Annali d'Italia, vol. 4 - 88

e fuorusciti. Questo buon principio diede animo al legato di passare con
poco seguito alla stessa città di Brescia, dove riconciliò gli animi
alterati di que' cittadini, promettendo tutti di star saldi nell'antica
divozione verso la Chiesa romana. Fecesi anche una riguardevole
mutazione in Piacenza[3400]. Si reggeva quella città a parte Ghibellina;
ne era signore e capo il marchese Oberto Pelavicino. Formata una potente
congiura, nel dì 24 di luglio levarono i Guelfi rumore, cacciarono dalla
città il suddetto marchese ed Ubertino Landò suo fedel seguace, e
spogliarono d'armi e cavalli tutta la gente loro, con eleggere dipoi per
loro podestà Alberto da Fontana. Questi fece dipoi guerra agli aderenti
de' Landi, col condannarli e bandirli dalla città. Non minore commozione
civile fu in questi tempi in Milano[3401]. Continuando _Leone da Perego_
arcivescovo, coll'assistenza de' nobili, a pretendere il governo della
città, a questo suo ambizioso disegno ripugnavano forte i popolari,
disgustati anche di molto per la prepotenza d'essi nobili, e per un
vecchio iniquo statuto, in cui altra pena non s'imponeva ad un nobile
che ucciso avesse uno del popolo, se non di pagare sette lire e danari
dodici di terzuoli. Essendo appunto in questi tempi stato ammazzato da
Guglielmo da Landriano nobile un popolare, per avergli fatta istanza
d'esser pagato, il popolo di Milano prese l'armi, si sollevò, e avendo
alla lor testa Martino dalla Torre, obbligò l'arcivescovo e la nobiltà
ad uscir di città. Si ritirarono questi nel Seprio, e ricevuto dai
Comaschi un gagliardo rinforzo di gente, tentarono poi di rientrare in
Milano, e più volte vennero alle mani coi popolari, ma sempre colla
peggio. Interpostosi poi papa Alessandro coi cardinali, ne seguì pace, e
mandati ai confini molti dei nobili, l'arcivescovo col resto se ne tornò
in città. Allora fu che Martino dalla Torre prese per moglie una sorella
di Paolo da Sorecina podestà de' nobili; e il popolo, chiamato al
sindacato Beno de' Gonzani Bolognese allora podestà, che tante angherie
avea fatto in addietro in Milano, il condannarono a pagar dodici mila
lire. E perciocchè egli non potè o non volle pagare sì grossa somma,
l'uccisero, e il suo corpo come di un cane gittarono nelle fosse. Andava
in questi tempi a dismisura crescendo la potenza de' Bolognesi. Erano
già padroni d'Imola, Cervia e d'altri luoghi. Nell'anno precedente,
siccome diffusamente narra il Sigonio[3402], e s'ha ancora dalla Cronica
di Bologna[3403], stesero la loro giurisdizione sopra Faenza, Forlì,
Forlimpopoli e Bagnacavallo, di maniera che parte della Romagna riceveva
da essi podestà, e ubbidiva ai loro comandamenti. Cagione fu questo alto
loro stato, ch'essi, ridendosi del laudo proferito da Giberto podestà di
Parma, non vollero restituire al comune di Modena le castella del
Frignano. Mancava ai Modenesi quel buon recipe che per sì fatti mali
occorre; perciò fecero ricorso alle città di Lombardia, acciocchè
interponessero i lor buoni uffizii, con far loro costare la forza delle
proprie ragioni. Unitamente dunque col podestà di Modena[3404] si
portarono a Bologna gli ambasciatori di Milano, Brescia, Mantova,
Ferrara, Parma e Reggio; ma, per quante esortazioni e preghiere
adoperassero, non si potè espugnare l'avido e superbo cuore de'
Bolognesi. Portarono allora i Modenesi le lor doglianze al papa, il
quale, per timore che questa città non si gittasse in braccio al partito
de' Ghibellini, scrisse nel dì 7 di agosto da Viterbo una lettera,
rapportata dal Sigonio, al vescovo di Mantova, dandogli commissione di
ordinare ai Bolognesi l'esecuzione del laudo, ma di non sottoporre
all'interdetto Bologna senza suo nuovo ordine. Non apparisce che il
vescovo facesse più profitto degli altri intercessori. In quest'anno
finalmente, secondo il Guichenon[3405], uscì delle prigioni d'Asti
_Tommaso conte_ di Savoia; e ciò si può dedurre ancora da Matteo
Paris[3406], che nell'anno seguente il dice arrivato in Inghilterra. Il
trattato della sua liberazione fu conchiuso in Torino nel dì 18 di
febbraio, e in esso il conte, forzato dalla necessità, rinunziò a tutti
i suoi diritti sopra la città di Torino e sopra altri suoi luoghi. Dal
Continuatore di Caffaro[3407] all'anno 1259 si ricava ch'egli diede agli
Astigiani in ostaggio i suoi figliuoli.
NOTE:
[3394] Stero., Annal. Augustan. Matth. Paris., Hist. Angl. Roland., lib.
11, cap. 2.
[3395] Monachus Patavinus, in Chron., tom. 8 Rer. Ital.
[3396] Nicolaus de Jamsilla, Hist., tom. 8 Rer. Ital.
[3397] Roland., lib. 10, cap. 13.
[3398] Paris de Cereta, Chron. Veronens., tom. 8 Rer. Ital.
[3399] Malvecius, Chron. Brix., tom. 14 Rer. Ital.
[3400] Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.
[3401] Annales Mediol., tom. 16 Rer. Ital. Gualvan. Flamma, Manip.
Flor., cap. 291.
[3402] Sigonius, de Regno Ital., lib. 19.
[3403] Chron. Veronense, tom. 18 Rer. Ital.
[3404] Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.
[3405] Guichenon, Histoire de la Mais. de Savoye, tom. 1.
[3406] Matth. Paris. Hist. Angl.
[3407] Caffari, Annal. Genuens., tom. 6 Rer. Ital.


Anno di CRISTO MCCLVIII. Indizione I.
ALESSANDRO IV papa 5.
Imperio vacante.

Era già il fin qui principe di Taranto _Manfredi_ in pacifico possesso
di tutto il regno di Sicilia di qua e di là dal Faro. Non mancavano a
lui voglie di maggiore ingrandimento, nè consiglieri che la fomentassero
e ne promovessero il compimento. Benchè intorno alle cose di lui non ci
restino da qui innanzi, se non istorici guelfi, talvolta sospetti di
troppo maliziare, e di alterar la verità secondo le loro passioni; pure
non ci mancherà lume per discernere quello che sia più probabilmente da
credere negli avvenimenti spettanti a lui. Pensò dunque Manfredi, e vi
avea pensato anche molto prima, di assumere il titolo e la dignità di re
di Sicilia. A questo fine fece egli sparger voce che Corradino suo
nipote in Germania fosse mancato di vita. Niccolò da Jamsilla[3408] pare
che ci voglia dare ad intendere che tal fama naturalmente e senza frode
sorgesse e prendesse piede; ma non si fallerà giudicando che
artificiosamente fosse disseminata, acciocchè, tenuto per estinto il
legittimo erede della corona di Sicilia, si facesse apertura alla
succession di Manfredi. E ciò poi sarebbe più chiaro del sole, qualora
fosse fuor di dubbio quanto vien raccontato da Ricordano[3409], da
Giovanni Villani[3410] e da altri Guelfi: cioè che Manfredi mandò suoi
ambasciatori in Suevia per avvelenar Corradino, e, credendo essi d'aver
fatto il colpo, se ne tornarono in Sicilia vestiti di gramaglia,
asserendo la di lui morte. Le credo io favole. Saba Malaspina[3411]
altro non dice, se non che si fecero correre certe lettere finte, come
scritte da baroni tedeschi, coll'avviso della morte di Corradino,
fondate forse anche sopra qualche grave malattia di lui, che diedero da
dubitar di sua vita. Bastò questo per indurre, come vuole il Jamsilla, i
prelati e baroni del regno a fare istanza a Manfredi di prendere lo
scettro del regno. Più verisimile è che dalle segrete insinuazioni dello
stesso Manfredi fossero mossi a far questo passo. Comunque sia, nel dì
11 d'agosto nella cattedral di Palermo fu egli solennemente coronato re
da tre arcivescovi col concorso e plauso d'innumerabili prelati, baroni
e popolo. Ed abbondavano bene in lui, anche per confessione de' suoi
avversarii, moltissime di quelle prerogative che rendono l'uomo degno di
regnare. Giovane di bell'aspetto, faceva sua gloria la cortesia,
l'affabilità e la clemenza, senza avere ereditata la crudeltà de' suoi
maggiori. Singolar fu la sua prudenza e l'intendimento superiore di
lunga mano all'età; grande il suo amore verso le lettere e i letterati,
ed egli stesso ben istruito delle scienze e dell'arti più nobili; ma
soprattutto risplendeva in lui la generosità e la gratitudine in
premiare chiunque gli prestava servigio. E specialmente nel tempo della
coronazione si diffusero le rugiade della sua liberalità e magnificenza
con profusione di donativi al popolo, e di contadi, baronie ed altri
uffizii, de' quali principalmente furono a parte i suoi zii materni
marchesi Lancia, ed altri suoi parenti e molti Lombardi, dei quali, più
che d'altri, si fidava. Ch'egli fosse principe di poca fede, di minor
pietà, e dedito a' piaceri e alla lussuria, lo dicono gli scrittori
pontificii. Certo è che la politica mondana e l'ambizione ebbero il
primato nel suo cuore, e fu dai più riprovato l'aver egli occupato il
regno dovuto al nipote. Credeva anch'egli non poco alla strologia.
Scrive Matteo Paris[3412], essersi nell'anno 1256 venuto a sapere che
Manfredi, creduto fin allora bastardo, in una malattia della madre,
figliuola del marchese Lancia di Lombardia, era stato legittimato
dall'imperador Federigo II suo padre, coll'averla sposata. Queste erano
ciance del volgo. Racconta ancora Saba Malaspina[3413], scrittore nimico
di Manfredi, che non essendo per anche egli coronato, per parte del re
Corradino vennero in Italia due ambasciatori con ordine di trattar col
papa di accordo per succedere nel regno di Sicilia. Verso il castello
della Molara furono presi, spogliati, e l'un di essi ucciso, l'altro
ferito da Raule de' Sordi nobile romano. Autore di questa sceleraggine
vien detto Manfredi da esso Malaspina, quasichè allora non si trovassero
nel distretto romano e in altri luoghi di que' nobili assassini che
andavano a caccia di chi avea cariche le valigie di oro; e non
confessasse egli che questo nobile era un solennissimo scialacquatore e
malvivente, capace perciò senza gli sproni altrui di così neri
attentati. Per lo contrario, abbiamo da Matteo Spinelli[3414] che nel dì
20 di febbraio del 1256 (nel suo testo sono sconcertati tutti gli anni:
forse è l'anno 1259) vennero a Barletta gli ambasciatori della regina
_Isabella_, madre del re _Corradino_, con quei del duca di Baviera suo
fratello, a trovare il re Manfredi. Fecero conoscere che Corradino era
vivente, e pretesero che si gastigasse chi avea detta la menzogna di sua
morte. Manfredi con saggio e bel sermone rispose loro che il regno era
già perduto, ed averlo egli, siccome ognun sapeva, conquistato coll'armi
e con immense fatiche; nè essere di dovere nè di utilità che lo
rinunziasse ad un fanciullo incapace di sostenerlo contra de' papi,
implacabili nemici della casa di Suevia. Che per altro avrebbe tenuto il
regno sua vita naturale durante, e poi vi sarebbe succeduto Corradino.
Con queste belle parole, e con regali magnifici, anche pel duca di
Baviera, rispedì gli ambasciatori. Da Palermo ripassato il re Manfredi
in Puglia[3415], tenne corte bandita e un gran parlamento in Foggia,
dove rallegrò i popoli concorsi da tutte le parti colla solennità di
varii spettacoli e giuochi. Indi coll'esercito passò addosso alla città
dell'Aquila, che fin qui avea pertinacemente tenute inalberate le
bandiere della Chiesa. Danno non venne alle persone e robe degli
abitanti, che furono poi costretti ad uscirne, e la città per pena fu
data alle fiamme.
In questi tempi avendo il popolo romano trovato colle pruove Mannello
dei Maggi[3416], senatore troppo parziale dei nobili, levatosi a rumore,
andò colla forza a liberar dalle carceri Brancaleone già senatore, e il
rimise nell'uffizio primiero. Allora egli cominciò ad esercitare
spietatamente il rigore della giustizia contra de' potenti Romani che
calpestavano il popolo, e fece infin presentare alle forche due della
nobil casa degli Annibaldeschi. Fu coi suoi fautori scomunicato dal
papa: del che non fecero eglino conto, pretendendo di avere un
privilegio di non potere essere scomunicato. Tali minaccie poi si
lasciarono uscir di bocca contra del pontefice e de' cardinali, che papa
Alessandro colla corte, non veggendosi sicuro, si ritirò a Viterbo. Ciò
dovette succedere nell'anno precedente, perchè si veggono lettere quivi
allora date dal papa. Nel presente anno Brancaleone col popolo romano fu
in procinto di portarsi coll'armi a distruggere Anagni, patria dello
stesso pontefice. Per placarlo, bisognò che il papa con umili parole
mandasse a pregarlo di desistere da così crudele disegno. Durò fatica
Brancaleone a frenar il furor del popolo, e da lì innanzi tenne buona
corrispondenza col re Manfredi, che gli promise ogni assistenza ed
aiuto. Poscia, per abbassare la potenza della nobiltà romana, che colle
case ridotte in forma di fortezze commetteva mille insolenze, fece
diroccare da cento quaranta loro torri; e in questa maniera tornò la
quiete e tranquillità in Roma. Ma non passò l'anno presente, che fu
anche lo stesso Brancaleone atterrato dalla morte, e il suo capo, per
memoria del suo valore, o, per dir meglio, della sua eccessiva giustizia
e crudeltà, posto sopra una colonna entro di un vaso prezioso. Per
consiglio di lui, fu eletto senatore Castellano di Andalò Bolognese suo
zio dal popolo romano, senza voler dipendere dall'assenso del papa, che
fece tutto il possibile per impedirlo. Prosperarono in quest'anno in
Lombardia gli affari dell'empio _Eccelino_ da Romano con somma
afflizione di tutti i buoni. Guardavansi con occhio bieco in Brescia le
due fazioni de' Guelfi e Ghibellini, benchè riconciliate poc'anzi.
Eccelino[3417] con segrete lettere soffiava nel fuoco. Tentarono i
Ghibellini di cacciar la parte contraria nel dì 29 d'aprile, essendo con
loro Griffo ossia Griffolino podestà della città. Si venne all'armi; si
combattè tutta la notte; nel dì seguente restarono sconfitti gli amici
di Eccelino, Griffo preso con altri, il resto colla fuga si salvò a
Verona e Cremona. Già dicemmo uniti in lega Eccelino ed _Oberto_
Pelavicino marchese. Perchè i Bresciani erano venuti all'assedio di
Torricella occupata dai lor fuorusciti, mosse il marchese l'esercito de'
Cremonesi per dar soccorso agli assediati, e nello stesso tempo
sollecitò Eccelino a muoversi dall'altro canto. Allora Eccelino con
quante forze potè di Tedeschi, e delle milizie di Verona, Feltre,
Vicenza e d'altri luoghi[3418], marciò alla volta del Mincio, e,
passatolo in fretta, andò ad unirsi coi Cremonesi. Intanto il legato
pontificio _Filippo arcivescovo_ di Ravenna, al primo movimento de'
Cremonesi avendo chiamati in aiuto i Mantovani, che v'accorsero colla
loro milizia, uscì in campagna coll'esercito bresciano e con tutti i
suoi crocesignati, e andò a Corticella presso al fiume Oglio. Ma
arrivata nel suo campo la nuova che Eccelino s'era accoppiato coi
Cremonesi, ben conoscendo d'essere inferiore di forze, propose di
ritirarsi a Gambara, e che s'aspettasse Azzo marchese d'Este, il quale a
momenti dovea giugnere collo sforzo dei Ferraresi e dei suoi Stati.
Parve a Biachino da Camino e ai principali Bresciani una viltà il
retrocedere[3419]. Da lì a poco eccoti si veggono da lungi sventolar le
bandiere di Eccelino; All'armi, all'armi. Si diede la battaglia nel dì
28 d'agosto, secondo Rolandino, ma, secondo il Monaco Padovano[3420] e
Jacopo Malvezzi[3421], nel dì 30. Atterriti sul principio, in breve
sbaragliati rimasero i Bresciani, e preso il legato del papa con
_Damiano Cossadoca_ vescovo eletto di Verona, Simone da Fogliano di
Reggio podestà di Mantova, e molti altri nobili, e gran quantità di
popolo. Nel dì seguente _Cavalcante da Sala_ vescovo, e gli altri
cittadini rimasti in Brescia, tutti sbigottiti, credendo di far cosa
grata ad Eccelino, liberarono Griffo e gli altri prigioni, ma
scioccamente e in propria rovina, perciocchè costoro aprirono le porte
della città ad Eccelino, il qual vittorioso col marchese Oberto e Buoso
da Doara ne prese il possesso. Il vescovo, i preti e gran copia d'altri
cittadini guelfi si sottrassero colla fuga a quel flagello del genere
umano. Aveva Eccelino, per attestato di Parisio da Cereta, nel primo dì
di febbraio dell'anno presente fatto morir ne' tormenti moltissimi
Veronesi, tanto nobili che plebei. Non dimenticò già egli il suo
barbarico costume, giunto che fu in Brescia. Ivi ancora le carceri e le
mannaie si tennero in esercizio, e le chiese spogliate, e le torri dei
principali nobili per ordine suo furono spianate. Doveva essere il
dominio di Brescia la metà de' Cremonesi; e infatti sul principio fu
divisa la città, e l'una parte d'essa assegnata al marchese Pelavicino e
a Buoso da Doara. Ma Eccelino la volea tutta, e ne trovò a suo tempo la
maniera. Intanto, a riserva della terra degli Orci, tutto il territorio
di Brescia venne in poter del tiranno. Per questa disavventura di
Brescia, città di tanto nerbo, fu un gran dire per tutta Italia, e
n'ebbe un sommo cordoglio e terrore la parte della Chiesa. Ma i giudizii
di Dio sono ben diversi da quelli degli uomini, e ce ne avvedremo
all'anno susseguente.
Nel dì 4 d'aprile, dell'anno presente, coll'interposizione del suddetto
Filippo legato del papa, s'erano accordati insieme i nobili e popolari
di Milano con istabilire una concordia, che fu appellata la pace di
Sant'Ambrosio[3422]. Il Corio[3423], che ne vide lo strumento, rapporta
distesamente tutte le condizioni d'essa. Ma, secondo il pessimo uso di
tempi tali, durò questa ben poco. Nella festa di san Pietro di giugno,
Martino dalla Torre capo del popolo cacciò di città _Leone da Perego_
arcivescovo colla fazione de' nobili, i quali si ridussero a Cantù, e
poscia andarono in soccorso de' Rusconi, potenti cittadini di Como, i
quali voleano abbattere la parte contraria de' Vitani. Ma, accorso in
aiuto degli ultimi il suddetto Martino con un possente corpo di
Milanesi, toccò ai Rusconi di sloggiare da Como, e i Vitani ne restarono
padroni. Ebbe nondimeno un'altra cagion di sospirare nell'anno presente
la città di Milano. Suddita de' Milanesi era da gran tempo la nobil
terra di Crema[3424]. Entrata anch'ivi la discordia fra i cittadini, i
Benzoni, famiglia potente, chiamarono il marchese Oberto Pelavicino, il
quale ben volentieri con cinquecento cavalli ne andò a prendere il
possesso e dominio, con iscacciarne la contraria fazione. L'emulazione
ancora che d'ordinario regnava fra quelle nazioni italiane, che si
trovavano allora possenti in mare, e intente alla mercatura, era già
passata in aperta guerra tra i Veneziani[3425] e Genovesi per accidente
occorso in Accon. Il Continuatore di Caffaro[3426] descrive il principio
e progresso della lite, per cui restarono aggravati i Veneziani. E
quantunque s'interponesse coi suoi paterni uffizii papa Alessandro IV, e
andassero innanzi e indietro lettere ed ambasciatori, pure non ne venne
concordia, e continuò il mal animo dell'altra nazione. Fecero lega i
Veneziani coi Pisani, Provenzali e Marsiliesi, e con gran flotta
navigarono tutti in Oriente. Colà comparvero ancora con possente sforzo
di galee e di navi i Genovesi. Nel dì 24 di giugno si affrontarono
queste armate navali, e dopo un ostinato combattimento la vittoria si
dichiarò in favore de' Veneziani e Pisani[3427], con prendere
venticinque galee dei vinti. Restarono perciò i Genovesi in molto
abbassamento in quelle parti, e fu distrutta in Accon la lor bellissima
torre, e spogliati i lor magazzini. A queste nuove il buon papa
Alessandro, considerando il grave pregiudizio che da ciò risultava
agl'interessi della cristianità in Soria, rinforzò le sue premure per la
pace. Intimò tosto una tregua; ottenne da' Veneziani la libertà de'
prigioni, e finalmente stabilì fra questi popoli la concordia, con
alcune condizioni nondimeno, che forse furono moleste ai Genovesi.
Crescendo anche in Bologna[3428] ogni dì più le discordie civili, che
ordinariamente nascevano dalle pazze parzialità e fazioni guelfa e
ghibellina, ovvero dall'incontentabil ambizione di soprastare nel
comando agli altri, in quest'anno vennero alle mani in essa città i
Geremii e i Lambertazzi, famiglie delle più potenti, cadauna delle quali
tirava seco il seguito d'altre nobili casate, e ne succedette la morte
di molti. Quel solo che potè ottenere con tutti i suoi sforzi il
podestà, fu di mettere tregua fra le parti: il che per allora sopì, ma
non estinse l'incendio, che continuò poi per anni parecchi.
NOTE:
[3408] Nicolaus de Jamsilla, Hist., tom. 8 Rer. Ital.
[3409] Ricordano Malaspina, Istor., cap. 147.
[3410] Giovanni Villani, et alii.
[3411] Sabas Malaspina, lib. 1.
[3412] Matth. Paris, Hist. Angl. ad ann. 1256.
[3413] Sabas Malaspina, Histor., lib. 1, cap. 5.
[3414] Matteo Spinelli, tom. 7 Rer. Ital.
[3415] Sabas Malaspina, lib. 2, cap. 1.
[3416] Matth. Paris, ad hunc annum.
[3417] Malvecius, Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Ital.
[3418] Rolandinus, lib. 11, cap. 9.
[3419] Paris de Cereta, Chron. Veronens., tom. 8 Rer. Ital.
[3420] Monachus Patavinus, in Chron., tom. eod.
[3421] Malvecius, Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Italic.
[3422] Annales Mediolanenses, tom. 16 Rer. Ital., Gualvan. Flamma, in
Manip. Flor., cap. 292.
[3423] Corio, Istor. di Milano.
[3424] Chronicon Placentinum, tom. 16 Rer. Ital.
[3425] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.
[3426] Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom 6 Rer. Italic.
[3427] Annales Pisani, tom. 6 Rer. Ital.
[3428] Matth. de Griffonibus, Histor. Bononiens., tom. 18 Rer. Italic.

FINE DEL VOLUME IV.