Annali d'Italia, vol. 4 - 56

libero il mare, nè mancavano buone fortificazioni alla lor terra, si
accinsero con vigore alla difesa. Fece Federigo fabbricar varie macchine
di guerra, e succederono varii conflitti con vicendevoli perdite, usale
in simili contrasti.
Intanto dacchè fu partito l'imperadore dalla Lombardia, Arrigo conte di
Des, lasciato governatore in Pavia, perchè verisimilmente subodorò i
segreti maneggi delle città lombarde, nel mese di marzo dimandò e volle
cento ostaggi del popolo milanese, cinquanta de' quattro borghi, e
altrettanti de' forensi. Da lì a qualche tempo crescendo i sospetti, ne
volle altri dugento, che tutti mise nelle carceri di Pavia, e fece anche
istanza di danari. Allora l'infelice popolo milanese giunto ai termini
della disperazione, al vedersi si maltrattato ed oppresso, diede ascolto
a chi proponeva di unirsi in lega con altre città, per iscuotere
l'insoffribil giogo tedesco. Fecesi dunque un congresso, a cui
intervennero i Cremonesi, Bergamaschi, Mantovani, Bresciani e Ferraresi;
e senza dubbio vi si contò ancora qualche inviato della lega della marca
di Verona. Quivi, rammentati gli aggravii e le crudeltà che tuttodì
pativano per l'insaziabilità e indiscretezza de' ministri cesarei,
determinarono di voler piuttosto morire una volta con onore, se
occorresse, che di viver con tanta lor vergogna e miseria sotto chi si
dimenticava d'essere lor principe, e principe cristiano. Una lega dunque
fu stabilita fra loro, con obbligarsi, sotto forte giuramento, di
difendersi l'un popolo l'altro, se l'imperadore o i suoi uffiziali
volessero da lì innanzi recar loro ingiuria o danno senza ragione,
_salva tamen imperatoris fidelitate_, clausola nondimeno che nulla dovea
significare secondo i bisogni. Fu specialmente convenuto il giorno
d'introdurre i dispersi Milanesi nell'abbattuta e abbandonata loro
città, e di star ivi finchè quel popolo si fosse messo in istato di
potervi sussistere da sè solo. Erano stati finora i Cremonesi de'
maggiori nemici che avesse Milano, e de' più fedeli che potesse vantar
Federigo. È da credere che si movessero a mutar massima dal vedere, e
fors'anche dal provar eglino il duro trattamento e l'alterigia de'
ministri imperiali sulle città lombarde, e temere col tempo di una
somigliante fortuna. Sicardo, che pochi anni dappoi fu vescovo di
Cremona, e scrisse una Cronica da me in buona parte data alla
luce[2147], si lagna non poco di questa risoluzion del suo popolo,
perchè a' suoi dì i Milanesi divenuti potenti, e dimentichi de'
benefizii, angustiavano forte la città di Cremona: quasichè in
quest'anno essa città avesse fabbricato un martello che dovea poi
schiacciare il capo a lei. Ma anche i saggi provveggono al bisogno
d'oggi, come possono il meglio, rimettendo poi alla provvidenza di Dio
il resto, giacchè niuno vi è che arrivi con sicurezza a leggere nel
libro dell'avvenire.
Erano i Milanesi in una somma costernazione, perchè veniva minacciata la
distruzione de' loro borghi, e i Pavesi ne lasciavano correre la voce;
laonde per quattro settimane stettero come in agonia tra i pianti e le
grida; e chi a Como, e chi a Novara, a Pavia, a Lodi trasportava i suoi
pochi mobili, perchè di dì in dì aspettavano l'ultimo eccidio. Quando
nel felicissimo dì 27 d'aprile comparvero le milizie bresciane,
cremonesi, bergamasche, mantovane e veronesi, che introdussero quel
popolo nella desolata città, con immenso gaudio di tutti[2148]. Che
menassero tosto le mani per alzar terra, e valersi delle reliquie
dell'antico muro, e serrarsi in casa, ben giusto è il crederlo.
Riportata questa nuova all'imperador Federigo, benchè altamente se ne
cruciasse il suo cuore, pure mostrò di non curarsene punto. Ed allorchè
i collegati videro la città ridotta in istato di competente difesa, si
ritirarono per attendere a guadagnar Lodi. Sussistendo questa città sì
attaccata al servigio dell'imperadore, niuno di quei popoli si vedeva
sicuro. Però trattarono di tirarla nella lega: e perchè i Lodigiani a
niun patto volevano staccarsi dal servigio imperiale dopo i tanti
beneficii ricevuti da Federigo, si venne alla forza. Fu assediata quella
città dai Milanesi e dagli altri alleati nel dì 17 di maggio: seguirono
varii combattimenti; fu dato il guasto al paese, e adoperate tante
minacce, che finalmente s'indusse quel popolo, per non poter di meno, ad
entrar nella lega, _salva imperatoris fidelitate_. Passarono i collegati
al castello di Trezzo, fortezza di gran polso, perchè cinta di un muro e
di una torre che non avea pari in Lombardia. Quivi era riposto un gran
tesoro dell'imperadore, come in luogo di somma sicurezza. Tanto
nulladimeno lo strinsero e batterono colle macchine di guerra, che il
presidio tedesco, a riserva del governatore, fu astretto alla resa,
salva la lor vita e libertà. Messo a sacco quel castello, fu poi
consegnato alle fiamme ed interamente distrutto. Tali notizie le abbiamo
da Acerbo Morena, autore lodigiano e contemporaneo; il perchè o non
sussiste ciò che scrisse Radevico all'anno 1159 della distruzion di quel
castello oppure convien immaginare che fosse rifatto dipoi. Portato
questo spiacevole avviso all'imperadore, ne provò allora un immenso
dispiacere; ma impegnato nella guerra contra d'Ancona e di Roma, altro
per allora non potè fare che legarsela al dito.
Avvenne in questo mentre che il popolo romano concepì, o, per dir
meglio, rinnovò l'odio antico contra quei di Tuscolo e di Albano, perchè
li vedea inclinati o aderenti ai Tedeschi, e renitenti a pagar gli
eccessivi tributi loro imposti[2149]. Sul fine dunque di maggio essi
Romani con tutto il loro sforzo, ancorchè si opponesse a tal risoluzione
il prudentissimo papa Alessandro III, andarono a dare il guasto a tutto
il territorio tuscolano, con tagliar le biade, gli alberi e le viti:
dopo di che assediarono quella città. Rainone padrone di Tuscolo, non
avendo forze da poter resistere, per necessità ricorse all'aiuto
dell'imperadore, che assediava Ancona. Ordinò egli tosto a Rinaldo
eletto arcivescovo di Colonia, esistente in que' contorni, che con
alquante schiere d'armati s'affrettasse al soccorso di Tuscolo. Così
fece egli. Ma, se vogliam credere a Ottone da San Biagio[2150], restò
Rinaldo rinserrato ed assediato dai Romani in quella città. Ne fu bensì
avvisato Federigo, e perchè parve ch'egli non se ne mettesse gran
pensiero, Cristiano eletto arcivescovo di Magonza, con Roberto conte di
Bassavilla e con altri baroni, prese l'assunto di marciare in aiuto di
lui con poco più di mille cavalieri tedeschi e borgognoni, ma i più
bravi dell'armata[2151]. Allora i Romani si misero in punto di dar
battaglia, confidando nella superiorità delle forze, giacchè si tiene
che nel campo loro si contassero tra cavalieri e fanti ben tre mila
persone armate. Romoaldo Salernitano scrive[2152] che i Romani, sedotti
dalla lor prosunzione e superbia, vollero venire alle mani, ma senza
ordine e cautela alcuna. Si azzuffarono dunque nel dì 30 di maggio coi
nemici. Sulle prime poco mancò che i Tedeschi, sopraffatti dal troppo
numero degli avversarii, non piegassero; ma uscito di Tuscolo
l'arcivescovo Rinaldo coi suoi, e dando alle spalle ai Romani, così
vigorosamente li caricò, che la lor cavalleria prese la fuga, lasciando
alla discrezion de' Tedeschi la fanteria. Non erano i Romani d'allora
come gli antichi loro antenati; però da lì innanzi non fu più battaglia,
ma solamente una fuga e un macello di que' miseri. Ingrandiscono qui
alcuni a dismisura la perdita de' Romani, facendola Ottone da San Biagio
ascendere a quindici mila tra morti e prigioni. Lo scrittor della vita
di papa Alessandro apre più la bocca, con dire che appena si salvò la
terza parte di sì copiosa armata, e che dalla battaglia d'Annibale a
Canne in qua non era più succeduta strage sì grande del popolo romano.
Sicardo copiò anch'egli questo bell'epifonema. E l'autore della Cronica
reicherspergense arrivò a dire che di quaranta mila Romani _paucissimi
evaserunt, qui non occisi, aut captivati fuerint_. Più ancora ne disse
Gotifredo monaco nei suoi Annali. Giovanni da Ceccano nella sua cronica
di Fossanuova ne fa morti sei mila, e molte altre migliaia di rimasti
prigioni. Ma perchè suol più spesso avvenire che la fama e la
millanteria de' vincitori faccia in casi tali di troppe frange al vero,
meglio sarà l'attenersi qui alla relazione di Acerbo Morena, autor di
questi tempi, che dice d'averlo inteso da Romani disappassionati; cioè
esservi restati morti più di due mila d'essi Romani, e più di tre mila
fatti prigioni, che legati furono condotti alle carceri di Viterbo.
L'Anonimo Casinense scrive di mille e cinquecento uccisi, e di mille e
settecento prigioni. Meno ancora dice il continuatore degli Annali
genovesi di Caffaro.
Non potè contener le lagrime all'avviso di sì funesto successo il buon
papa Alessandro. Tuttavia senza avvilirsi attese a premunir la città di
Roma, e a procurar degli aiuti dal di fuori. Mosse la regina di Sicilia
e il figliuolo _Guglielmo II_ a spedir le loro truppe, che giunte nella
campagna di Roma, si diedero ad assediare un forte castello presediato
da' Tedeschi. Secondo Acerbo Morena, pare che il giovinetto re venisse
in persona a tale impresa; ma è cosa non sì facile da credere. Ora
l'avviso della vittoria riportata dalle sue genti sotto Tuscolo, ma più
questa mossa delle armi siciliane, furono i motivi che indussero
Federigo a dismettere l'assedio d'Ancona a fine di trasferirsi verso
Roma. Per mantener nondimeno il decoro, ed acciocchè non paresse che la
ritirata venisse da paura, ammise dopo quasi tre settimane d'assedio ad
un trattato d'accordo gli Anconitani, i quali si obbligarono di pagargli
una gran somma di danaro, e per sicurezza del pagamento gli diedero
quindici ostaggi. S'ingannò Ottone da San Biagio con altri, allorchè
scrisse che Ancona si rendè all'imperadore. L'impazienza di Federigo era
grande, nè volendo aspettare i lenti passi della fanteria, presa seco la
cavalleria e l'Augusta sua moglie, a gran giornate marciò verso la
Puglia. Alla nuova che si accostava l'imperadore, e sulla credenza
ancora che con tutta l'armata egli venisse, si ritirarono ben
prestamente dall'assedio del suddetto castello le soldatesche del re di
Sicilia. Con tal fretta marciò Federigo, che raggiunse i fuggitivi al
passo di un fiume, dove molti ne fece prigioni. Assediò e vinse un
castello tolto dal re Guglielmo a Roberto conte di Bassavilla, con
restituirlo poi ad esso conte. Arrivò sino al Tronto, mettendo a sacco e
fuoco tutte quelle contrade. Sua intenzione pareva di passar più oltre;
ma sì vigorose furono le istanze dell'antipapa Pasquale dimorante in
Viterbo, per tirarlo a Roma, sì in virtù delle promesse a lui fatte,
come anche per la speranza di cacciarne papa Alessandro, che Federigo
con tutto l'esercito si mosse a quella volta, e nel dì 24 di luglio
giunse a mettere il campo nel monte del Gaudio, appellato monte Malo
dallo scrittor della vita di papa Alessandro, che racconta il di lui
arrivo colà _XIV kalendas augusti_. Nulla più sospirava egli che
d'impadronirsi della basilica vaticana; nè tardò a superar la cortina e
il portico di san Pietro, con ispogliare e dar alle fiamme tutte quelle
case. Ma nella vaticana non potè egli entrare, perchè fortificata e ben
difesa dalla masnada di san Pietro, cioè dai soldati raccolti dai beni
patrimoniali della Chiesa romana. Diedero i Tedeschi varie battaglie al
sacro luogo per una continua settimana, sempre inutilmente, finchè
riuscì loro di potere attaccar fuoco alla chiesa di santa Maria del
Lavoriere, ossia della torre. Essendo questa contigua a san Pietro, poco
mancò che le fiamme non penetrassero anche nella basilica. Mise
nondimeno quell'incendio tal paura ne' difensori, massimamente veggendo
essi di non potere sperar soccorso alcuno dalla città, che dimandarono
di capitolare. Fu loro accordato di potersene andar salvi colle persone;
e così san Pietro venne in potere di Federigo. Però nella seguente
domenica arrivò l'antipapa Pasquale a cantar messa in quella chiesa,
nella quale occasione coronò l'imperadore con un cerchio d'oro, insegna
del patriziato. Fin dall'anno 1155, siccome abbiam veduto, aveva egli
ricevuta la corona imperiale dalle mani di papa Adriano IV. Tuttavia
volle (Acerbo Morena, che v'era presente, ce ne assicura) il piacere di
riceverla di nuovo da quelle del suo idolo; funzione fatta nel martedì
seguente, festa di san Pietro in Vincola. Fu coronata anche l'Augusta
Beatrice; anzi che a lei sola fosse imposta l'imperial corona lo scrive
l'autor della Cronica Reicherspergense[2153], parendogli molto strano
che il già coronato imperadore si facesse coronar di nuovo. Altrettanto
ha Gotifredo monaco di san Pantaleone ne' suoi Annali[2154]. Ciò fatto,
si studiò l'imperador Federigo di guadagnare i grandi e il popolo di
Roma[2155]: e siccome accortissimo principe propose, che se dava lor
l'animo di fare che il pontefice Alessandro rinunziasse al papato,
astrignerebbe anch'egli il suo papa Pasquale ad imitarlo: con che si
verrebbe poi all'elezione di un terzo, ed egli darebbe la pace a tutti,
senza più intricarsi nell'elezion de' pontefici. Esibiva eziandio di
rilasciar tutti i prigioni. Parve questo un bel partito ai più de'
Romani, i quali giunsero fino a dire che il papa era tenuto ad
accomodarvisi, e a far anche di più per riscattare e salvare tante sue
pecorelle; e il cominciarono a tempestar su questo. Ma Alessandro,
dacchè si accorse dei segreti maneggi del popolo co' suoi nemici, dal
palazzo lateranense s'era ritirato nelle forti case de' Frangipani, e
poscia presso il colosseo, con ispedir quivi le cause spettanti alla
Chiesa e allo Stato. Intanto il giovane re Guglielmo, giuntagli la
notizia di quanto passava in Roma, mosso dal suo zelo per la salute del
papa, spedì due ben corredate galee con gente e danaro assai, ed ordine
di condurre in salvo il pontefice. Vennero su pel Tevere le due galee, e
fatto sapere l'arrivo loro ad Ottone Frangipane, furono introdotti
all'udienza del papa i sopracomiti. Sommamente obbligato si protestò
Alessandro III all'amorevol pensiero del re siciliano; prese il denaro
inviato; e credendo per allora non necessaria la sua partenza, rimandò
le galee indietro con due cardinali, per trattar dei presenti affari
colla corte di Sicilia. Poscia distribuì buona parte di quel danaro ai
Frangipani e ai figliuoli di Pier Leone, per maggiormente animarli a
star seco uniti; e il resto l'inviò ai custodi delle porte. Ma in fine
si lasciarono piegare gli incostanti Romani dalle lusinghevoli
proposizioni di Federigo, e volendo pur indurre il papa ad acconsentire,
questi, accompagnato da alcuni de' cardinali, e travestito, segretamente
uscì di Roma, e passando per Terracina, arrivò a Gaeta, dove ripigliò
gli abiti pontificali. Di là poi si trasferì a Benevento, dove fu con
grande onore accolto da quel popolo.
Eransi interamente dati i Pisani ai servigi dell'imperador
Federigo[2156], verisimilmente per que' gran doni e vantaggi che, a
guisa dei già conceduti a' Genovesi, dovette compartire anche a
quest'altro popolo con un pezzo di pergamena, per l'ansietà di portare
in breve la guerra, non solo contra de' Romani, ma anche in Puglia,
Calabria e Sicilia; al qual fine abbisognava della loro flotta. Aveano
essi Pisani giurata ubbidienza all'antipapa Pasquale. E perchè Villano
loro arcivescovo non volle acconsentire a sì fatta abbominazion del
santuario, fu costretto a fuggirsene e a ritirarsi nell'isola della
Gorgona; e in luogo suo fu intruso in quella chiesa Benincasa canonico
sul fine di marzo. Aveano anche prestato aiuto a Rinaldo arcivescovo di
Colonia, per prendere Civitavecchia, prima ch'egli passasse a Tuscolo,
ossia Tuscolano. Ora Federigo, benchè trattasse di ridurre i Romani a'
suoi voleri colle buone, non lasciò per questo di prepararsi per
adoperar la forza, se il bisogno lo portava. A questo fine richiese
d'aiuto i Pisani, che gli spedirono dodici galee ben armate con due de'
loro consoli; e queste dipoi entrate pel Tevere, e salite sino al ponte,
infestavano non poco le ville dei Romani, ed impedivano ogni soccorso
per quel fiume. Il popolo romano adunque per la maggior parte, tanto per
ischivar gli ulteriori danni e pericoli, quanto perchè Federigo confermò
il senato romano, ed accordò e quel popolo di molte esenzioni per tutti
i suoi Stati, condiscese a quanto egli bramava, con promettere, fra
l'altre cose, che _justitias suas_ (cioè dell'imperadore) _tam intra
urbem, quam extra urbem juvabunt eum retinere_; e che terrebbono per
papa l'antipapa Pasquale, se pure s'ha in ciò da credere al continuator
del Morena; perciocchè da una lettera di Giovanni Sarisberiense fra
quelle di san Tommaso Cantuariense si raccoglie che i Romani stettero
saldi nell'ubbidienza di papa Alessandro III, nè di Pasquale si parla
nel giuramento dei Romani rapportato nella sua Cronica da Gotifredo
monaco di san Pantaleone presso il Freero. I Frangipani nondimeno e la
casa di Pier Leone con altri nobili non consentirono a questo accordo.
Mandò poscia Federigo a ricevere il giuramento di fedeltà da' Romani
varii suoi deputati, fra' quali uno fu Acerbo Morena, continuatore della
Storia di Ottone suo padre, uomo dabbene ed incorrotto, e diverso da
tanti altri dell'armata imperiale, che viveano di sole rapine. Intanto
venne Dio a visitare i peccati e l'alterigia dell'imperadore Federigo,
principe che nulla meno meditava che di mettere in catene l'Italia
tutta, e per politica andava fomentando il deplorabile scisma della
Chiesa di Dio. Una improvvisa epidemia cagionata dall'aria di Roma,
micidiale anche allora in tempo di state, se pur non fu una vera
pestilenza, assalì intanto l'esercito di Federigo, e cominciò a mieterne
le centinaia ogni giorno. La mattina erano sani, non arrivava la sera
che si trovavano morti, di modo che si penava a seppellir tanta
gente[2157]. Nè già sulla sola plebe de' soldati si stese questo
flagello, comunemente attribuito alla visibil mano di Dio, ma ancora ai
principi e signori più grandi d'essa armata. Vi perirono _Rinaldo_
eletto arcivescovo di Colonia, _Federigo duca_ di Suevia, ossia di
Rotemburgo, figliuolo del già re Corrado e cugino germano
dell'imperadore, i vescovi di Liegi, di Spira, di Ratisbona, di Verden e
d'altre città, con assaissimi altri principi e nobili, fra' quali
specialmente è da notare il _duca Guelfo_ iuniore, la cui morte fu
compianta anche dagl'Italiani, perchè la di lui perdita fu cagione che
si seccasse in lui questa linea di Estensi-guelfi, e che il duca Guelfo
suo padre rinunziasse dipoi all'imperadore tutti i suoi Stati in Italia;
del che ho assai favellato altrove[2158]. Per questa fiera mortalità di
gente anche il suddetto Acerbo Morena istorico, nel tornare a casa
portando seco il malore, nel dì 19 d'ottobre mancò di vita nei borghi di
Siena, come s'ha dal suo Continuatore.
Atterrito da così tragico avvenimento l'imperador Federigo,
frettolosamente decampò col resto dell'armata, e per la Toscana venuto a
Pisa e a Lucca, continuò il viaggio alla volta di Lombardia. Ma nel
voler valicare l'Apennino, trovò il popolo di Pontremoli ed altri
Lombardi che gli vietarono per quelle montagne il passo[2159]. Se non
era _Obizzo marchese_ Malaspina che l'affidò per le sue terre della
Lunigiana, e gli diede il passaggio, si sarebbe trovato in pericolose
angustie. Gran parte nondimeno del suo equipaggio si perdè per istrada.
Verso la metà di settembre, e non già di dicembre, come per error de'
copisti si legge presso Sire Raul, arrivò egli a Pavia, con avere
perduto e ne' contorni di Roma, e nel viaggio per le malattie suddette,
oltre a gran copia di soldati, più di due mila nobili, tra vescovi,
duchi, marchesi, conti, vassalli e scudieri. Quivi nel dì 21 d'esso mese
di quest'anno, e non già del 1168, come ha il testo del continuatore del
Morena, mise al bando dell'imperio tutte le città congiurate di
Lombardia, riserbando solamente Lodi e Cremona, senza che s'intenda il
perchè di quest'ultima, e gittò in aria il guanto in segno di sfida. In
vece de' _Cremonesi_, sospetto io che il continuatore di Acerbo Morena
eccettuasse i _Comaschi_, perchè questi continuarono a tenere il partito
di Federigo. Il qual poscia più fiero che mai coi Pavesi, Novaresi,
Vercellesi, e coi marchesi _Guglielmo_ di Monferrato ed _Obbizzo_
Malaspina, e col conte di Biandrate cavalcò contro le terre de'
Milanesi, con devastar Rosate, Abbiategrasso, Mazzenta, Corbetta ed
altri luoghi. Accorsero allora a Milano i Lodigiani, i Bergamaschi e i
Bresciani che erano in Lodi, e i Parmigiani e Cremonesi che si trovavano
in guardia di Piacenza. Tornossene per questa mossa Federigo a Pavia; ma
senza prendere fiato si voltò contra de' Piacentini, alle terre de'
quali fece quanto male potè. Ingrossatisi per questo a Piacenza i
collegati, erano per affrontarsi con lui, s'egli non si fosse
prestamente ritirato a Pavia. Abbiamo nondimeno da una lettera di
Giovanni Sarisberiense che seguì fra loro qualche baruffa colla peggio
di Federigo, il quale_ in fugam versus est_, come si può vedere fra le
lettere di san Tommaso Cantuariense. Nè già sussiste, come scrive il
Sigonio, che Federigo andasse sotto Bergamo, e ne bruciasse i borghi.
Tante forze egli non aveva. Venuto poscia il verno, si quetò il rumore
delle armi in Lombardia.
Durò anche nel presente anno la rabbiosa guerra fra i Pisani e i
Genovesi[2160], perseguitandosi i loro legni per mare a tutto potere.
Furono fatti progetti di pace, e rimesse le differenze in dieci per
parte; ma senza che animi tanto alterati potessero punto accordarsi.
Intanto il regno di Sicilia era agitato dalle gare di que' baroni e da
varie fazioni[2161], che tutte cercavano di superiorizzare durante la
minorità del re _Guglielmo II_. Le città di Messina e di Palermo
tumultuarono, e contribuì ad accendere quel fuoco _Giovanni cardinale_
Napoletano, uomo sol fatto per ismugnere danaro; e per gli suoi vizii
biasimato dal Baronio. Queste dissensioni minutamente descritte si
leggono nelle storie di Ugone Falcando e di Romoaldo Salernitano. Mi
dispenso io dal riferirle per amore della brevità. Si trasferì in
quest'anno a Venezia in abito da pellegrino, e di là venne a Milano il
novello arcivescovo di quella città _Galdino_[2162] nel dì 5 di
settembre, con infinita consolazion del suo popolo. Portò egli seco il
titolo e l'autorità di legato apostolico: il che servì a maggiormente
corroborare ed accrescere la lega delle città lombarde contra di
Federigo. Infatti ho io pubblicato i patti d'essa lega, stabiliti nel dì
primo di dicembre[2163], obbligandosi cadauno di difendere _civitatem
Venetiarum, Veronam et castrum et suburbia, Vicentiam, Paduam,
Trivisium, Ferrariam, Brixiam, Bergamum, Cremonam, Mediolanum, Laudum,
Placentiam, Parmam, Mantuam, Mutinam, Bononiam_, ec. con varii patti, il
più considerabile de' quali è l'obbligarsi alla difesa ed offesa _contra
omnem hominem, quicumque nobiscum facere voluerit guerram aut malum,
contra quod velit nos plus facere, quam fecimus a tempore Henrici regis
usque ad introitum imperatoris Friderici_. Sotto nome di Arrigo porto io
opinione che si debba intendere Arrigo quarto fra i re, terzo fra
gl'imperadori, perchè sotto di lui vo credendo incominciata la libertà
di molte città di Lombardia, che andò poi crescendo finchè arrivò alla
sua pienezza; e questa abbiamo dipoi veduta come annichilata dal terrore
e dalla fortuna dell'imperadore Federigo.
NOTE:
[2145] Cardin. de Aragon., in Vita Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer.
Ital.
[2146] Acerb. Morena, Hist. Laud., tom. 6 Rer. Italic. Sire Raul, tom. 6
Rer. Ital.
[2147] Sicard., Chron., tom. 7 Rer. Ital.
[2148] Acta S. Galdini, apud Bolland. ad diem 18 april.
[2149] Cardin. de Aragon., in Vit. Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer.
Ital.
[2150] Otto de S. Blasio in Chron.
[2151] Acerbus Morena, Hist. Laud., tom. 6 Rer. Italic.
[2152] Romuald. Salernit., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.
[2153] Chron. Reicherspergens.
[2154] Godefr. Monach., in Annal.
[2155] Cardin. de Aragon., in Vita Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer.
Italic.
[2156] Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital.
[2157] Continuator Acerbi Morenae, tom. 6 Rer. Ital. Otto de S. Blasio.
Godefrid. Monachus apud Freherum.
[2158] Antichità Estensi, P. I, cap. 31.
[2159] Cardin. de Aragon., in Vita Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer.
Ital. Continuat. Acerbi Morenae.
[2160] Caffari, Annal. Genuens., lib. 2, tom. 6 Rer. Italic.
[2161] Romuald. Salern., in Chron., tom. 7 Rer. Ital. Hugo Falcandus,
Histor. Sicul.
[2162] Continuator Acerbi Morenae, tom. 6 Rer. Ital. Act. S. Galdini
apud Bollandist. ad diem 18 april.
[2163] Antiquit. Ital., Dissert. XLVIII.


Anno di CRISTO MCLXVIII. Indizione I.
ALESSANDRO III papa 10.
FEDERIGO I re 17, imper. 14.

Abbiamo dal continuatore di Acerbo Morena che l'Augusto _Federigo_ quasi
per tutto il verno dell'anno presente andò girando, con dimorare ora
nelle parti di Pavia, ora in quelle di Novara, ora di Vercelli, del
Monferrato e d'Asti. Ma veggendo sempre più declinare i suoi affari, e
trovandosi come chiuso in Pavia, e sempre in sospetto che i pochi
rimasti a lui fedeli il tradissero, un dì di marzo all'improvviso
segretamente si partì, _et in Alemaniam per terram comitis Uberti de
Savogia, filii quondam comitis Amadei, qui et comes dicitur de Morienna,
iter arripuit_: così si legge negli antichi manoscritti. Questo
_Uberto_, chiamato dal Guichenon _Umberto_, è uno de' progenitori della
real casa di Savoia; e quantunque ritenesse il nome di _conte di
Morienna_, pure in varii strumenti ha il titolo ancora di _marchese_; e
di qui parimente si scorge ch'egli era principe di molta potenza, e che
per andare in Borgogna si passava per li di lui Stati. Fra le lettere di
san Tommaso arcivescovo di Cantuaria[2164], una se ne legge di Giovanni
Sarisberiense, riferita anche dal cardinal Baronio[2165], dalla quale si
ricavano varie particolarità. Cioè che Federigo non vedendosi sicuro in
Pavia, per aver fatto cavar gli occhi ad un nobile di quella città, e
sapendo che già i Lombardi mettevano insieme un'armata di venti mila
soldati, lasciati in Biandrate trenta degli ostaggi lombardi, passò nel
Monferrato, dove, per la fidanza che aveva in _Guglielmo marchese_ di
quella contrada, per le di lui castella distribuì gli altri ostaggi.
Poscia andò qua e là sempre di sospetto, non osando di pernottare più di
due o tre giorni nel medesimo luogo. Frattanto il marchese trattò _cum
cognato suo comite mauriensi_, (leggo _mauriennensi_), _ut imperatorem
permitteret egredi, promittens ei non modo restitutionem ablatorum, sed
montes aureos, et cum honore et gloria imperii gratiam sempiternam_.
Poscia raccolti gli ostaggi, e accompagnato da soli trenta uomini a
cavallo, andò sino a Santo Ambrosio fra Torino e Susa; e la mattina per
tempo rimessosi in viaggio, quando fu presso a Susa barbaramente fece
impiccare uno degli ostaggi, nobile bresciano, incolpandolo d'aver
maneggiata l'unione dell'esercito che il cacciava dall'Italia. Sire
Raul[2166] scrive che Federigo _nono die martii suspendit Zilium de
Prando obsidem de Brixia juxta Sauricam_ (forse era scritto _Secusiam_)
_dolore et furore repletus, quod Mediolanenses, Brixienses, Laudenses,
Novarienses, et Vercellenses obsederant Blandrate, et inde abiit in
Alamanniam_. Aggiugne, che arrivato a Susa cogli altri ostaggi, i
cittadini presero l'armi, e gli tolsero questi ostaggi, mostrando paura
di essere rovinati dai Lombardi, se lasciavano condurre per casa loro
fuori d'Italia quei nobili, massimamente dopo aver egli tolto poco fa di
vita un d'essi, uomo potente e generoso, con tanta crudeltà. Accortosi
Federigo del mal tempo che correva per quelle parti, anzi, se è vero ciò
che ha Ottone da San Biagio[2167], avvertito dal suo albergatore che
que' cittadini meditavano d'ucciderlo, avendo lasciato nel letto suo un
Artmanno da Sibeneich che il rassomigliava, travestitosi da famiglio e
con altri cinque suoi famigli mostrando di andare innanzi a preparar
l'alloggio per un gran signore suo padrone, continuò il viaggio per
istrade alpestri e dirupate, finchè giunse in Borgogna, dove di gravi
minacce fece a que' popoli; e dipoi passò in Germania, con trovar ivi