattati dai nobili, nè dai
capitani della terra, che in questi tempi erane _Raffaello Doria_ e
_Galeotto Spinola_, fecero istanza di avere un nuovo abbate, che così
chiamavano quel magistrato che presso gli antichi Romani si appellava
tribuno della plebe. Vi acconsentirono mal volentieri nondimeno i due
capitani. Ora nel dì 25 di settembre unitosi il popolo e i mercatanti
per crear l'abbate, non sapevano accordarsi. Capitato nell'adunanza
_Simone_ o _Simonino Boccanegra_ (fu creduto per altri fini) fu
proposto costui per abate da uno scimunito. I più gridarono di sì, e
per forza gli misero in mano lo stocco. Ebbe egli un bel dire che i
suoi maggiori, stante il lor essere nobili, non erano mai stati abbati,
e che li pregava di eleggere un altro. Gran tumulto si fece, ed uscì
una voce che dicea _signore_, e tutti a gara gridarono _signore_.
Allora fu consigliato il Boccanegra da uno degli stessi capitani e
dal vecchio abbate di accettare l'elezione per paura di peggio; e
però rispose che era pronto ad essere _abbate, signore_, e tutto quel
che loro piacesse. Allora si rinforzò la voce di _signore_, e non
finì la lite, che il crearono loro _doge_ ossia _duce_, o _duca_,
con piena balìa e con alcuni del popolo per suoi consiglieri. Però
i due capitani, l'un dopo l'altro, uscirono dalla città; e questo fu
il primo doge che avesse quella città. Era Simone Boccanegra uomo di
petto e di molto senno: laonde diede principio con molto vigore al suo
dominio, ed ebbe ubbidienza dalla maggior parte delle terre delle due
riviere. Per anni parecchi avea il _re Roberto_ tenuta la signoria
della città d'Asti[1333]. _Giovanni marchese di Monferrato_ gliela
tolse nel giorno 26 di settembre dell'anno presente, con iscacciarne
i Solari e gli altri Guelfi, e introdurvi i Gottuari e i Rotari cogli
altri Ghibellini. Niuna difesa fece il presidio di esso re, perchè
si trovò aver impegnate armi e cavalli per difetto di paghe. Di gran
danno fu questa perdita a Roberto a cagion delle altre sue terre di
Piemonte, e ne esultò forte la fazion ghibellina di Lombardia. Leggesi
nella storia di Benvenuto da San Giorgio[1334] lo strumento, con cui
il popolo d'Asti prende per suo signore il marchese Giovanni. Fece
ancora in quest'anno guerra alla Sicilia il re Roberto, e vi prese
l'isola di Lipari. Era generale della sua flotta _Giufredi di Marzano_
conte di Squillaci. Mentr'egli assediava il castello di quell'isola,
venne il _conte di Chiaramonte_ colla flotta de' Messinesi a dargli
battaglia nel giorno 17 di novembre; ma sconfitto restò egli prigione.
Per l'uccisione del vescovo di Verona era _Mastino dalla Scala_ sotto
le scomuniche[1335]. Per rimettersi in grazia del papa, e inoltre per
aver la di lui protezione, e salvar le città sue attorniate da potenti
avversarli, dopo aver fatto maneggio alla corte di Avignone, prese
nel giorno primo di settembre il vicariato di Verona, Parma e Vicenza
(Lucca non v'è nominata) dal pontefice, _vacante imperio_, con obbligo
di pagare annualmente al papa cinque mila fiorini d'oro, e mantenere
dugento cavalli e trecento pedoni al servigio della Chiesa. Ed ecco
come il buon pontefice _Benedetto XII_ amichevolmente ottenne ciò che
il gran caporale de' Guelfi _Giovanni XXII_ con tante guerre non avea
mai potuto ottenere. Mancò di vita in questo anno nel giorno ultimo
di ottobre _Francesco Dandolo_ doge di Venezia[1336], ed ebbe per
successore _Bartolomeo Gradenigo_, eletto nel dì 9 di novembre.
NOTE:
[1314] Rebdorf., Histor. Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.
Raynaldus, Annal. Eccles.
[1315] Benven. da S. Giorg., Istor. del Monferrato, tom. 23 Rer. Ital.
[1316] Giovanni Villani, lib. 11, cap. 89.
[1317] Chron. Veronense, tom. 8 Rer. Ital. Gazata, Chron. Regiens.,
tom. 18 Rer. Ital. Cortus. Histor., tom. 12 Rer. Ital.
[1318] Corio, Istor. di Milano.
[1319] Bonincont. Morigia, Chron. Mod., tom. 12 Rer. Ital.
[1320] Gualvan. Flamma, de Gest. Azon., tom. 12 Rer. Italic.
[1321] Giovanni Villani, lib. 11, cap. 96.
[1322] Gazata, Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.
[1323] Cortusiorum Histor., tom. 12 Rer. Ital.
[1324] Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.
[1325] Gualvaneus Flamma, de Gest. Azon., tom. 12 Rer. Italic.
Bonincontrus Morigia, Chron., tom. eod.
[1326] Chronic. Estense, tom. 15 Rer. Italic.
[1327] Petrus Azarius, Chron., tom. 16 Rer. Ital.
[1328] Cortusior. Histor., tom. 12 Rer. Ital.
[1329] Giovanni Villani, lib. 11, cap. 96.
[1330] Gualvan. Flamma, de Gest. Azon., tom. 12 Rer. Ital.
[1331] Bonincontrus Morigia, Chron. Modoet., tom. 12 Rer. Ital.
[1332] Georgius Stella, Annal. Genuens. tom. 17 Rer. Ital. Annal.
Mediol., tom. 18 Rer. Italic.
[1333] Giovanni Villani, lib. 11, cap. 113.
[1334] Benvenuto da S. Giorgio, Istor. del Monferrat., tom. 23 Rer.
Italic.
[1335] Raynald., Annal. Eccles.


Anno di CRISTO MCCCXL. Indizione VIII.
BENEDETTO XII papa 7.
Imperio vacante.

Cessata la guerra, sopravvennero in quest'anno all'Italia altre
calamità, cioè la carestia e la peste, portate da oltramare[1337].
Vivevano allora alla buona gli Italiani; specialmente i Veneziani
e Genovesi, per cagion della mercatura, frequentavano le coste
dell'Egitto, della Soria e dell'imperio greco, trafficando fino al mar
Nero. Erano anche in guerra queste due nazioni nei tempi presenti. Se
in quei paesi regnava la peste (e va ella sempre saltellando dall'un
paese all'altro), facilmente la portavano in Italia le navi cristiane.
Siccome allora non vi erano lazaretti, nè si faceano spurghi, nè si
usavano altre diligenze e cautele che inventò poi la saggia provvidenza
de' posteri per impedire l'ingresso a questo terribil malore, o per
estinguerlo venuto; così a man salva veniva esso a metter piede nelle
nostre contrade. Cominciò dunque nell'anno presente ad infierire la
pestilenza in Italia, e ci durò gran tempo, siccome diremo[1338]. Nella
sola città di Firenze morirono dodici mila persone. Siena anch'essa
perdè gran copia de' suoi migliori cittadini. Giunto poi all'eccesso
il prezzo de' viveri, perchè o la gran neve caduta nel verno, che
non si sciolse se non verso il fine di marzo, o altra cagione guastò
i raccolti. E fu questo solo malanno bastante a generar malattie, e
a popolar di cadaveri i sepolcri. Avea già dato principio _Luchino
Visconte_ al suo governo di Milano e degli altri suoi Stati con
vigore[1339]; ma i Milanesi, avvezzi a quello del savio ed amorevol
principe _Azzo_, si rattristavano al vedersi sotto Luchino di costumi
ben diverso dal suo predecessore. Fin qui aveva menata una vita da
prodigo, conversando più coi cattivi che coi buoni, dormendo il giorno
e vegliando la notte; e dato alla sensualità in maniera, che quantunque
prima avesse avuta per moglie una degli Spinoli, che giovane mancò
di vita, ed avesse allora per moglie _Isabella de' Fieschi_, giovane
di rara bellezza, pure da altre donne avea procreato varii bastardi,
fra i quali _Brusio_, che per la sua bravura e magnificenza fece
dipoi gran figura nel mondo. Leggevasi inoltre in faccia a Luchino
l'austerità; cosa forestiera in lui era il perdonare; e fuorchè i
proprii figliuoli, niun altro mai seppe amare, e neppure i parenti,
de' quali anzi fu persecutore. Fra gli altri viveano allora _Matteo,
Bernabò_ e _Galeazzo_, figliuoli di suo fratello, giovani di molta
avvenenza e cari al popolo. Mandolli tutti e tre a' confini Luchino,
siccome uomo pien di sospetti, nè mai volle ascoltar preghiere in
lor favore. Fors'anche n'ebbe qualche fondamento, per un avvenimento
che appartiene all'anno presente[1340]. Odiava Luchino e trattava
male chiunque era stato ministro, o uffiziale, o amico del suo nipote
_Azzo_, perchè a' tempi di lui tenuto assai basso, quando i consiglieri
e cortigiani d'Azzo tutti aveano gran potere, ed erano smisuratamente
cresciuti in ricchezza. Fra gli altri Lombardi veniva riputato il più
facoltoso Francesco da Posterla, già consigliere d'Azzo; e questi tra
per lo sdegno di vedersi maltrattato da Luchino, e per la conoscenza
dell'animo alterato de' Milanesi verso questo nuovo padrone, tramò
con assaissimi nobili una congiura contra di lui, con pensiero di
esaltare i tre nipoti suddetti dello stesso Luchino. S'eglino ne
avessero contezza, non si sa. Fu scoperta la congiura; il Posterla
co' suoi figliuoli ebbe tempo da fuggire in Avignone. Ma Luchino nol
perdè mai di vista. Lettere finte sotto nome di _Mastino dalla Scala_
l'invitarono a Verona con esibizioni larghe. Per questo venne egli in
nave alla volta di Pisa, dove preso ad istanza di Luchino, e condotto
nel 1341 a Milano, dopo avere rivelato varii complici, lasciò co' suoi
figliuoli e con altri la testa sopra d'un palco. Non venne più voglia
ad alcuno de' Milanesi di far trattato contra di Luchino: tal terrore
mise in tutti la severità ed implacabilità di quest'orso. Ed egli da
lì innanzi usò di tener due fieri cani corsi davanti alla camera dove
dormiva. Ed uscendo per città, gli aveva sempre a lato. Guai se alcuno
facea qualche cenno indiscreto verso di lui; se gli avventavano questi
cani, e lo stendevano a terra. Per altro, non mancarono delle virtù e
delle belle doti a Luchino: del che parleremo altrove.
Fu fatta in quest'anno una cospirazione di molti nobili di Genova
contra di _Simonetto Boccanegra_, novello doge di quella città[1341].
Si scoprì essa nel dì cinque di settembre; e siccome il Boccanegra
era uomo franco e valente, essendo caduti in sua mano due de' maggiori
nobili di casa Spinola, formatone il processo, fece loro tagliare il
capo: con che atterrì gli altri, e fortificò non poco il suo stato.
_Ottaviano_ di _Belforte_ nel settembre di questo anno occupò il