Annali d'Italia, vol. 4 - 86
delle difficoltà in questo maneggio. Ossia che questo trattato venisse,
come vuol Pietro da Curbio[3339], a scoprirsi, e _Carlo conte_ d'Angiò e
di Provenza, fratello del re di Francia, si esibisse al papa; oppure che
il papa, non trovando buona disposizione in Inghilterra, chiamasse a
mercato esso conte d'Angiò: certamente pare che fin d'allora Carlo vi
accudisse. Accadde dipoi, che il _re Arrigo_ trattò di ottenere per suo
figliuolo _Edmondo_ il regno di Sicilia, promettendo di gran cose.
Pietro da Curbio asserisce, che fu conchiuso questo contratto col re
inglese, il quale cominciò a far preparamenti per effettuarlo.
All'incontro dal Rinaldi[3340] sotto quest'anno sono rapportate le
condizioni, colle quali il papa esibiva a Carlo conte d'Angiò il regno
di Sicilia, ducato di Puglia e principato di Capoa. Quivi è nominato il
suddetto Alberto da Parma, come legato del papa. Così il Rinaldi.
Contuttociò tengo io per fermo che quel documento appartenga ai tempi di
Urbano IV, e non ai presenti.
Gran premura fecero in quest'anno i Romani a papa Innocenzo IV per farlo
ritornare a Roma, e, se vogliam credere a Matteo Paris[3341],
minacciarono anche Perugia, se ne impediva, o non ne sollecitava la
venuta. Mal volentieri si risolveva il pontefice a compiacerli, ben
conoscendo la difficoltà di trovar quiete fra que' torbidi ed instabili
cervelli d'allora, avvezzi a comandare e non ad ubbidire. Andò egli ad
Assisi[3342] nella domenica in albis, vi dedicò la chiesa di San
Francesco, visitò santa Chiara inferma, che nel dì 30 di giugno fu
chiamata da Dio alla patria de' giusti, e passò egli la state in quella
città. Poscia nel dì 6 di ottobre si mise in viaggio verso Roma, dove
dal senatore, dal clero e popolo romano fu incontrato fuori della città,
e introdotto con sommo giubilo ed onore. Pietro da Curbio scrive ch'esso
senatore, cioè Brancaleone, avea fatto il possibile perchè il papa non
venisse, e andò poi macchinando sempre contra di lui. Matteo Paris, per
lo contrario, attesta ch'egli fu in suo favore; ed avendo il popolo
romano cominciato a muovere pretensioni di grossissimi crediti per le
spese da lor fatte a fin di sostenere il pontefice nei tempi di Federigo
II, Brancaleone quetò con dolci parole il lor furore, e conservò la
pace. Tornò poscia il re Corrado ad inviare a Roma il conte di Monforte
suo zio, ed altri ambasciadori per placare il papa, ed impetrar
l'investitura del regno. In Lombardia la città di Parma[3343] nell'anno
presente fece qualche mutazione, pacificandosi co' Cremonesi e col
_marchese Oberto_ Pelavicino capo dei Ghibellini in queste parti.
Giberto da Correggio, soprannominato della Gente, prese allora un gran
predominio in Parma. Vi entrarono anche i Ghibellini fuorusciti.
Altrettanto fu fatto in Reggio, dove furono richiamati i Guelfi. Per
l'accordo suddetto il comune di Cremona restituì a Parma il castello di
Brescello, e tutti i prigionieri parmigiani che dianzi barbaramente
erano trattati nelle carceri cremonesi. Si riaccese in questi tempi la
guerra fra i Milanesi e Pavesi. Nel dì 10 di maggio l'esercito di Milano
col carroccio[3344], avendo passato il ponte di Vigevano, s'impadronì
della terra di Gambalò, e cinse poscia d'assedio Mortara. Ancor questa
terra fu presa; ma, facendo gran difesa il castello, venne l'esercito
pavese per soccorrerlo. Interpostisi intanto alcuni mediatori fra i due
popoli, si rinnovò la pace. Più che mai continuarono in questi tempi le
orride crudeltà d'Eccelino in Padova[3345] e negli altri luoghi a lui
sottoposti. Papa Innocenzo rinnovò per questo le scomuniche contra di
lui, e dichiarollo eretico; ma altro ci voleva che tali esorcismi a
vincere uno spirito sì maligno. Monte ed Araldo da Monselice fra gli
altri, imputati di tradimento, furono condotti a Padova. Gridando essi
ad alta voce di non essere traditori, Eccelino, ch'era a tavola, calò al
rumore, nè volle ascoltar ragione. Allora Monte, scagliatosi in furia
addosso al tiranno, il rovesciò a terra, e, dopo avere indarno
cercatogli addosso se avea qualche coltello, il prese per la gola por
soffocarlo, e coi denti e colle unghie gli fece quanto male potè. S'egli
trovava armi, in quel dì la terra si sarebbe sgravata del peggiore di
tutti gli uomini. Ma accorsi i familiari del tiranno, tanto fecero che,
messo in pezzi Monte col fratello, liberarono Eccelino dal pericolo, ma
non già dalle ferite, a curar le quali vi vollero molti giorni. Empiè in
questi tempi l'iniquissimo tiranno le infernali sue carceri di cittadini
padovani e veronesi, sì ecclesiastici che laici. Tutto era terrore,
tutto disperazione sotto di questo barbaro, a cui ogni menoma parola od
ombra di sospetto serviva di motivo per incarcerare o tormentare o
levare di vita le persone.
NOTE:
[3334] Chron. Cavense, tom. 7 Rer. Ital.
[3335] Matteo Spinelli, Diario, tom. 7 Rer. Ital.
[3336] Sabas Malaspina, lib. 1, cap. 3.
[3337] Bartholomaeus de Neocastro, cap. 3, tom. 13 Rer. Ital.
[3338] Matth. Paris, Hist. Angl.
[3339] Petrus de Curbio, Vita Innocen. IV, cap. 31, P. I, tom. 3 Rer.
Ital.
[3340] Raynald, in Annal. Eccles.
[3341] Matth. Paris, Hist. Angl.
[3342] Petrus de Curbio, in Vita Innocen. IV, cap. 32 et seq.
[3343] Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.
[3344] Gualv. Flamma, Manip. Flor., cap. 287.
[3345] Roland., lib. 7, cap. 3 et seq. Monachus Patavinus, in Chron.,
tom. 8 Rerum Ital.
Anno di CRISTO MCCLIV. Indizione XII.
ALESSANDRO IV papa 1.
Imperio vacante.
Mentre il _re Corrado_ soggiornava in Melfi, _Arrigo_ suo fratello
legittimo, nato da _Isabella_ d'Inghilterra, giovinetto di belle doti
ornato, fu a visitarlo, e nello stesso tempo infermatosi, cessò di
vivere. Voce tosto si sparse che Corrado col veleno avesse tolto dal
mondo l'innocente fanciullo; e non lasciò papa _Innocenzo_ di avvalorar
questo sospetto, per iscreditar Corrado presso il re d'Inghilterra zio
d'Arrigo[3346]. Cercò, all'incontro, Corrado di far credere falsa così
nera accusa. Se con fondamento, o no. Dio solo ne può essere il giudice.
Fuor di dubbio è bensì che Corrado in questi tempi caricò di
contribuzioni e gravezze la Puglia[3347]; e a quelle terre e città che
erano pigre al pagamento, andavano addosso o Saraceni o Tedeschi che
faceano pagar con usura. Furono in tal congiuntura messe a sacco le
città d'Ascoli, Bitonto ed altre: e se _Manfredi_ principe di Taranto
con buona maniera non provvedeva, era imminente la distruzion di quelle
contrade. Sotto il presente anno parla Matteo Paris di una battaglia
seguita fra l'esercito pontificio, comandato da _Guglielmo cardinale_
nipote del papa, e quello di Corrado, colla morte di quattro mila
soldati papalini. Forse egli intende di una zuffa di cui parlerò più
abbasso, ma che non merita titolo di sanguinosa, molto meno di grande.
Fu citato di nuovo Corrado dal pontefice a comparire in Roma, per
giustificare, se potea, la sua innocenza[3348]. Spedì egli colà di nuovo
il conte di Monforte e _Tommaso conte_ di Savoia a dir le sue ragioni, e
ad ottenere una proroga. Ma nel giovedì santo di nuovo si udì confermata
e aggravata contra di lui la papale scomunica. Preparavasi egli intanto
a ripassare in Germania per far guerra al suo competitore Guglielmo
d'Olanda, quando cadde infermo vicino a Lavello, e scomunicato, nel più
bel fiore degli anni cedette alla violenza del male nel dì 21 di maggio,
nella notte dell'Ascension del Signore[3349]. Autore della sua morte
comunemente fu creduto Manfredi, che col mezzo di Giovanni Moro,
capitano de' Saraceni e favorito di Corrado, il facesse avvelenare, sì
in vendetta degli Stati a lui tolti, come per farsi strada al regno di
Sicilia. Ma avendo Corrado un picciolo figliuolo per nome _Corradino_, a
lui partorito in Germania dalla _regina Isabella_ sua moglie nel dì 25
di marzo del 1252, a cui toccava il regno; e l'aver egli lasciato nel
suo testamento per governatore della Sicilia Bertoldo marchese di
Hoemburch, e non già Manfredi, il quale si mostrò anche alieno da tale
impiego, pare che non s'accordi col sopraddetto disegno. Maraviglia fu
che anche i nemici della corte di Roma non attribuissero ad esso
Manfredi questo colpo, come Matteo Paris asserisce fatto dianzi per
altro veleno dato al medesimo Corrado. Conoscendosi l'impossibilità di
chiarire in casi tali la verità, a me basta di avere accennato ciò che
allora e, molto più, poi si disse, specialmente dagli storici guelfi,
nemici di Manfredi[3350]. S'impossessò il nuovo balio e governatore del
regno Bertoldo di tutto il tesoro di Corrado; e perciocchè questi nel
suo testamento avea raccomandato il figliuolo Corradino alla Sede
apostolica, e ordinato al marchese di Hoemburch di fare ogni possibile
per metterlo in grazia del papa, affinchè potesse succedere nel regno di
Sicilia, furono immediatamente spediti ambasciatori ad esso Innocenzo.
Ma niuna apertura si trovò a trattato di pace. Il pontefice saldo in
dire ch'egli voleva prima il possesso del regno, e che poi si
esaminerebbe se alcun diritto vi avea il fanciullo Corradino, rigettò
ogni proposizione d'accordo. Cassò pertanto tutti gli atti e le
disposizioni testamentarie di Corrado, citò il marchese Bertoldo balio
del regno, come occupatore di uno Stato devoluto alla Chiesa; e per dar
più calore a' suoi disegni, celebrata in Assisi la festa della
Pentecoste, si mosse colla corte[3351]: e nel viaggio pacificati i
popoli di Spoleti e Terni, che erano in rotta fra loro, per Orta e
Civita Castellana arrivò alla basilica vaticana. Dopo aver quivi
celebrata solenne messa, e predicato con raccomandare ai Romani i
presenti affari, andò a posarsi in Anagni, con aver intanto spediti
ordini in Lombardia, Genova, Toscana, marca d'Ancona, patrimonio e
ducato di Spoleti, per fare copiosa leva di soldati. Comparve ad Anagni
_Manfredi_ principe di Taranto con altri baroni a trattar d'accordo, e
per quindici dì un gran dibattimento si fece; ma quando era già per
sottoscriversi la capitolazione, si ritirò il principe con gli altri.
Scopertosi intanto che Pietro Ruffo vicebalio in Sicilia[3352], Riccardo
da Montenegro, ed altri baroni guadagnati dal pontefice lavoravano
sott'acqua. Bertoldo marchese d'Hoemburch depose il baliato, e tanto
fece egli con altri dei partito della casa de' Suevi, che il principe
Manfredi accettò, benchè con ripugnanza almeno apparente, quell'uffizio.
Attese pertanto Manfredi a raunar un esercito; ma mancandogli il
principale ingrediente, cioè il danaro, nè potendone ricavare da
Bertoldo, che tutto avea occupato, trovato inoltre che i baroni
camminavano con doppiezza, e i popoli, stanchi del barbarico governo de'
Tedeschi, inclinavano a mutar padrone: egli fu il primo a sottoporsi
all'ubbidienza del pontefice, e a cedere alle contingenze del tempo,
salvi nondimeno i diritti del re suo nipote e i suoi proprii.
All'esempio suo tennero dietro gli altri baroni; alcuni nondimeno
l'aveano preceduto.
Mentre il pontefice tuttavia dimorava in Anagni[3353], i Romani che da
gran tempo assediavano Tivoli, venuta lor meno la speranza di forzar
quella città alla resa, spedirono ad esso papa, acciocchè trattasse di
pace, e non mancò egli di farlo, tuttochè disgustato del senatore, che
non lasciava andar viveri ad Anagni, nè prestar danari al papa, nè far
leva di gente per lui. Nel dì 8 di ottobre papa Innocenzo arrivò a
Ceperano sui confini del regno, e nel dì seguente entrò pel ponte in
esso regno, incontrato da Manfredi principe di Taranto, che,
accompagnato da molti altri baroni, fu a baciargli i piedi, e l'addestrò
per un tratto di strada. Io non so che mi dire del Diario di Matteo
Spinelli, che troppo discordia dai migliori scrittori nell'assegnare i
tempi. Egli fa giunto il papa a Napoli per la festa di san Pietro, con
altre cose che non battono a segno. Passò dipoi il pontefice ad Aquino,
a San Germano, a Monte Casino, accolto dappertutto con segni di
singolare onore ed affetto. Davanti a lui marciava coll'esercito
_Guglielmo cardinale_ di Sant'Eustachio, parente del medesimo papa, il
quale da tutti facea prestare giuramento di fedeltà alla Chiesa romana;
anzi pretese che Manfredi lo prestasse anch'egli: al che non volle egli
mai acconsentire, pretendendo che ciò fosse contro i patti stabiliti col
papa. Con questo felice passo camminavano gli affari del sommo
pontefice, e già egli si contava per padrone della Puglia, quando un
accidente occorse, da cui restò non poco turbata la corte pontificia.
Era il papa passato a Teano, dove fu sorpreso da incomodi di sanità, che
più non l'abbandonarono[3354]. Quivi trovandosi il principe Manfredi,
ebbe delle liti con Borello da Anglone, barone molto favorito nella
corte pontificia, per aver egli impetrato dal papa il contado di Lesina,
ancorchè appartenente a Monte Sant'Angelo, che era d'esso Manfredi, ed
averne anche inviato a prendere il possesso. Ricorse Manfredi al papa;
niuna risoluzione fu presa. Si aspettava in que' dì alla corte il
marchese Bertoldo. Volle Manfredi andare ad incontrarlo, e, preso
commiato dal papa, si mise in cammino. Non molto lungi da Teano ad un
passo stretto si trovò il suddetto Borello con una truppa d'uomini
armati: fu creduto per insultare il principe nel suo passaggio. Allora i
familiari di Manfredi s'inoltrarono per riconoscere che intenzione
avessero; e Borello co' suoi prese la fuga verso la città. Inseguito da
alcuni del principe (dicono contra volontà di lui), fu ferito e morto da
un colpo di lancia nella schiena. Grande strepito si fece per questo
nella corte del papa, il quale intanto passò a Capoa. Era giunto
Manfredi ad Acerra, con pensiero di portarsi a Capoa per giustificarsi;
ma fu consigliato di raccomandar piuttosto la sua causa al marchese
Bertoldo. Vi mandò apposta Galvano Lancia suo zio. Bertoldo ne parlò al
papa e a' ministri; e la risposta fu, che Manfredi venisse in persona, e
si ascolterebbono le sue discolpe. Se veniva, già risoluta era la di lui
prigionia. Il perchè Galvano Lancia gli significò che facea brutto tempo
per lui, e che si ritirasse ben tosto e con gran cautela verso Lucera,
ossia Nocera de' Pagani. Colà infatti, dopo aver passati molti pericoli
ed incomodi, senza che alcuno osasse di dargli ricetto, sul principio di
novembre arrivò una notte Manfredi. Per buona ventura non vi si trovò
Giovanni Moro, governatore di quella città, il più ricco e potente de'
Saraceni quivi abitanti. Fatto sapere alle sentinelle che era ivi il
principe figliuolo di Federigo imperadore, questi, amantissimi di suo
padre, non fidandosi di poter avere le chiavi dal vicegovernatore,
determinarono di rompere la porta e d'introdurlo. Detto fatto, tanto si
ruppe della porta, che il principe entrò. Fu incredibile la festa che
fecero perciò i Saraceni. Il condussero al palazzo, dove si trovarono
molti tesori dell'imperador Federigo, del re Corrado, di Oddone marchese
fratello del marchese Bertoldo, e quei specialmente di Giovanni Moro, il
quale da lì a poco tempo fu ucciso dai suoi Saraceni in Acerenza. Si
esibì tutto il popolo di Nocera a' servigi di Manfredi, e giurarono
fedeltà al re Corradino e a lui. Allora Manfredi, messa mano ne'
suddetti tesori, cominciò ad assoldar gente, e a lui da tutte le parti
concorsero i Tedeschi sparsi perla Puglia; di modo che in breve ebbe un
gagliardo esercito in piedi, ed usci in campagna alla volta di Foggia,
dove era accampato il marchese Oddone con un corpo assai poderoso di
gente pontificia. Si diede alla fuga Oddone dopo breve combattimento, e
Foggia, presa per forza, fu saccheggiata. Niccolò da Jamsilla fa ben
conoscere che questa fu una vittoria, ma non già vittoria di gran
rilievo, come vien descritta da Matteo Paris, se pur d'essa parla, come
vogliono alcuni scrittori napoletani. La verità nondimeno si è, che
questa qualunque si fosse diede tal terrore al grosso esercito
pontificio[3355], accampato allora a Troia, che, come se avessero alle
reni l'armata di Manfredi, disordinatamente di notte prese la fuga, con
lasciar indietro molto del loro equipaggio; nè si credettero in salvo il
cardinale legato ed altri, finchè non giunsero a Napoli, dove era allora
la corte pontificia.
Ma ritrovarono che già papa _Innocenzo IV_, sopraffatto dalla malattia,
era passato a miglior vita. Il Rinaldi[3356] fa accaduta la sua morte
nel dì 7 di dicembre. Il che vien confermato da Pietro da Curbio[3357],
che il dice defunto in Napoli nella festa di sant'Ambrosio. Niccolò da
Jamsilla e Bernardo di Guidone mettono la sua morte nel dì 13 del mese
suddetto; altri nel dì 40; ma si dee stare all'asserzione de' primi.
L'infelice successo di Foggia portò al cuore ancora de' cardinali
esistenti in Napoli un grave scompiglio, di maniera che, se non era il
marchese Bertoldo, che facesse lor animo, già pensavano a ritirarsi
verso Roma. Nel dì 21 del suddetto mese di dicembre, secondo il Rinaldi,
o piuttosto, siccome scrive chiaramente Pietro da Curbio, nel sabbato
giorno 12 del suddetto mese, fu eletto pontefice _Rinaldo vescovo_
d'Ostia da Anagni della nobil famiglia de' conti di Segna, e parente dei
predefunti papi Innocenzo III e Gregorio IX. Prese il nome di
_Alessandro IV_, e portò sulla sedia di san Pietro delle prerogative ben
degne del sommo pontificato. Buono e mansueto, nè portato a maneggiar le
chiavi e la spada con tanto imperio, e con tante gravezze agli
ecclesiastici, come avea praticato il suo predecessore, _revocat et
cassat, quae in gravamen multorum suus constituerat antecessor_, son
parole di Arrigo Sterone[3358]. Fu guerra in questo anno[3359] fra i
Pisani dall'una parte, e i Fiorentini e Lucchesi dall'altra. Sulle prime
riportarono i Pisani dei vantaggi, poscia ebbero molte busse e danni, in
guisa che vennero in parere di chieder pace. Se ne trattò per parecchi
giorni; e convien ben credere che il comune di Pisa si sentisse debole,
dacchè per ottenerla fece compromesso delle sue differenze in Guiscardo
da Pietrasanta Milanese, podestà di Firenze. Questi poi diede un laudo,
condannando i Pisani a restituire a' Lucchesi le castella di Motrone e
Monte Topolo; ai Genovesi Ilice e Trebiano, con altre condizioni, per le
quali tenendosi aggravato il comune di Pisa, non volle accettar quella
sentenza: il che fu cagione di nuova guerra. In questo medesimo anno nel
mese di agosto fecero oste i suddetti Fiorentini contra di
Volterra[3360], che si reggeva a parte ghibellina. Usciti
disordinatamente i Volterrani, furono incalzati, e con esso loro
entrarono anche i Fiorentini nella città. Gran cosa fu che si salvarono
dal sacco. Ne furono cacciati i Ghibellini, lasciato presidio in quelle
fortezze. Anche Poggibonzi, già ribellato, tornò per forza sotto la
signoria de' Fiorentini. Fecero guerra in quest'anno i Bolognesi[3361]
alla città di Cervia. Se ne impadronirono, e vi misero un podestà che a
loro nome la governasse. Di ciò neppure una parola si legge presso
Girolamo Rossi nella Storia di Ravenna. Dalle Croniche di Milano[3362]
altro non si ricava sotto il presente anno, se non che qualche
combattimento seguì fra i nobili e popolari di quella città; e che fu
chiamato colà un certo Beno dei Gonzani Bolognese, a cui fu data balia
di cavar danari dal popolo. Costui, sapendo ben esercitare il, per altro
facile, mestiere di pelare chi non può resistere, inventò nuovi dazii e
gabelle, ed introdusse ogni mala usanza in quella città. Come il popolo
dominante allora si lasciasse calpestare e spolpare da costui per
quattro anni, non si sa intendere. Secondo la Cronica Piacentina[3363],
il _marchese Oberto_ Pelavicino, che già signoreggiava in Cremona, seppe
così ben maneggiarsi, che dal popolo di Piacenza fu eletto per loro
signore perpetuo. Tentò di fare lo stesso anche in Parma coll'aiuto
della fazion ghibellina esistente in quella città[3364], e a questo fine
passò ad assalir Borgo San Donnino e Colorno. Gli veniva fatto, se,
alzatosi un vil sartore parmigiano, e divenuto capo popolo, non avesse
costretto i Ghibellini colle minaccie a desistere dal loro proponimento.
Perciò il marchese Oberto se ne tornò a Cremona senza far altro. Il
Sigonio, che narra questo fatto, l'avrà preso dalla Cronica del
Salimbeni, che si è perduta. Era il marchese Pelavicino suddetto gran
sostenitore della parte ghibellina, e perciò amico di Eccelino. Alcuni
scrittori guelfi cel rappresentano non inferiore al medesimo Eccelino
nella crudeltà e fierezza, forse con qualche ingiuria del vero. Abbiamo
bensì in quest'anno da Rolandino[3365] e da Parisio da Cereta[3366] una
serie d'altri inumani fatti d'esso Eccelino, che ogni dì più peggiorava
nella sua tirribil tirannia.
NOTE:
[3346] Matth. Paris, Hist. Angl. Nicolaus de Jamsilla, Hist., tom. 8
Rer. Ital.
[3347] Matteo Spinelli, Diario, tom. 7 Rer. Ital.
[3348] Raynaldus, in Annal. Eccl.
[3349] Nicolaus de Jamsilla, tom. 8 Rer. Ital. Sabas Malaspina. Hist.,
lib. 1, cap. 4. Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Ital.
[3350] Ricordano Malaspina, cap. 146.
[3351] Petrus de Curbio, Vita Innocentii IV, P. I, tom. 3 Rer. Ital.
[3352] Nicolaus de Jamsilla, in Hist.
[3353] Petrus de Curbio, cap. 40.
[3354] Nicolaus, de Jamsilla, tom. 8 Rer. Ital.
[3355] Sabas Malaspina, lib. i, cap. 5.
[3356] Raynald., in Annal. Eccl.
[3357] Petrus de Curbio, Vii. Innocent. IV, cap. 42.
[3358] Stero, in Chron. Augustano,
[3359] Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Italic.
[3360] Ricordano Malaspin., cap. 155. Ptolom. Lucensis, in Annales
brev., tom. II Rer. Ital.
[3361] Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.
[3362] Annal. Mediolan., tom. 19 Rer. Ital. Gualv. Flamm., Manip. Flor.
[3363] Chron. Placent., tom. 1 Rer. Ital.
[3364] Sigon., de Regno Ital., lib. 19.
[3365] Roland., lib. 7, cap. 10.
[3366] Paris de Cereta, Annal. Veronens., tom. 8 Rer. Ital.
Anno di CRISTO MCCLV. Indizione XIII.
ALESSANDRO IV papa 2.
Imperio vacante.
Seppe ben prevalersi del prosperoso aspetto di sua fortuna _Manfredi_
principe di Taranto, ed anche nel verno attese a far delle conquiste. La
città di Barletta, a riserva del castello, venne alla sua
divozione[3367]. Venosa mandò ad offerirgli le chiavi. Trovavasi
tuttavia nella corte pontificia Galvano Lancia, zio materno di esso
Manfredi, uomo di gran destrezza e prudenza, che facea vista d'essere
forte in collera contra del nipote per la sua ribellione. Ma tutto ad un
tempo egli si ritirò da Napoli, e passò ad Acerenza con riceverne il
possesso a nome di Manfredi: il che fatto, andò a trovare il nipote a
Venosa. L'arrivo suo riempiè d'inesplicabil contento Manfredi, che
troppo abbisognava del consiglio e braccio di un sì fidato consigliere.
Quantunque la città di Rapolla fosse feudo dianzi conceduto ad esso
Galvano, pure dimorava ostinata in favor della Chiesa. Andò colà Galvano
coll'armata del principe, adoperò in vano le chiamate; colla forza in
fine la sottomise, e l'imprudente resistenza di quei cittadini costò la
vita a molti, e la desolazione della loro città. Melfi, Trani, Bari ed
altri luoghi non vollero rimaner esposti a somigliante pericolo, e si
diedero a Manfredi: con che, a riserva delle città della provincia
d'Otranto, quasi tutta la Puglia cominciò ad ubbidire ai suoi cenni. Non
sapeva digerire il nuovo papa _Alessandro IV_ colla corte pontificia che
Manfredi niuno ambasciatiore peranche avesse inviato a prestargli ameno
l'ubbidienza dovuta a lui come vicario di Cristo. Se gli fece insinuare
da più persone che inviasse con isperanza di riportarne dei vantaggi; ed
egli infine vi spedì due suoi segretarii ben istruiti con sufficiente
mandato di trattar di concordia. Iti essi a Napoli, ne cominciarono di
fatto il trattato. In questo mentre Manfredi collo esercito andò a
mettersi in possesso della Guardia de' Lombardi, come luogo spettante al
suo contado d'Andria. S'ebbe non poco a male la corte pontificia che,
trattandosi di pace, egli seguitasse le ostilità, temendo ch'egli non
venisse alla volta di Napoli; laonde egli per compiacerla se ne ritirò,
e prese il viaggio verso d'Otranto, per l'avviso giuntogli che Manfredi
Lancia suo parente era stato sconfitto dal popolo di Brindisi, il quale
avea anche presa e distrutta la città di Nardò. Intanto il papa dichiarò
suo legato in Puglia _Ottaviano_ degli Ubaldini cardinale di Santa Maria
in Via Lata, con ordine di ammassare un possente esercito contra di
Manfredi. Ora dunque, e non prima, come con errore scrisse Saba
Malaspina[3368], questo cardinale cominciò a presiedere all'armi del
pontefice. Da ciò presero motivo i ministri di Manfredi di rompere il
trattato di pace, e se ne tornarono al loro padrone. Passato Manfredi
alla volta di Brindisi, saccheggiò quel paese; assediò, ma indarno,
quella città; venne a' suoi comandamenti Lecce. Pose anche l'assedio
alla città d'Oria, che seppe vigorosamente difendersi. Stando egli
quivi, ricevete la buona nuova che Pietro Ruffo Calabrese, conte di
Catanzaro, che fin qui aveva esercitato in Sicilia l'uffizio di
vicebalio e governatore di quell'isola, uomo palese nemico suo, e che
teneva gran filo colla corte del papa, cacciato via dai Messinesi, s'era
ritirato in Calabria ai suoi Stati. Gli ordini spediti colà a questo
avviso da Manfredi, con un corpo di combattenti, e l'odiosità conceputa
anche da Calabresi contra di esso Pietro Ruffo, cagion furono che que'
popoli si sollevarono contra di lui, di modo che divenuto ramingo fu
infine forzato a cercare rifugio nella corte pontificia.
In quest'anno la città di Trento si levò dall'ubbidienza di _Eccelino_
da Romano[3369], dove quel popolo doveva aver fatta anch'esso pruova di
quella crudeltà che egli seguitava ad esercitare in Padova, e nelle
altre città a lui sottoposte. Spedì egli a quella volta un gagliardo
esercito, a cui solamente riuscì di dare un terribil guasto a molte
castella e ville di quel distretto. _Oberto marchese_ Pelavicino, già
divenuto signor di Cremona e Piacenza[3370], di volontà de' Piacentini
distrusse anch'egli nell'anno presente una mano di castella di quel
territorio, che probabilmente appartenevano ai nobili fuorusciti della
medesima città. Abbiamo dagli Annali d'Asti[3371], che in questi tempi
_Tommaso conte_ di Savoia cominciò la guerra contra degli Astigiani, con
levar loro il borgo di Chieri. Ed essendo Guiscardo da Pietrasanta
Milanese podestà di Lucca, fece fabbricar due borghi nella Versilia
sottoposta a Lucca[3372]. All'uno pose il nome di _Campo Maggiore_,
all'altro di _Pietra Santa_ dal suo cognome. Del che fo io menzione,
acciocchè si conosca la falsità del famoso decreto attribuito a
_Desiderio_ re de' Longobardi, scolpito in marmo nella città di Viterbo,
lodato dal Sigonio, stampato dal Grutero fra l'altre iscrizioni, dove è
parlato di Pietrasanta, di cui esso re vien fatto autore. Di tale
impostura ho io ragionato altrove[3373]. In Giberto da Correggio, detto
della Gente, podestà di Parma, era stato fatto compromesso[3374] dai
Modenesi e Bolognesi per le differenze loro intorno alla picciola
provincia del Frignano, in buona parte occupata dalla potenza d'essi
Bolognesi al popolo di Modena. Chiara cosa era, secondo la giustizia,
che se ne dovea fare la restituzione. Abborrivano i Bolognesi la
pronunzia del laudo, figurandosi bene qual esser dovesse, e la tirarono
sempre a lungo; ma infine Giberto lo proferì con obbligare il popolo di
Bologna a dimettere a' Modenesi l'usurpato possesso di quella contrada.
Ma perchè non sanno mai i potenti, che in qualche maniera sieno entrati
in possesso degli Stati dei meno potenti, persuadersi di avere il torto,
e che per loro sia fatta la legge di Dio che obbliga a restituire; i
Bolognesi lasciarono cantare il giudice, e seguitarono a ritener quel
paese finchè poterono. Mentre questi piccioli affari si faceano in
Lombardia, non perdeva oncia di tempo _Manfredi_ per migliorare quei del
_re Corradino_ suo nipote[3375], o piuttosto i suoi proprii, in Puglia e
Calabria. Eransi i Messinesi, dappoichè si furono sbrigati da Pietro
Ruffo, invogliati di reggersi a repubblica, e già col pensiero si
fabbricavano un largo dominio tanto in Sicilia che in Calabria alle
spese dei vicini. A questo effetto con potente armamento di gente e di
come vuol Pietro da Curbio[3339], a scoprirsi, e _Carlo conte_ d'Angiò e
di Provenza, fratello del re di Francia, si esibisse al papa; oppure che
il papa, non trovando buona disposizione in Inghilterra, chiamasse a
mercato esso conte d'Angiò: certamente pare che fin d'allora Carlo vi
accudisse. Accadde dipoi, che il _re Arrigo_ trattò di ottenere per suo
figliuolo _Edmondo_ il regno di Sicilia, promettendo di gran cose.
Pietro da Curbio asserisce, che fu conchiuso questo contratto col re
inglese, il quale cominciò a far preparamenti per effettuarlo.
All'incontro dal Rinaldi[3340] sotto quest'anno sono rapportate le
condizioni, colle quali il papa esibiva a Carlo conte d'Angiò il regno
di Sicilia, ducato di Puglia e principato di Capoa. Quivi è nominato il
suddetto Alberto da Parma, come legato del papa. Così il Rinaldi.
Contuttociò tengo io per fermo che quel documento appartenga ai tempi di
Urbano IV, e non ai presenti.
Gran premura fecero in quest'anno i Romani a papa Innocenzo IV per farlo
ritornare a Roma, e, se vogliam credere a Matteo Paris[3341],
minacciarono anche Perugia, se ne impediva, o non ne sollecitava la
venuta. Mal volentieri si risolveva il pontefice a compiacerli, ben
conoscendo la difficoltà di trovar quiete fra que' torbidi ed instabili
cervelli d'allora, avvezzi a comandare e non ad ubbidire. Andò egli ad
Assisi[3342] nella domenica in albis, vi dedicò la chiesa di San
Francesco, visitò santa Chiara inferma, che nel dì 30 di giugno fu
chiamata da Dio alla patria de' giusti, e passò egli la state in quella
città. Poscia nel dì 6 di ottobre si mise in viaggio verso Roma, dove
dal senatore, dal clero e popolo romano fu incontrato fuori della città,
e introdotto con sommo giubilo ed onore. Pietro da Curbio scrive ch'esso
senatore, cioè Brancaleone, avea fatto il possibile perchè il papa non
venisse, e andò poi macchinando sempre contra di lui. Matteo Paris, per
lo contrario, attesta ch'egli fu in suo favore; ed avendo il popolo
romano cominciato a muovere pretensioni di grossissimi crediti per le
spese da lor fatte a fin di sostenere il pontefice nei tempi di Federigo
II, Brancaleone quetò con dolci parole il lor furore, e conservò la
pace. Tornò poscia il re Corrado ad inviare a Roma il conte di Monforte
suo zio, ed altri ambasciadori per placare il papa, ed impetrar
l'investitura del regno. In Lombardia la città di Parma[3343] nell'anno
presente fece qualche mutazione, pacificandosi co' Cremonesi e col
_marchese Oberto_ Pelavicino capo dei Ghibellini in queste parti.
Giberto da Correggio, soprannominato della Gente, prese allora un gran
predominio in Parma. Vi entrarono anche i Ghibellini fuorusciti.
Altrettanto fu fatto in Reggio, dove furono richiamati i Guelfi. Per
l'accordo suddetto il comune di Cremona restituì a Parma il castello di
Brescello, e tutti i prigionieri parmigiani che dianzi barbaramente
erano trattati nelle carceri cremonesi. Si riaccese in questi tempi la
guerra fra i Milanesi e Pavesi. Nel dì 10 di maggio l'esercito di Milano
col carroccio[3344], avendo passato il ponte di Vigevano, s'impadronì
della terra di Gambalò, e cinse poscia d'assedio Mortara. Ancor questa
terra fu presa; ma, facendo gran difesa il castello, venne l'esercito
pavese per soccorrerlo. Interpostisi intanto alcuni mediatori fra i due
popoli, si rinnovò la pace. Più che mai continuarono in questi tempi le
orride crudeltà d'Eccelino in Padova[3345] e negli altri luoghi a lui
sottoposti. Papa Innocenzo rinnovò per questo le scomuniche contra di
lui, e dichiarollo eretico; ma altro ci voleva che tali esorcismi a
vincere uno spirito sì maligno. Monte ed Araldo da Monselice fra gli
altri, imputati di tradimento, furono condotti a Padova. Gridando essi
ad alta voce di non essere traditori, Eccelino, ch'era a tavola, calò al
rumore, nè volle ascoltar ragione. Allora Monte, scagliatosi in furia
addosso al tiranno, il rovesciò a terra, e, dopo avere indarno
cercatogli addosso se avea qualche coltello, il prese per la gola por
soffocarlo, e coi denti e colle unghie gli fece quanto male potè. S'egli
trovava armi, in quel dì la terra si sarebbe sgravata del peggiore di
tutti gli uomini. Ma accorsi i familiari del tiranno, tanto fecero che,
messo in pezzi Monte col fratello, liberarono Eccelino dal pericolo, ma
non già dalle ferite, a curar le quali vi vollero molti giorni. Empiè in
questi tempi l'iniquissimo tiranno le infernali sue carceri di cittadini
padovani e veronesi, sì ecclesiastici che laici. Tutto era terrore,
tutto disperazione sotto di questo barbaro, a cui ogni menoma parola od
ombra di sospetto serviva di motivo per incarcerare o tormentare o
levare di vita le persone.
NOTE:
[3334] Chron. Cavense, tom. 7 Rer. Ital.
[3335] Matteo Spinelli, Diario, tom. 7 Rer. Ital.
[3336] Sabas Malaspina, lib. 1, cap. 3.
[3337] Bartholomaeus de Neocastro, cap. 3, tom. 13 Rer. Ital.
[3338] Matth. Paris, Hist. Angl.
[3339] Petrus de Curbio, Vita Innocen. IV, cap. 31, P. I, tom. 3 Rer.
Ital.
[3340] Raynald, in Annal. Eccles.
[3341] Matth. Paris, Hist. Angl.
[3342] Petrus de Curbio, in Vita Innocen. IV, cap. 32 et seq.
[3343] Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.
[3344] Gualv. Flamma, Manip. Flor., cap. 287.
[3345] Roland., lib. 7, cap. 3 et seq. Monachus Patavinus, in Chron.,
tom. 8 Rerum Ital.
Anno di CRISTO MCCLIV. Indizione XII.
ALESSANDRO IV papa 1.
Imperio vacante.
Mentre il _re Corrado_ soggiornava in Melfi, _Arrigo_ suo fratello
legittimo, nato da _Isabella_ d'Inghilterra, giovinetto di belle doti
ornato, fu a visitarlo, e nello stesso tempo infermatosi, cessò di
vivere. Voce tosto si sparse che Corrado col veleno avesse tolto dal
mondo l'innocente fanciullo; e non lasciò papa _Innocenzo_ di avvalorar
questo sospetto, per iscreditar Corrado presso il re d'Inghilterra zio
d'Arrigo[3346]. Cercò, all'incontro, Corrado di far credere falsa così
nera accusa. Se con fondamento, o no. Dio solo ne può essere il giudice.
Fuor di dubbio è bensì che Corrado in questi tempi caricò di
contribuzioni e gravezze la Puglia[3347]; e a quelle terre e città che
erano pigre al pagamento, andavano addosso o Saraceni o Tedeschi che
faceano pagar con usura. Furono in tal congiuntura messe a sacco le
città d'Ascoli, Bitonto ed altre: e se _Manfredi_ principe di Taranto
con buona maniera non provvedeva, era imminente la distruzion di quelle
contrade. Sotto il presente anno parla Matteo Paris di una battaglia
seguita fra l'esercito pontificio, comandato da _Guglielmo cardinale_
nipote del papa, e quello di Corrado, colla morte di quattro mila
soldati papalini. Forse egli intende di una zuffa di cui parlerò più
abbasso, ma che non merita titolo di sanguinosa, molto meno di grande.
Fu citato di nuovo Corrado dal pontefice a comparire in Roma, per
giustificare, se potea, la sua innocenza[3348]. Spedì egli colà di nuovo
il conte di Monforte e _Tommaso conte_ di Savoia a dir le sue ragioni, e
ad ottenere una proroga. Ma nel giovedì santo di nuovo si udì confermata
e aggravata contra di lui la papale scomunica. Preparavasi egli intanto
a ripassare in Germania per far guerra al suo competitore Guglielmo
d'Olanda, quando cadde infermo vicino a Lavello, e scomunicato, nel più
bel fiore degli anni cedette alla violenza del male nel dì 21 di maggio,
nella notte dell'Ascension del Signore[3349]. Autore della sua morte
comunemente fu creduto Manfredi, che col mezzo di Giovanni Moro,
capitano de' Saraceni e favorito di Corrado, il facesse avvelenare, sì
in vendetta degli Stati a lui tolti, come per farsi strada al regno di
Sicilia. Ma avendo Corrado un picciolo figliuolo per nome _Corradino_, a
lui partorito in Germania dalla _regina Isabella_ sua moglie nel dì 25
di marzo del 1252, a cui toccava il regno; e l'aver egli lasciato nel
suo testamento per governatore della Sicilia Bertoldo marchese di
Hoemburch, e non già Manfredi, il quale si mostrò anche alieno da tale
impiego, pare che non s'accordi col sopraddetto disegno. Maraviglia fu
che anche i nemici della corte di Roma non attribuissero ad esso
Manfredi questo colpo, come Matteo Paris asserisce fatto dianzi per
altro veleno dato al medesimo Corrado. Conoscendosi l'impossibilità di
chiarire in casi tali la verità, a me basta di avere accennato ciò che
allora e, molto più, poi si disse, specialmente dagli storici guelfi,
nemici di Manfredi[3350]. S'impossessò il nuovo balio e governatore del
regno Bertoldo di tutto il tesoro di Corrado; e perciocchè questi nel
suo testamento avea raccomandato il figliuolo Corradino alla Sede
apostolica, e ordinato al marchese di Hoemburch di fare ogni possibile
per metterlo in grazia del papa, affinchè potesse succedere nel regno di
Sicilia, furono immediatamente spediti ambasciatori ad esso Innocenzo.
Ma niuna apertura si trovò a trattato di pace. Il pontefice saldo in
dire ch'egli voleva prima il possesso del regno, e che poi si
esaminerebbe se alcun diritto vi avea il fanciullo Corradino, rigettò
ogni proposizione d'accordo. Cassò pertanto tutti gli atti e le
disposizioni testamentarie di Corrado, citò il marchese Bertoldo balio
del regno, come occupatore di uno Stato devoluto alla Chiesa; e per dar
più calore a' suoi disegni, celebrata in Assisi la festa della
Pentecoste, si mosse colla corte[3351]: e nel viaggio pacificati i
popoli di Spoleti e Terni, che erano in rotta fra loro, per Orta e
Civita Castellana arrivò alla basilica vaticana. Dopo aver quivi
celebrata solenne messa, e predicato con raccomandare ai Romani i
presenti affari, andò a posarsi in Anagni, con aver intanto spediti
ordini in Lombardia, Genova, Toscana, marca d'Ancona, patrimonio e
ducato di Spoleti, per fare copiosa leva di soldati. Comparve ad Anagni
_Manfredi_ principe di Taranto con altri baroni a trattar d'accordo, e
per quindici dì un gran dibattimento si fece; ma quando era già per
sottoscriversi la capitolazione, si ritirò il principe con gli altri.
Scopertosi intanto che Pietro Ruffo vicebalio in Sicilia[3352], Riccardo
da Montenegro, ed altri baroni guadagnati dal pontefice lavoravano
sott'acqua. Bertoldo marchese d'Hoemburch depose il baliato, e tanto
fece egli con altri dei partito della casa de' Suevi, che il principe
Manfredi accettò, benchè con ripugnanza almeno apparente, quell'uffizio.
Attese pertanto Manfredi a raunar un esercito; ma mancandogli il
principale ingrediente, cioè il danaro, nè potendone ricavare da
Bertoldo, che tutto avea occupato, trovato inoltre che i baroni
camminavano con doppiezza, e i popoli, stanchi del barbarico governo de'
Tedeschi, inclinavano a mutar padrone: egli fu il primo a sottoporsi
all'ubbidienza del pontefice, e a cedere alle contingenze del tempo,
salvi nondimeno i diritti del re suo nipote e i suoi proprii.
All'esempio suo tennero dietro gli altri baroni; alcuni nondimeno
l'aveano preceduto.
Mentre il pontefice tuttavia dimorava in Anagni[3353], i Romani che da
gran tempo assediavano Tivoli, venuta lor meno la speranza di forzar
quella città alla resa, spedirono ad esso papa, acciocchè trattasse di
pace, e non mancò egli di farlo, tuttochè disgustato del senatore, che
non lasciava andar viveri ad Anagni, nè prestar danari al papa, nè far
leva di gente per lui. Nel dì 8 di ottobre papa Innocenzo arrivò a
Ceperano sui confini del regno, e nel dì seguente entrò pel ponte in
esso regno, incontrato da Manfredi principe di Taranto, che,
accompagnato da molti altri baroni, fu a baciargli i piedi, e l'addestrò
per un tratto di strada. Io non so che mi dire del Diario di Matteo
Spinelli, che troppo discordia dai migliori scrittori nell'assegnare i
tempi. Egli fa giunto il papa a Napoli per la festa di san Pietro, con
altre cose che non battono a segno. Passò dipoi il pontefice ad Aquino,
a San Germano, a Monte Casino, accolto dappertutto con segni di
singolare onore ed affetto. Davanti a lui marciava coll'esercito
_Guglielmo cardinale_ di Sant'Eustachio, parente del medesimo papa, il
quale da tutti facea prestare giuramento di fedeltà alla Chiesa romana;
anzi pretese che Manfredi lo prestasse anch'egli: al che non volle egli
mai acconsentire, pretendendo che ciò fosse contro i patti stabiliti col
papa. Con questo felice passo camminavano gli affari del sommo
pontefice, e già egli si contava per padrone della Puglia, quando un
accidente occorse, da cui restò non poco turbata la corte pontificia.
Era il papa passato a Teano, dove fu sorpreso da incomodi di sanità, che
più non l'abbandonarono[3354]. Quivi trovandosi il principe Manfredi,
ebbe delle liti con Borello da Anglone, barone molto favorito nella
corte pontificia, per aver egli impetrato dal papa il contado di Lesina,
ancorchè appartenente a Monte Sant'Angelo, che era d'esso Manfredi, ed
averne anche inviato a prendere il possesso. Ricorse Manfredi al papa;
niuna risoluzione fu presa. Si aspettava in que' dì alla corte il
marchese Bertoldo. Volle Manfredi andare ad incontrarlo, e, preso
commiato dal papa, si mise in cammino. Non molto lungi da Teano ad un
passo stretto si trovò il suddetto Borello con una truppa d'uomini
armati: fu creduto per insultare il principe nel suo passaggio. Allora i
familiari di Manfredi s'inoltrarono per riconoscere che intenzione
avessero; e Borello co' suoi prese la fuga verso la città. Inseguito da
alcuni del principe (dicono contra volontà di lui), fu ferito e morto da
un colpo di lancia nella schiena. Grande strepito si fece per questo
nella corte del papa, il quale intanto passò a Capoa. Era giunto
Manfredi ad Acerra, con pensiero di portarsi a Capoa per giustificarsi;
ma fu consigliato di raccomandar piuttosto la sua causa al marchese
Bertoldo. Vi mandò apposta Galvano Lancia suo zio. Bertoldo ne parlò al
papa e a' ministri; e la risposta fu, che Manfredi venisse in persona, e
si ascolterebbono le sue discolpe. Se veniva, già risoluta era la di lui
prigionia. Il perchè Galvano Lancia gli significò che facea brutto tempo
per lui, e che si ritirasse ben tosto e con gran cautela verso Lucera,
ossia Nocera de' Pagani. Colà infatti, dopo aver passati molti pericoli
ed incomodi, senza che alcuno osasse di dargli ricetto, sul principio di
novembre arrivò una notte Manfredi. Per buona ventura non vi si trovò
Giovanni Moro, governatore di quella città, il più ricco e potente de'
Saraceni quivi abitanti. Fatto sapere alle sentinelle che era ivi il
principe figliuolo di Federigo imperadore, questi, amantissimi di suo
padre, non fidandosi di poter avere le chiavi dal vicegovernatore,
determinarono di rompere la porta e d'introdurlo. Detto fatto, tanto si
ruppe della porta, che il principe entrò. Fu incredibile la festa che
fecero perciò i Saraceni. Il condussero al palazzo, dove si trovarono
molti tesori dell'imperador Federigo, del re Corrado, di Oddone marchese
fratello del marchese Bertoldo, e quei specialmente di Giovanni Moro, il
quale da lì a poco tempo fu ucciso dai suoi Saraceni in Acerenza. Si
esibì tutto il popolo di Nocera a' servigi di Manfredi, e giurarono
fedeltà al re Corradino e a lui. Allora Manfredi, messa mano ne'
suddetti tesori, cominciò ad assoldar gente, e a lui da tutte le parti
concorsero i Tedeschi sparsi perla Puglia; di modo che in breve ebbe un
gagliardo esercito in piedi, ed usci in campagna alla volta di Foggia,
dove era accampato il marchese Oddone con un corpo assai poderoso di
gente pontificia. Si diede alla fuga Oddone dopo breve combattimento, e
Foggia, presa per forza, fu saccheggiata. Niccolò da Jamsilla fa ben
conoscere che questa fu una vittoria, ma non già vittoria di gran
rilievo, come vien descritta da Matteo Paris, se pur d'essa parla, come
vogliono alcuni scrittori napoletani. La verità nondimeno si è, che
questa qualunque si fosse diede tal terrore al grosso esercito
pontificio[3355], accampato allora a Troia, che, come se avessero alle
reni l'armata di Manfredi, disordinatamente di notte prese la fuga, con
lasciar indietro molto del loro equipaggio; nè si credettero in salvo il
cardinale legato ed altri, finchè non giunsero a Napoli, dove era allora
la corte pontificia.
Ma ritrovarono che già papa _Innocenzo IV_, sopraffatto dalla malattia,
era passato a miglior vita. Il Rinaldi[3356] fa accaduta la sua morte
nel dì 7 di dicembre. Il che vien confermato da Pietro da Curbio[3357],
che il dice defunto in Napoli nella festa di sant'Ambrosio. Niccolò da
Jamsilla e Bernardo di Guidone mettono la sua morte nel dì 13 del mese
suddetto; altri nel dì 40; ma si dee stare all'asserzione de' primi.
L'infelice successo di Foggia portò al cuore ancora de' cardinali
esistenti in Napoli un grave scompiglio, di maniera che, se non era il
marchese Bertoldo, che facesse lor animo, già pensavano a ritirarsi
verso Roma. Nel dì 21 del suddetto mese di dicembre, secondo il Rinaldi,
o piuttosto, siccome scrive chiaramente Pietro da Curbio, nel sabbato
giorno 12 del suddetto mese, fu eletto pontefice _Rinaldo vescovo_
d'Ostia da Anagni della nobil famiglia de' conti di Segna, e parente dei
predefunti papi Innocenzo III e Gregorio IX. Prese il nome di
_Alessandro IV_, e portò sulla sedia di san Pietro delle prerogative ben
degne del sommo pontificato. Buono e mansueto, nè portato a maneggiar le
chiavi e la spada con tanto imperio, e con tante gravezze agli
ecclesiastici, come avea praticato il suo predecessore, _revocat et
cassat, quae in gravamen multorum suus constituerat antecessor_, son
parole di Arrigo Sterone[3358]. Fu guerra in questo anno[3359] fra i
Pisani dall'una parte, e i Fiorentini e Lucchesi dall'altra. Sulle prime
riportarono i Pisani dei vantaggi, poscia ebbero molte busse e danni, in
guisa che vennero in parere di chieder pace. Se ne trattò per parecchi
giorni; e convien ben credere che il comune di Pisa si sentisse debole,
dacchè per ottenerla fece compromesso delle sue differenze in Guiscardo
da Pietrasanta Milanese, podestà di Firenze. Questi poi diede un laudo,
condannando i Pisani a restituire a' Lucchesi le castella di Motrone e
Monte Topolo; ai Genovesi Ilice e Trebiano, con altre condizioni, per le
quali tenendosi aggravato il comune di Pisa, non volle accettar quella
sentenza: il che fu cagione di nuova guerra. In questo medesimo anno nel
mese di agosto fecero oste i suddetti Fiorentini contra di
Volterra[3360], che si reggeva a parte ghibellina. Usciti
disordinatamente i Volterrani, furono incalzati, e con esso loro
entrarono anche i Fiorentini nella città. Gran cosa fu che si salvarono
dal sacco. Ne furono cacciati i Ghibellini, lasciato presidio in quelle
fortezze. Anche Poggibonzi, già ribellato, tornò per forza sotto la
signoria de' Fiorentini. Fecero guerra in quest'anno i Bolognesi[3361]
alla città di Cervia. Se ne impadronirono, e vi misero un podestà che a
loro nome la governasse. Di ciò neppure una parola si legge presso
Girolamo Rossi nella Storia di Ravenna. Dalle Croniche di Milano[3362]
altro non si ricava sotto il presente anno, se non che qualche
combattimento seguì fra i nobili e popolari di quella città; e che fu
chiamato colà un certo Beno dei Gonzani Bolognese, a cui fu data balia
di cavar danari dal popolo. Costui, sapendo ben esercitare il, per altro
facile, mestiere di pelare chi non può resistere, inventò nuovi dazii e
gabelle, ed introdusse ogni mala usanza in quella città. Come il popolo
dominante allora si lasciasse calpestare e spolpare da costui per
quattro anni, non si sa intendere. Secondo la Cronica Piacentina[3363],
il _marchese Oberto_ Pelavicino, che già signoreggiava in Cremona, seppe
così ben maneggiarsi, che dal popolo di Piacenza fu eletto per loro
signore perpetuo. Tentò di fare lo stesso anche in Parma coll'aiuto
della fazion ghibellina esistente in quella città[3364], e a questo fine
passò ad assalir Borgo San Donnino e Colorno. Gli veniva fatto, se,
alzatosi un vil sartore parmigiano, e divenuto capo popolo, non avesse
costretto i Ghibellini colle minaccie a desistere dal loro proponimento.
Perciò il marchese Oberto se ne tornò a Cremona senza far altro. Il
Sigonio, che narra questo fatto, l'avrà preso dalla Cronica del
Salimbeni, che si è perduta. Era il marchese Pelavicino suddetto gran
sostenitore della parte ghibellina, e perciò amico di Eccelino. Alcuni
scrittori guelfi cel rappresentano non inferiore al medesimo Eccelino
nella crudeltà e fierezza, forse con qualche ingiuria del vero. Abbiamo
bensì in quest'anno da Rolandino[3365] e da Parisio da Cereta[3366] una
serie d'altri inumani fatti d'esso Eccelino, che ogni dì più peggiorava
nella sua tirribil tirannia.
NOTE:
[3346] Matth. Paris, Hist. Angl. Nicolaus de Jamsilla, Hist., tom. 8
Rer. Ital.
[3347] Matteo Spinelli, Diario, tom. 7 Rer. Ital.
[3348] Raynaldus, in Annal. Eccl.
[3349] Nicolaus de Jamsilla, tom. 8 Rer. Ital. Sabas Malaspina. Hist.,
lib. 1, cap. 4. Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Ital.
[3350] Ricordano Malaspina, cap. 146.
[3351] Petrus de Curbio, Vita Innocentii IV, P. I, tom. 3 Rer. Ital.
[3352] Nicolaus de Jamsilla, in Hist.
[3353] Petrus de Curbio, cap. 40.
[3354] Nicolaus, de Jamsilla, tom. 8 Rer. Ital.
[3355] Sabas Malaspina, lib. i, cap. 5.
[3356] Raynald., in Annal. Eccl.
[3357] Petrus de Curbio, Vii. Innocent. IV, cap. 42.
[3358] Stero, in Chron. Augustano,
[3359] Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Italic.
[3360] Ricordano Malaspin., cap. 155. Ptolom. Lucensis, in Annales
brev., tom. II Rer. Ital.
[3361] Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.
[3362] Annal. Mediolan., tom. 19 Rer. Ital. Gualv. Flamm., Manip. Flor.
[3363] Chron. Placent., tom. 1 Rer. Ital.
[3364] Sigon., de Regno Ital., lib. 19.
[3365] Roland., lib. 7, cap. 10.
[3366] Paris de Cereta, Annal. Veronens., tom. 8 Rer. Ital.
Anno di CRISTO MCCLV. Indizione XIII.
ALESSANDRO IV papa 2.
Imperio vacante.
Seppe ben prevalersi del prosperoso aspetto di sua fortuna _Manfredi_
principe di Taranto, ed anche nel verno attese a far delle conquiste. La
città di Barletta, a riserva del castello, venne alla sua
divozione[3367]. Venosa mandò ad offerirgli le chiavi. Trovavasi
tuttavia nella corte pontificia Galvano Lancia, zio materno di esso
Manfredi, uomo di gran destrezza e prudenza, che facea vista d'essere
forte in collera contra del nipote per la sua ribellione. Ma tutto ad un
tempo egli si ritirò da Napoli, e passò ad Acerenza con riceverne il
possesso a nome di Manfredi: il che fatto, andò a trovare il nipote a
Venosa. L'arrivo suo riempiè d'inesplicabil contento Manfredi, che
troppo abbisognava del consiglio e braccio di un sì fidato consigliere.
Quantunque la città di Rapolla fosse feudo dianzi conceduto ad esso
Galvano, pure dimorava ostinata in favor della Chiesa. Andò colà Galvano
coll'armata del principe, adoperò in vano le chiamate; colla forza in
fine la sottomise, e l'imprudente resistenza di quei cittadini costò la
vita a molti, e la desolazione della loro città. Melfi, Trani, Bari ed
altri luoghi non vollero rimaner esposti a somigliante pericolo, e si
diedero a Manfredi: con che, a riserva delle città della provincia
d'Otranto, quasi tutta la Puglia cominciò ad ubbidire ai suoi cenni. Non
sapeva digerire il nuovo papa _Alessandro IV_ colla corte pontificia che
Manfredi niuno ambasciatiore peranche avesse inviato a prestargli ameno
l'ubbidienza dovuta a lui come vicario di Cristo. Se gli fece insinuare
da più persone che inviasse con isperanza di riportarne dei vantaggi; ed
egli infine vi spedì due suoi segretarii ben istruiti con sufficiente
mandato di trattar di concordia. Iti essi a Napoli, ne cominciarono di
fatto il trattato. In questo mentre Manfredi collo esercito andò a
mettersi in possesso della Guardia de' Lombardi, come luogo spettante al
suo contado d'Andria. S'ebbe non poco a male la corte pontificia che,
trattandosi di pace, egli seguitasse le ostilità, temendo ch'egli non
venisse alla volta di Napoli; laonde egli per compiacerla se ne ritirò,
e prese il viaggio verso d'Otranto, per l'avviso giuntogli che Manfredi
Lancia suo parente era stato sconfitto dal popolo di Brindisi, il quale
avea anche presa e distrutta la città di Nardò. Intanto il papa dichiarò
suo legato in Puglia _Ottaviano_ degli Ubaldini cardinale di Santa Maria
in Via Lata, con ordine di ammassare un possente esercito contra di
Manfredi. Ora dunque, e non prima, come con errore scrisse Saba
Malaspina[3368], questo cardinale cominciò a presiedere all'armi del
pontefice. Da ciò presero motivo i ministri di Manfredi di rompere il
trattato di pace, e se ne tornarono al loro padrone. Passato Manfredi
alla volta di Brindisi, saccheggiò quel paese; assediò, ma indarno,
quella città; venne a' suoi comandamenti Lecce. Pose anche l'assedio
alla città d'Oria, che seppe vigorosamente difendersi. Stando egli
quivi, ricevete la buona nuova che Pietro Ruffo Calabrese, conte di
Catanzaro, che fin qui aveva esercitato in Sicilia l'uffizio di
vicebalio e governatore di quell'isola, uomo palese nemico suo, e che
teneva gran filo colla corte del papa, cacciato via dai Messinesi, s'era
ritirato in Calabria ai suoi Stati. Gli ordini spediti colà a questo
avviso da Manfredi, con un corpo di combattenti, e l'odiosità conceputa
anche da Calabresi contra di esso Pietro Ruffo, cagion furono che que'
popoli si sollevarono contra di lui, di modo che divenuto ramingo fu
infine forzato a cercare rifugio nella corte pontificia.
In quest'anno la città di Trento si levò dall'ubbidienza di _Eccelino_
da Romano[3369], dove quel popolo doveva aver fatta anch'esso pruova di
quella crudeltà che egli seguitava ad esercitare in Padova, e nelle
altre città a lui sottoposte. Spedì egli a quella volta un gagliardo
esercito, a cui solamente riuscì di dare un terribil guasto a molte
castella e ville di quel distretto. _Oberto marchese_ Pelavicino, già
divenuto signor di Cremona e Piacenza[3370], di volontà de' Piacentini
distrusse anch'egli nell'anno presente una mano di castella di quel
territorio, che probabilmente appartenevano ai nobili fuorusciti della
medesima città. Abbiamo dagli Annali d'Asti[3371], che in questi tempi
_Tommaso conte_ di Savoia cominciò la guerra contra degli Astigiani, con
levar loro il borgo di Chieri. Ed essendo Guiscardo da Pietrasanta
Milanese podestà di Lucca, fece fabbricar due borghi nella Versilia
sottoposta a Lucca[3372]. All'uno pose il nome di _Campo Maggiore_,
all'altro di _Pietra Santa_ dal suo cognome. Del che fo io menzione,
acciocchè si conosca la falsità del famoso decreto attribuito a
_Desiderio_ re de' Longobardi, scolpito in marmo nella città di Viterbo,
lodato dal Sigonio, stampato dal Grutero fra l'altre iscrizioni, dove è
parlato di Pietrasanta, di cui esso re vien fatto autore. Di tale
impostura ho io ragionato altrove[3373]. In Giberto da Correggio, detto
della Gente, podestà di Parma, era stato fatto compromesso[3374] dai
Modenesi e Bolognesi per le differenze loro intorno alla picciola
provincia del Frignano, in buona parte occupata dalla potenza d'essi
Bolognesi al popolo di Modena. Chiara cosa era, secondo la giustizia,
che se ne dovea fare la restituzione. Abborrivano i Bolognesi la
pronunzia del laudo, figurandosi bene qual esser dovesse, e la tirarono
sempre a lungo; ma infine Giberto lo proferì con obbligare il popolo di
Bologna a dimettere a' Modenesi l'usurpato possesso di quella contrada.
Ma perchè non sanno mai i potenti, che in qualche maniera sieno entrati
in possesso degli Stati dei meno potenti, persuadersi di avere il torto,
e che per loro sia fatta la legge di Dio che obbliga a restituire; i
Bolognesi lasciarono cantare il giudice, e seguitarono a ritener quel
paese finchè poterono. Mentre questi piccioli affari si faceano in
Lombardia, non perdeva oncia di tempo _Manfredi_ per migliorare quei del
_re Corradino_ suo nipote[3375], o piuttosto i suoi proprii, in Puglia e
Calabria. Eransi i Messinesi, dappoichè si furono sbrigati da Pietro
Ruffo, invogliati di reggersi a repubblica, e già col pensiero si
fabbricavano un largo dominio tanto in Sicilia che in Calabria alle
spese dei vicini. A questo effetto con potente armamento di gente e di
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