Annali d'Italia, vol. 4 - 54
acclamato re, con un calcio il fece cadere a terra, in guisa che da lì a
non molto spirò l'ultimo fiato in braccio della stessa infelice sua
madre. Ma Romoaldo Salernitano[2090] ne attribuisce la morte ad una
saetta gittata in quel tumulto, che il percosse presso un occhio con
ferita mortale. Perseguitò dipoi il re Guglielmo i baroni congiurati; e
questi misero sottosopra tutta la Sicilia. Fece cavar gli occhi a Matteo
Bonello; assediò Botera, ed, entratovi, tutta la fece diroccare. Intanto
essendo rientrato in Puglia _Roberto conte_ di Loritello[2091], mise in
rivolta molte di quelle terre e città fino a Taranto. Ma sopravvenuto il
re Guglielmo col suo esercito, ripigliò Taranto e tutto il perduto: il
che si tirò dietro l'allontanamento dal regno d'esso conte Roberto e
d'altri baroni, i quali si rifugiarono presso lo imperador Federigo.
Tutte queste scene ed altre, ch'io tralascio, son diffusamente narrate
da Ugone Falcando. In questo anno i Genovesi[2092] stabilirono i patti
del commercio con _Lupo_, chiamato da essi re di Spagna, ma che, secondo
il Mariana, non fu se non re di Murcia. Altrettanto fecero col re di
Marocco, e spedirono a Gerusalemme per ricuperare i loro diritti nelle
città di Terra Santa.
NOTE:
[2085] Gerhous Reicherspergens., de investigand. Anticar., lib. 1.
[2086] Cardin. de Aragon., in Vita Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer.
Italic.
[2087] Caffari, Annal. Genuens., lib. 1, tom. 6 Rer. Italic.
[2088] Otto Morena, Hist. Laudens., tom. 6 Rer. Italic.
[2089] Hugo Falcandus, Histor.
[2090] Romuald. Salernit., in Chron. tom. 7 Rer. Ital.
[2091] Johannes de Ceccano, Chron. Fossaenovae.
[2092] Caffari, Annal. Genuens., lib. 1, tom. 6 Rer. Italic.
Anno di CRISTO MCLXII. Indizione X.
ALESSANDRO III papa 4.
FEDERIGO I re 11, imperad. 8.
Famosissimo divenne quest'anno, perchè in esso finalmente venne fatto
all'imperador Federigo di vedere a' suoi piedi il popolo di Milano, e di
potere sfogare contra della loro città il suo barbarico sdegno[2093]. Il
guasto dato a tutti i contorni di Milano avea privato di viveri quel
valoroso popolo, nè restava speranza nè maniera di cavarne dai vicini,
perchè tutti all'incontro erano lor nemici e collegati per rovina di
quell'illustre città. La sola città di Piacenza avrebbe potuto o voluto
soccorrere; ma n'era impedita dall'armi di Federigo, acquartierato
apposta a Lodi, che facea battere le strade, e tagliar crudelmente la
mano destra a chiunque era colto portante vettovaglia a Milano. Però si
cominciò stranamente a penuriare in essa città, e alla penuria tenne
dietro una grave discordia tra i cittadini, cioè tra i padri e i
figliuoli, i mariti e le mogli e i fratelli, gridando alcuni che s'aveva
a rendere la città, ed altri sostenendo che no: laonde accadevano
continue risse fra loro[2094]. Si aggiunse che i principali formarono
una segreta congiura di dar fine a tanti guai, in guisa che prevalse il
sentimento accompagnato da minaccie di chi proponeva la resa, e fu preso
il partito d'inviare a trattar di pace. Iti gli ambasciatori a Lodi,
proposero di spianare per onor dell'imperadore in sei luoghi le mura e
le fosse delle città. Federigo col parere de' suoi principi, e de'
Pavesi, Cremonesi, Comaschi ed altri popoli nemici di Milano, stette
fisso in volerli a sua discrezione senza patto alcuno. Durissima parve
tal condizione, ma il timore di peggio indusse i Milanesi ad accomodarsi
al fierissimo rovescio della lor fortuna. Pertanto nel primo giorno di
marzo vennero a Lodi i consoli di Milano, cioè Ottone Visconte, Amizone
da porta Romana, Anselmo da Mandello, Anselmo dall'Orto, con altri; e
colle spade nude in mano, siccome nobili, giurarono di fare quello che
piacesse all'imperadore, e che lo stesso giuramento si presterebbe da
tutto il loro popolo. Nella seguente mattina comparvero trecento soldati
a cavallo milanesi, che rassegnarono a Federigo le lor bandiere, e
insieme le chiavi della città. Nel martedì vennero circa mille fanti da
Milano col carroccio, che giurarono come i precedenti. Volle Federigo
quattrocento ostaggi, e spedì sei Tedeschi e sei Lombardi, fra i quali
fu Acerbo Morena, allora podestà di Lodi, continuatore della storia
cominciata da Ottone suo padre, acciocchè esigessero il giuramento di
totale ubbidienza da tutto il popolo milanese. Andò l'imperadore a Pavia
con tutta la corte, e nel dì 19 d'esso mese di marzo mandò ordine ai
consoli milanesi[2095] che in termine di otto giorni tutti i cittadini
maschi e femmine evacuassero la città con quel che poteano portar seco.
Spettacolo sommamente lagrimevole fu nel dì 25 il vedere lo sfortunato
popolo piangente abbandonar la cara patria co' piccoli lor figliuoli,
cogl'infermi e coi lor fardelli, portando quel poco che poterono, e
lasciando il resto in preda agli stranieri. Alcuni giorni prima, cioè
nel dì 18, se n'era già partito l'_arcivescovo Oberto_ coll'arciprete
Milone, Galdino arcidiacono ed Alchisio cimeliarca, ed ito per trovar
_papa Alessandro_ che tuttavia dimorava in Genova. Chi potè, se ne andò
a Pavia, a Lodi, a Bergamo, a Como, e ad altre città; ma l'infelice
plebe si fermò fuori della città ne' monisteri di san Vincenzo, di san
Celso, di san Dionisio e di san Vittore, sperando pure che non fosse
estinta affatto nel cuore dell'imperadore la clemenza, e ch'egli,
soddisfatto dell'ubbidienza, permetterebbe il ritorno alle lor case. Non
poteva essere più vana una sì fatta lusinga. Comparve nel dì seguente
Federigo accompagnato da tutti i suoi principi e soldati, e da'
Cremonesi, Pavesi, Novaresi, Lodigiani e Cremaschi, e da quei del Seprio
e della Martesana; ed, entrato in Milano, l'abbandonò all'avidità
militare. Nel sacco neppure alcun riguardo s'ebbe alle chiese. Furono
asportati i lor tesori, i sacri arredi e le reliquie. Ed allora dicono,
che trovati i corpi creduti dei tre re magi, e donati a _Rinaldo_
arcicancelliere ed arcivescovo eletto di Colonia, furono portati alla di
lui città, dove di presente la popolar credenza li venera. Scrissero
alcuni che anche i corpi dei santi Gervasio e Protasio furono portati a
Brisacco; ma il Puricelli e il signor Sassi, bibliotecario
dell'Ambrosiana, hanno già convinta di falso una tale opinione. Sire
Raul, autore di questi tempi, scrive seguito solamente nell'anno 1164
questo pio ladroneccio.
Poscia uscì della bocca imperiale il crudele editto pella total
distruzione della città di Milano. Se fosse vero ciò che racconta
Romoaldo arcivescovo in questi tempi di Salerno[2096], Federigo nella
concordia avea promesso _civitatem integram, et cives cum rebus suis
permanere illaesos_; poi mancò alla parola. Ma non s'accorda questa
particolarità con quanto ne scrivono il Morena e Sire Raul, storici più
informati di questi fatti. Furono deputati i Cremonesi ad atterrare il
sestiere di porta Romana, i Lodigiani a quel di porta Renza, i Pavesi a
quel di porta Ticinese, i Novaresi a quel di porta Vercellina, i
Comaschi a quel di porta Comacina, e il popolo del Seprio e della
Martesana a quello di porta Nuova. L'odio e lo spirito della vendetta
animò sì forte questi popoli, che si diedero un'incredibil fretta alla
rovina dell'infelice città. Gran somma di danaro aveano anche sborsato a
Federigo per ottenerne la permissione. Il fuoco attaccato alle case ne
distrusse buona parte; il resto fu diroccato a forza di martelli e
picconi, ed anche in pochi giorni si vide smantellata la maggior parte
delle mura. Pare che Acerbo Morena si contraddica, perchè, dopo avere
scritto, che _usque ad dominicam Olivarum tot de moenibus civitatis
consternaverunt, quod ab initio a nemine credebatur in duobus mensibus
posse dissipari, soggiugne appresso, che remansit tamen fere totus murus
civitatem circumdans (forse manca dissipatus), qui adeo bonis et magnis
lapidibus confectus fuerat, et quasi centum turribus decoratus, quod, ut
existimo, numquam tam bonus fuit visus in Italia_. Certo è da credere
che, se non prima, lo dirupassero almeno dopo la domenica dell'ulivo,
perchè lasciando in piedi un sì forte muro, nulla avrebbono fatto. E
Sire Raul scrive che Federigo _destruxit domos, et turres, et murum
civitatis_. Così ha l'Abbate Urspergense[2097], Elmoldo, Gotifredo
monaco ed altri. Il campanile della metropolitana, mirabile a vedere per
la sua vaghezza ed incredibil altezza, venne per comandamento
dell'imperadore abbassato. Ma rovesciato sopra la chiesa, ne atterrò la
maggior parte. La fama accrebbe poi questa calamità di Milano, essendo
giunti alcuni a scrivere[2098] che Federigo vi fece condurre sopra
l'aratro, e la seminò di sale: tutte fandonie. Per attestato di
Duodechino[2099] _populus expulsus fuit; murus in circuitu dejectus;
aedes, exceptis Sanctorum templis, solo tenus destructae. Reservatis
tantummodo matrice Ecclesia, et quibusdam aliis_, scrive Roberto dal
Monte[2100]. Ordine ancora fu dato che mai più non si potesse
rifabbricare, nè abitar quella nobilissima città, a spianar le cui fosse
concorse quasi tutta la Lombardia. Io qui niuna menzione farò delle
favole della Cronica de' conti di Anghiera, mentovate ancora da Galvano
Fiamma[2101], perchè il confutarle sarebbe tempo mal impiegato. Nella
domenica delle Palme assistè Federigo Augusto ai divini uffizii nella
basilica di santo Ambrosio[2102] fuori della desolata città milanese, e
prese l'ulivo benedetto; e nello stesso giorno s'inviò a Pavia. Celebrò
egli in essa città la santa Pasqua, col concorso della maggior parte dei
vescovi, marchesi, conti ed altri baroni d'Italia. Alla messa e dopo la
messa, ad un lauto convito, a cui s'assisero i suddetti principi, e i
vescovi colla mitra, e i consoli delle città, si fece vedere colla
corona in capo, insieme coll'Augusta Beatrice, giacchè due anni innanzi
avea fatto proponimento di non portar più corona, se prima non
soggiogava il popolo di Milano. Grande fu allora il giubilo e il plauso
del popolo di Pavia per le fortune dell'imperadore; e gli scrittori
tedeschi si sciolgono in sonori elogi del suo gran valore e della sua
costanza, per aver sottomessa una sì riguardevol città. Ma resterebbe da
vedere se gloria vera s'abbia a riputare per un monarca cristiano il
portare l'eccidio ad un'intera insigne città, con distruggere e
seppellir tante belle fabbriche e memorie dell'antichità, che fino a'
tempi di Ausonio quivi si conservavano. Che in pena della ribellione si
dirocchino tutte le mura ed ogni fortificazione, ciò cammina; ma poi
tutto, chi può mai lodarlo, e non attribuirlo piuttosto ad un genio
barbarico? A mio credere, i buoni principi fabbricano le città, e i
cattivi le distruggono. Certo intanto è che la caduta e rovina di Milano
sparse il terrore per tutta l'Italia, ed ognuno tremava al nome di
Federigo Barbarossa. Però non è da stupire se i Bresciani spedirono
nella seconda domenica dopo Pasqua i loro consoli, accompagnati da molta
nobiltà, a Pavia, per sottomettersi ai di lui voleri. Fu accettata la
lor sommessione, con patto di dover demolire tutte le torri e mura della
lor città, di spianar le fosse, di ricevere un podestà dall'imperadore,
di pagar una buona somma di danaro, e di consegnare ad esso Augusto
tutte le rocche e fortezze del loro contado, e di militare con lui,
occorrendo, anche a Roma e in Puglia. Sapea ben Federigo nella buona
ventura mettere i piedi addosso a chiunque gli cadeva sotto le mani.
Vi restavano i soli Piacentini da mettere in dovere. Già si sapeva che
era giurato l'assedio della lor città. Ma conoscendo essi la necessità
di prevenir la tempesta, trattarono di pace, e colla mediazione di
_Corrado conte_ palatino del Reno, fratello dell'imperadore,
l'ottennero. Però i lor consoli colle spade nude si presentarono a
Federigo nel dì 11 di maggio, mentre egli era a San Salvatore fuori di
Pavia, e se gli sottomisero con promessa di pagargli sei mila marche
d'argento, di distruggere le mura e le fosse della lor città, di
ricevere un podestà, di restituir tutte le regalie, e di cedere tutte
quelle castella del lor territorio che volesse l'imperadore; il che era
poco men che perdere tutto l'essere di repubblica. Ciò fatto, mandò
Federigo per podestà de' Milanesi il vescovo di Liegi; a Brescia
Marquardo di Grumbac; a Piacenza Aginolfo, e poscia Arnaldo Barbavara; a
Ferrara il conte Corrado di Ballanuce; a Como maestro Pagano; e così ad
altre città. Per grazia speciale permise ai Cremonesi, Parmigiani,
Lodigiani ed altri popoli fedeli il governarsi co' proprii consoli.
Rapporta il Sigonio[2103] l'investitura data ai Cremonesi, molto
vantaggiosa per loro. Nel mese di giugno passò Federigo alla volta di
Bologna, che era tuttavia restia ai comandamenti di lui. Seguì parimente
accordo con quel popolo, obbligato anch'esso a diroccar le mura, a
guastar le fosse della città, a fare lo sborso di molta pecunia, e a
ricevere pel suo governo il cesareo podestà. Andò poscia ad Imola e
Faenza, e ad altri luoghi. In somma non vi restò città dell'Italia di
qua da Roma che non piegasse il collo sotto i piedi del formidabil
Augusto, a riserva della rocca di Garda, che occupata da Turisendo
veronese, e assediata quasi per un anno dal conte Marquardo e da'
Bergamaschi, Bresciani, Veronesi e Mantovani, lungo tempo si difese, e
finalmente si rendè con onesta capitolazione. Anche i Genovesi, chiamati
da Federigo a Pavia, per attestato di Caffaro[2104], vennero
all'ubbidienza, ed ottennero buoni patti, con ritener tutte le regalie,
perchè s'obbligarono di servire a Federigo nelle spedizioni ch'egli
meditava contro il re di Sicilia. Il privilegio conceduto da esso
imperadore ai Genovesi può leggersi nelle mie Antichità italiane[2105].
Affinchè restasse memoria della sua crudeltà contra de' Milanesi; quel
diploma si vede dato _Papiae apud sanctum Salvatorem in palatio
imperatoris post destructionem Mediolani, et deditionem Brixiae, et
Placentiae, V junii, anno dominicae Incarnationis MCLXII, Indictione X_.
Altri diplomi segnati in questa forma ci restano. Curiosa cosa è il
vedere con che generosità Federigo diede allora in feudo al popolo
genovese _siracusanam civitatem cum pertinentiis suis, et ducentas
quinquaginta caballarias terrae in valle Nothi, ec. et in unaquaque
civitate maritima, quae propitia divinitate a nobis capta fuerit, rugam
unam_ (una rua, una contrada) _eorum negotiatoribus convenientem cum
ecclesia, balneo, fundico, et furno_, con altre liberalità. Ma il
proverbio dice che il fare i conti sulla pelle dell'orso vivo non sempre
riesce.
Nella domenica di passione imbarcatosi di nuovo a Genova papa
_Alessandro III_[2106], di colà passò a Magalona in Francia, e poscia a
Mompellieri, dove mandò il re _Lodovico VII_ a visitarlo e a rendergli
l'onore dovuto. Nel giugno si inviò a Chiaramonte. Alle glorie
dell'Augusto Federigo mancava quella solamente di terminar la lite del
pontificato romano a voglia sua. Mostrando egli in apparenza grande zelo
per l'unione della Chiesa, subito che intese l'arrivo in Francia di papa
Alessandro, scrisse al re Lodovico, proponendo un abboccamento con lui
per dar fine a questo importantissimo affare; e che a San Giovanni di
Laune, oppure a Besanzone si tenesse un concilio, dove si presentassero
i due contendenti, per esser ivi esaminate le ragioni d'ambedue le
parti. Covava nondimeno l'astuto imperadore il pensiero di burlar non
meno l'odiato Alessandro che l'antipapa Ottaviano. _Apud se cogitavit_
(lo abbiamo dalla vita di papa Alessandro), _sicut homo hujus saeculi
prudentissimus, sagax, et callidus, qualiter posset Alexandrum, et
idolum suum judicio universalis Ecclesiae pariter dejicere, atque
personam tertiam in romanum pontificem ordinare_. Trovaronsi insieme
papa Alessandro e il re Lodovico a Souvignì, e il re, principe che non
andava molto alla malizia, volle persuadere al papa di venir al
progettato congresso; ma Alessandro tenne il piè fermo, allegando che
non conveniva alla dignità della Sede apostolica il sottoporsi a quel
giudizio; e che giusto motivo avea di sospettar artifizii e superchierie
dalla parte di Federigo, che già era apposta passato in Borgogna. Di
grandi negoziati si fecero dipoi; ma volle Dio che scoperti in fine i
raggiri d'esso imperadore, il re di Francia si ritirasse dal contratto
impegno: perlochè fu quasi per nascere rottura di guerra fra que' due
monarchi, se non fosse accorso in aiuto del re Lodovico il re
d'Inghilterra: il che mise freno a Federigo, che oramai si credea di
potere dar legge a tutti, e pretendea che ai soli vescovi del suo
imperio appartenesse il giudicar dell'elezione del romano pontefice. In
somma esso Augusto, mal contento di tanti maneggi inutilmente fatti, fu
forzato dalla mancanza de' viveri a tornarsene coll'esercito in
Germania; e l'antipapa, veggendosi mal ricevuto in quelle parti, se ne
tornò in Italia. Rimandò poco dappoi Federigo in Italia l'eletto
arcivescovo di Colonia _Rinaldo_, principal arnese, ma arnese pessimo
della sua corte[2107], che fatto un viaggio per la Lombardia, Romagna,
marca di Verona e Toscana, si studiò di assodar tutte le città e
principi nell'ossequio verso l'imperadore. Intanto il miserabil popolo
di Milano[2108] escluso dalla sua patria, senza tetto dove ricoverarsi,
fu ripartito dal vescovo di Liegi in quattro siti, alcune miglia lungi
dalla città, con permissione di fabbricar ivi de' borghi per loro
alloggio. Tornò in Germania quel vescovo, e lasciò al governo d'esso
popolo Pietro di Cunin, che cominciò a far delle estorsioni in varie
maniere. Terminò in quest'anno il re di Sicilia la guerra di
Puglia[2109] colla presa di Taverna e di Monte Arcano; e, passato a
Salerno, senza volervi entrare, s'accampò sotto quella città. Era
inviperito contra di quel popolo, perchè esso dianzi avea consentito
alla congiura che divampò contro di lui. Pretese il re una gran somma di
danaro da que' cittadini; nè potendo eglino colla puntualità ricercata
soddisfare al pagamento, con questo pretesto minacciò Guglielmo l'ultimo
eccidio alla città. Ed era disposto ad eseguir la parola, quando sul bel
mezzo giorno e a ciel sereno, insorto un impetuoso turbine, seguitato
poi da una furiosa pioggia, schiantò quasi tutte le tende, e
specialmente la regale, in maniera che Guglielmo, il quale allora
dormiva, corse pericolo di riportarne gran danno. Se ne fuggì egli in
una picciola tenda che era rimasta in piedi, con raccomandarsi a san
Matteo apostolo, il cui corpo si pretende conservato in quella città. Fu
questo in fatti creduto un miracoloso ripiego del santo Apostolo, per
liberar da quel rischio il suo popolo; e però impaurito il re, nel dì
seguente sciolse le vele verso Palermo, nè altro male fece a quella
magnifica città. Insorse in quest'anno discordia fra i Pisani e i
Genovesi nella città di Costantinopoli. Avendo prevaluto i primi,
diedero il sacco al fondaco dei Genovesi, con asportarne il valore di
trenta mila perperi[2110]. Portatene le querele a Genova, il popolo in
furia spedì a Pisa, chiedendo soddisfazione, altrimenti intimavano la
guerra. Non essendo venuta alcuna buona risposta, i Genovesi con dodici
galere volarono a Porto Pisano a farne vendetta. Vi distrussero la torre
del porto, e presero molte navi coll'avere e cogli uomini. Accadde che
arrivò a Pisa il suddetto Rinaldo arcicancelliere ed arcivescovo eletto
in Colonia, che, informato di questa briga, mandò tosto a Genova ordine
che cessassero le offese, ed ottenne la liberazion de' prigioni. Ma
avendo dipoi i Pisani presi due legni dei Genovesi, si riaccese la
guerra che era per andare innanzi, se, interpostosi di nuovo
l'arcicancelliere, non avesse rimessa all'imperadore, che era a Torino,
la cognizion di questa controversia. Stabilì esso Augusto dipoi una
tregua fra loro. Di una tal discordia parlano gli Annali pisani all'anno
seguente.
NOTE:
[2093] Acerbus Morena, Hist. Laud., tom. 6 Rer. Italic.
[2094] Sire Raul, Histor., tom. 6 Rer. Ital.
[2095] Acerbus Morena. Sire Raul. Otto de Sancto Blasio.
[2096] Romualdus Salernitanus, in Chron.
[2097] Abbas Urspergensis, in Chron.
[2098] Ptolom. Lucens., in Annalib.
[2099] Dodech., in Append. ad Marian.
[2100] Robert. de Monte, in Append. ad Sigebert.
[2101] Gualvan. Flamma, Manipul. Flor.
[2102] Acerbus Morena, Histor. Laudens., tom. 6 Rer. Ital.
[2103] Sigon., de Regno Ital., lib. 13.
[2104] Caffari, Annal. Genuens., lib. 1, tom. 6 Rer. Italic.
[2105] Antiquit. Ital., Dissert. XLVIII et LXXII.
[2106] Cardin. de Aragon., in Vit. Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer.
Italic.
[2107] Acerbus Morena, Histor. Lauden., tom. 6 Rer. Ital. Romualdus
Salern., in Chron., tom. 7 Rer. Italic.
[2108] Sire Raul, Hist., tom. 6 Rer. Ital.
[2109] Romualdus Salernit., in Chron. Johann de Ceccano, Chron.
Fossaenovae.
[2110] Caffari, Annal. Genuens., lib. 1, tom. 6 Rer. Italic.
Anno di CRISTO MCLXIII. Indizione XI.
ALESSANDRO III papa 5.
FEDERIGO I re 12, imper. 9.
Dopo avere _papa Alessandro_ celebrata la festa del santo Natale nella
città di Tours[2111], venuta la domenica di settuagesima, passò a Parigi
per una conferenza con _Lodovico VII_ re di Francia. Gli venne incontro
il piissimo re coi baroni e colle sue guardie due leghe lungi dalla
città, e alla vista di lui smontato, corse a baciargli i piedi. Dopo di
che amendue continuarono il viaggio fino a Parigi, dove la processione
del clero col vescovo l'accolse. Dimorò ivi il pontefice per tutta la
quaresima, e vi solennizzò la Pasqua. Poscia, avvicinandosi il tempo
della celebrazion del concilio da lui intimato nella città di Tours,
colà si trasferì. Riguardevole fu quella sacra adunanza, a cui fu dato
principio nel dì 19 di maggio, perchè v'intervennero diciassette
cardinali, cento ventiquattro vescovi, quattrocento quattordici abbati,
e una copiosa moltitudine di clerici e laici. Furono ivi pubblicati
varii canoni di disciplina ecclesiastica, da' quali apparisce che era
già insorta nelle parti di Tolosa, e si andava dilatando, una setta
d'eretici, i quali, siccome accenneremo, infettarono in fine tutte
quelle contrade. Era anche passato in Francia lo studio delle leggi
civili, e molti monaci e canonici regolari, col pretesto d'insegnarle
nelle scuole, oppur di spiegare la fisica, o di praticar la medicina,
abbandonavano i loro chiostri. Questo fu proibito, e dichiarate nulle e
sacrileghe tutte le ordinazioni fatte e da farsi dall'antipapa e dagli
altri scismatici. E perciocchè l'andar girando il papa dovea riuscire di
non lieve aggravio alle chiese, gli fu fatto sapere che se volea più
lungamente fermarsi in Francia, eleggesse una dimora stabile nella città
che più gli fosse in grado: laonde egli scelse la città di Sens, dove si
trattenne dal principio d'ottobre fino alla Pasqua dell'anno 1165. Circa
questi tempi avendo _Ulrico_, novello patriarca di Aquileia, fatta
un'invasione nell'isola di Grado[2112], vi accorsero i Veneziani con uno
stuolo di galee, e il fecero prigione con assai nobili del Friuli
nell'ultimo giovedì del carnevale, e tutti li misero nelle carceri di
Venezia. Per liberarsi, egli si obbligò di mandare ogni anno da lì
innanzi nell'ultimo mercordì del carnevale al doge dodici porci grassi,
e dodici pani grossi in memoria della vittoria de' Veneti e della sua
liberazione. Allora fu fatto in Venezia uno statuto, che nel giovedì
suddetto in avvenire ad un toro e ad altri simili porci nella pubblica
piazza si dovesse tagliar la testa, il qual uso per conto del toro dura
tuttavia in essa città. Credevasi dalla plebe ciò istituito per denotare
che si tagliava il capo al suddetto arcivescovo e a dodici de' suoi
canonici; ma i saggi sapeano che pel solo fine suddetto si facea quello
spettacolo.
Era in questi tempi straziato l'infelice popolo milanese dai ministri
tedeschi, che tutti aveano nell'ossa il morbo dell'avarizia. Tanta era
la parte che il loro vice-governatore Pietro di Cunin esigeva dalle
rendite de' poderi[2113], che quasi nulla ne restava ai miseri padroni e
ai loro rustici. Oltre di che, da que' poderi che aveano i Milanesi sul
Lodigiano e Cremasco, nel Seprio, nella Martesana e in altri luoghi,
nulla poteano ricavare. Tutto sel divorano gli uffiziali
dell'imperadore. Fabbricarono costoro nel borgo di Noseta una gran torre
per far quivi la zecca, e guardarvi il danaro dell'imperatore. Ad un
magnifico palagio ancora per servigio d'esso Augusto fu dato principio
in Monza; e tutto il dì erano in volta gli strapazzati contadini colle
lor carra e buoi per condurre i materiali. Altrettanto si facea per la
fabbrica del castello di Landriano, e di un palazzo a Vigiantino. Per
queste e per altre doglianze della gente, il vescovo di Liegi richiamò
il Cunin, e mandò al governo un Federigo cherico, appellato mastro delle
scuole: che così era chiamata una dignità nelle cattedrali. La sperienza
mostrò che costui avea l'unghie anche più arrampinate che quelle del
precedente ministro. Arrivò poi a Lodi nel dì 29 d'agosto, di ritorno
dalla Germania l'imperador _Federigo_ coll'augusta sua consorte
_Beatrice_[2114] e con gran comitiva di baroni. Da lì a quattro giorni
vi giunse ancora l'antipapa, il quale nel dì 4 di novembre fece la
traslazione del corpo di san Bassiano da Lodi vecchio a Lodi nuovo. Lo
stesso Ottaviano, ed anche l'imperadore col patriarca d'Aquileia e
coll'abbate di Clugnì, ed altri vescovi ed arcivescovi portarono sulle
loro spalle la sacra cassa. Nel dì 16 d'esso mese essendosi trasferito a
Pavia esso Federigo, allora fu che i Pavesi fecero tante istanze,
avvalorate dal rinforzo di una buona somma di danaro, che ottennero di
potere smantellar le mura di Tortona, con rappresentare riedificata
quella città in obbrobrio dell'imperadore e di Pavia. Corsero dunque
all'esecuzion del decreto; nè contenti d'aver diroccato il muro, vi
distrussero ancora con fretta incredibile tutte le case, riducendo
quella sventurata città in un monte di pietre. Un alto di clemenza
esercitò poco appresso l'imperadore coi Milanesi, perchè rimise in
libertà i quattrocento loro ostaggi. Passando poi egli da Pavia a Monza
nel dì 5 di dicembre, il popolo milanese, confinato in uno dei borghi
nuovi, maschi e femmine gli andarono incontro sulla via. Era di notte, e
forte piovea. Prostrati a terra in mezzo al fango, gridavano
misericordia; e Federigo lasciò ivi _Rinaldo_ arcivescovo eletto di
Colonia, acciocchè gli ascoltasse. Questi ordinò che alcuni d'essi nel
dì seguente andassero a Monza, dove darebbe loro udienza. Fece anche
venir colà dodici di cadaun borgo, e udito che richiedevano la
restituzion de' loro poderi più colle lagrime che colla voce, dimandò,
cosa offerissero all'imperadore per ricuperarli. Si scusarono essi per
la somma loro povertà e per le tante miserie: il che fece montar in
collera l'iniquo arcivescovo, e intimar loro di pagare per tutto gennaio
prossimo venturo una somma di danaro, e bisognò sborsarla. Nel
precedente anno aveano i Pisani inviata un'ambasceria all'imperador
Federigo[2115], che ne mostrò molto piacere, e fece di molte carezze ai
loro ambasciatori. Nell'anno presente poi investì egli di tutte le
regalie quel popolo, che si obbligò di armare sessanta galee in aiuto
del medesimo Augusto per la guerra che si andava meditando contro il re
di Sicilia. Ma questo lor palese attaccamento a Federigo fu cagione che
non si poterono accordare coll'imperador de' Greci _Manuello Comneno_,
pretendente ch'essi rinunziassero all'amicizia di Federigo: al che mai
non vollero acconsentire. Ma peggio loro avvenne negli Stati del re di
Sicilia, perchè considerandoli il re Guglielmo come nemici della sua
corona, benchè avesse pace con loro, pure all'improvviso fece prendere
quanti Pisani si trovarono nelle sue contrade, ed occupar tutte le loro
mercatanzie. Corse un gran pericolo in quest'anno esso re Guglielmo in
Palermo[2116]. Folto era il numero de' prigionieri di Stato in quelle
carceri. Ebbero costoro maniera di uscire, ed usciti assalirono il
palazzo regale con disegno e gran voglia di trucidare il re. Fecero così
bene il loro uffizio le guardie, che andò fallito il colpo, e restarono
i più d'essi tagliati a pezzi.
NOTE:
[2111] Cardin. de Aragon., in Vit. Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer.
Ital.
[2112] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.
non molto spirò l'ultimo fiato in braccio della stessa infelice sua
madre. Ma Romoaldo Salernitano[2090] ne attribuisce la morte ad una
saetta gittata in quel tumulto, che il percosse presso un occhio con
ferita mortale. Perseguitò dipoi il re Guglielmo i baroni congiurati; e
questi misero sottosopra tutta la Sicilia. Fece cavar gli occhi a Matteo
Bonello; assediò Botera, ed, entratovi, tutta la fece diroccare. Intanto
essendo rientrato in Puglia _Roberto conte_ di Loritello[2091], mise in
rivolta molte di quelle terre e città fino a Taranto. Ma sopravvenuto il
re Guglielmo col suo esercito, ripigliò Taranto e tutto il perduto: il
che si tirò dietro l'allontanamento dal regno d'esso conte Roberto e
d'altri baroni, i quali si rifugiarono presso lo imperador Federigo.
Tutte queste scene ed altre, ch'io tralascio, son diffusamente narrate
da Ugone Falcando. In questo anno i Genovesi[2092] stabilirono i patti
del commercio con _Lupo_, chiamato da essi re di Spagna, ma che, secondo
il Mariana, non fu se non re di Murcia. Altrettanto fecero col re di
Marocco, e spedirono a Gerusalemme per ricuperare i loro diritti nelle
città di Terra Santa.
NOTE:
[2085] Gerhous Reicherspergens., de investigand. Anticar., lib. 1.
[2086] Cardin. de Aragon., in Vita Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer.
Italic.
[2087] Caffari, Annal. Genuens., lib. 1, tom. 6 Rer. Italic.
[2088] Otto Morena, Hist. Laudens., tom. 6 Rer. Italic.
[2089] Hugo Falcandus, Histor.
[2090] Romuald. Salernit., in Chron. tom. 7 Rer. Ital.
[2091] Johannes de Ceccano, Chron. Fossaenovae.
[2092] Caffari, Annal. Genuens., lib. 1, tom. 6 Rer. Italic.
Anno di CRISTO MCLXII. Indizione X.
ALESSANDRO III papa 4.
FEDERIGO I re 11, imperad. 8.
Famosissimo divenne quest'anno, perchè in esso finalmente venne fatto
all'imperador Federigo di vedere a' suoi piedi il popolo di Milano, e di
potere sfogare contra della loro città il suo barbarico sdegno[2093]. Il
guasto dato a tutti i contorni di Milano avea privato di viveri quel
valoroso popolo, nè restava speranza nè maniera di cavarne dai vicini,
perchè tutti all'incontro erano lor nemici e collegati per rovina di
quell'illustre città. La sola città di Piacenza avrebbe potuto o voluto
soccorrere; ma n'era impedita dall'armi di Federigo, acquartierato
apposta a Lodi, che facea battere le strade, e tagliar crudelmente la
mano destra a chiunque era colto portante vettovaglia a Milano. Però si
cominciò stranamente a penuriare in essa città, e alla penuria tenne
dietro una grave discordia tra i cittadini, cioè tra i padri e i
figliuoli, i mariti e le mogli e i fratelli, gridando alcuni che s'aveva
a rendere la città, ed altri sostenendo che no: laonde accadevano
continue risse fra loro[2094]. Si aggiunse che i principali formarono
una segreta congiura di dar fine a tanti guai, in guisa che prevalse il
sentimento accompagnato da minaccie di chi proponeva la resa, e fu preso
il partito d'inviare a trattar di pace. Iti gli ambasciatori a Lodi,
proposero di spianare per onor dell'imperadore in sei luoghi le mura e
le fosse delle città. Federigo col parere de' suoi principi, e de'
Pavesi, Cremonesi, Comaschi ed altri popoli nemici di Milano, stette
fisso in volerli a sua discrezione senza patto alcuno. Durissima parve
tal condizione, ma il timore di peggio indusse i Milanesi ad accomodarsi
al fierissimo rovescio della lor fortuna. Pertanto nel primo giorno di
marzo vennero a Lodi i consoli di Milano, cioè Ottone Visconte, Amizone
da porta Romana, Anselmo da Mandello, Anselmo dall'Orto, con altri; e
colle spade nude in mano, siccome nobili, giurarono di fare quello che
piacesse all'imperadore, e che lo stesso giuramento si presterebbe da
tutto il loro popolo. Nella seguente mattina comparvero trecento soldati
a cavallo milanesi, che rassegnarono a Federigo le lor bandiere, e
insieme le chiavi della città. Nel martedì vennero circa mille fanti da
Milano col carroccio, che giurarono come i precedenti. Volle Federigo
quattrocento ostaggi, e spedì sei Tedeschi e sei Lombardi, fra i quali
fu Acerbo Morena, allora podestà di Lodi, continuatore della storia
cominciata da Ottone suo padre, acciocchè esigessero il giuramento di
totale ubbidienza da tutto il popolo milanese. Andò l'imperadore a Pavia
con tutta la corte, e nel dì 19 d'esso mese di marzo mandò ordine ai
consoli milanesi[2095] che in termine di otto giorni tutti i cittadini
maschi e femmine evacuassero la città con quel che poteano portar seco.
Spettacolo sommamente lagrimevole fu nel dì 25 il vedere lo sfortunato
popolo piangente abbandonar la cara patria co' piccoli lor figliuoli,
cogl'infermi e coi lor fardelli, portando quel poco che poterono, e
lasciando il resto in preda agli stranieri. Alcuni giorni prima, cioè
nel dì 18, se n'era già partito l'_arcivescovo Oberto_ coll'arciprete
Milone, Galdino arcidiacono ed Alchisio cimeliarca, ed ito per trovar
_papa Alessandro_ che tuttavia dimorava in Genova. Chi potè, se ne andò
a Pavia, a Lodi, a Bergamo, a Como, e ad altre città; ma l'infelice
plebe si fermò fuori della città ne' monisteri di san Vincenzo, di san
Celso, di san Dionisio e di san Vittore, sperando pure che non fosse
estinta affatto nel cuore dell'imperadore la clemenza, e ch'egli,
soddisfatto dell'ubbidienza, permetterebbe il ritorno alle lor case. Non
poteva essere più vana una sì fatta lusinga. Comparve nel dì seguente
Federigo accompagnato da tutti i suoi principi e soldati, e da'
Cremonesi, Pavesi, Novaresi, Lodigiani e Cremaschi, e da quei del Seprio
e della Martesana; ed, entrato in Milano, l'abbandonò all'avidità
militare. Nel sacco neppure alcun riguardo s'ebbe alle chiese. Furono
asportati i lor tesori, i sacri arredi e le reliquie. Ed allora dicono,
che trovati i corpi creduti dei tre re magi, e donati a _Rinaldo_
arcicancelliere ed arcivescovo eletto di Colonia, furono portati alla di
lui città, dove di presente la popolar credenza li venera. Scrissero
alcuni che anche i corpi dei santi Gervasio e Protasio furono portati a
Brisacco; ma il Puricelli e il signor Sassi, bibliotecario
dell'Ambrosiana, hanno già convinta di falso una tale opinione. Sire
Raul, autore di questi tempi, scrive seguito solamente nell'anno 1164
questo pio ladroneccio.
Poscia uscì della bocca imperiale il crudele editto pella total
distruzione della città di Milano. Se fosse vero ciò che racconta
Romoaldo arcivescovo in questi tempi di Salerno[2096], Federigo nella
concordia avea promesso _civitatem integram, et cives cum rebus suis
permanere illaesos_; poi mancò alla parola. Ma non s'accorda questa
particolarità con quanto ne scrivono il Morena e Sire Raul, storici più
informati di questi fatti. Furono deputati i Cremonesi ad atterrare il
sestiere di porta Romana, i Lodigiani a quel di porta Renza, i Pavesi a
quel di porta Ticinese, i Novaresi a quel di porta Vercellina, i
Comaschi a quel di porta Comacina, e il popolo del Seprio e della
Martesana a quello di porta Nuova. L'odio e lo spirito della vendetta
animò sì forte questi popoli, che si diedero un'incredibil fretta alla
rovina dell'infelice città. Gran somma di danaro aveano anche sborsato a
Federigo per ottenerne la permissione. Il fuoco attaccato alle case ne
distrusse buona parte; il resto fu diroccato a forza di martelli e
picconi, ed anche in pochi giorni si vide smantellata la maggior parte
delle mura. Pare che Acerbo Morena si contraddica, perchè, dopo avere
scritto, che _usque ad dominicam Olivarum tot de moenibus civitatis
consternaverunt, quod ab initio a nemine credebatur in duobus mensibus
posse dissipari, soggiugne appresso, che remansit tamen fere totus murus
civitatem circumdans (forse manca dissipatus), qui adeo bonis et magnis
lapidibus confectus fuerat, et quasi centum turribus decoratus, quod, ut
existimo, numquam tam bonus fuit visus in Italia_. Certo è da credere
che, se non prima, lo dirupassero almeno dopo la domenica dell'ulivo,
perchè lasciando in piedi un sì forte muro, nulla avrebbono fatto. E
Sire Raul scrive che Federigo _destruxit domos, et turres, et murum
civitatis_. Così ha l'Abbate Urspergense[2097], Elmoldo, Gotifredo
monaco ed altri. Il campanile della metropolitana, mirabile a vedere per
la sua vaghezza ed incredibil altezza, venne per comandamento
dell'imperadore abbassato. Ma rovesciato sopra la chiesa, ne atterrò la
maggior parte. La fama accrebbe poi questa calamità di Milano, essendo
giunti alcuni a scrivere[2098] che Federigo vi fece condurre sopra
l'aratro, e la seminò di sale: tutte fandonie. Per attestato di
Duodechino[2099] _populus expulsus fuit; murus in circuitu dejectus;
aedes, exceptis Sanctorum templis, solo tenus destructae. Reservatis
tantummodo matrice Ecclesia, et quibusdam aliis_, scrive Roberto dal
Monte[2100]. Ordine ancora fu dato che mai più non si potesse
rifabbricare, nè abitar quella nobilissima città, a spianar le cui fosse
concorse quasi tutta la Lombardia. Io qui niuna menzione farò delle
favole della Cronica de' conti di Anghiera, mentovate ancora da Galvano
Fiamma[2101], perchè il confutarle sarebbe tempo mal impiegato. Nella
domenica delle Palme assistè Federigo Augusto ai divini uffizii nella
basilica di santo Ambrosio[2102] fuori della desolata città milanese, e
prese l'ulivo benedetto; e nello stesso giorno s'inviò a Pavia. Celebrò
egli in essa città la santa Pasqua, col concorso della maggior parte dei
vescovi, marchesi, conti ed altri baroni d'Italia. Alla messa e dopo la
messa, ad un lauto convito, a cui s'assisero i suddetti principi, e i
vescovi colla mitra, e i consoli delle città, si fece vedere colla
corona in capo, insieme coll'Augusta Beatrice, giacchè due anni innanzi
avea fatto proponimento di non portar più corona, se prima non
soggiogava il popolo di Milano. Grande fu allora il giubilo e il plauso
del popolo di Pavia per le fortune dell'imperadore; e gli scrittori
tedeschi si sciolgono in sonori elogi del suo gran valore e della sua
costanza, per aver sottomessa una sì riguardevol città. Ma resterebbe da
vedere se gloria vera s'abbia a riputare per un monarca cristiano il
portare l'eccidio ad un'intera insigne città, con distruggere e
seppellir tante belle fabbriche e memorie dell'antichità, che fino a'
tempi di Ausonio quivi si conservavano. Che in pena della ribellione si
dirocchino tutte le mura ed ogni fortificazione, ciò cammina; ma poi
tutto, chi può mai lodarlo, e non attribuirlo piuttosto ad un genio
barbarico? A mio credere, i buoni principi fabbricano le città, e i
cattivi le distruggono. Certo intanto è che la caduta e rovina di Milano
sparse il terrore per tutta l'Italia, ed ognuno tremava al nome di
Federigo Barbarossa. Però non è da stupire se i Bresciani spedirono
nella seconda domenica dopo Pasqua i loro consoli, accompagnati da molta
nobiltà, a Pavia, per sottomettersi ai di lui voleri. Fu accettata la
lor sommessione, con patto di dover demolire tutte le torri e mura della
lor città, di spianar le fosse, di ricevere un podestà dall'imperadore,
di pagar una buona somma di danaro, e di consegnare ad esso Augusto
tutte le rocche e fortezze del loro contado, e di militare con lui,
occorrendo, anche a Roma e in Puglia. Sapea ben Federigo nella buona
ventura mettere i piedi addosso a chiunque gli cadeva sotto le mani.
Vi restavano i soli Piacentini da mettere in dovere. Già si sapeva che
era giurato l'assedio della lor città. Ma conoscendo essi la necessità
di prevenir la tempesta, trattarono di pace, e colla mediazione di
_Corrado conte_ palatino del Reno, fratello dell'imperadore,
l'ottennero. Però i lor consoli colle spade nude si presentarono a
Federigo nel dì 11 di maggio, mentre egli era a San Salvatore fuori di
Pavia, e se gli sottomisero con promessa di pagargli sei mila marche
d'argento, di distruggere le mura e le fosse della lor città, di
ricevere un podestà, di restituir tutte le regalie, e di cedere tutte
quelle castella del lor territorio che volesse l'imperadore; il che era
poco men che perdere tutto l'essere di repubblica. Ciò fatto, mandò
Federigo per podestà de' Milanesi il vescovo di Liegi; a Brescia
Marquardo di Grumbac; a Piacenza Aginolfo, e poscia Arnaldo Barbavara; a
Ferrara il conte Corrado di Ballanuce; a Como maestro Pagano; e così ad
altre città. Per grazia speciale permise ai Cremonesi, Parmigiani,
Lodigiani ed altri popoli fedeli il governarsi co' proprii consoli.
Rapporta il Sigonio[2103] l'investitura data ai Cremonesi, molto
vantaggiosa per loro. Nel mese di giugno passò Federigo alla volta di
Bologna, che era tuttavia restia ai comandamenti di lui. Seguì parimente
accordo con quel popolo, obbligato anch'esso a diroccar le mura, a
guastar le fosse della città, a fare lo sborso di molta pecunia, e a
ricevere pel suo governo il cesareo podestà. Andò poscia ad Imola e
Faenza, e ad altri luoghi. In somma non vi restò città dell'Italia di
qua da Roma che non piegasse il collo sotto i piedi del formidabil
Augusto, a riserva della rocca di Garda, che occupata da Turisendo
veronese, e assediata quasi per un anno dal conte Marquardo e da'
Bergamaschi, Bresciani, Veronesi e Mantovani, lungo tempo si difese, e
finalmente si rendè con onesta capitolazione. Anche i Genovesi, chiamati
da Federigo a Pavia, per attestato di Caffaro[2104], vennero
all'ubbidienza, ed ottennero buoni patti, con ritener tutte le regalie,
perchè s'obbligarono di servire a Federigo nelle spedizioni ch'egli
meditava contro il re di Sicilia. Il privilegio conceduto da esso
imperadore ai Genovesi può leggersi nelle mie Antichità italiane[2105].
Affinchè restasse memoria della sua crudeltà contra de' Milanesi; quel
diploma si vede dato _Papiae apud sanctum Salvatorem in palatio
imperatoris post destructionem Mediolani, et deditionem Brixiae, et
Placentiae, V junii, anno dominicae Incarnationis MCLXII, Indictione X_.
Altri diplomi segnati in questa forma ci restano. Curiosa cosa è il
vedere con che generosità Federigo diede allora in feudo al popolo
genovese _siracusanam civitatem cum pertinentiis suis, et ducentas
quinquaginta caballarias terrae in valle Nothi, ec. et in unaquaque
civitate maritima, quae propitia divinitate a nobis capta fuerit, rugam
unam_ (una rua, una contrada) _eorum negotiatoribus convenientem cum
ecclesia, balneo, fundico, et furno_, con altre liberalità. Ma il
proverbio dice che il fare i conti sulla pelle dell'orso vivo non sempre
riesce.
Nella domenica di passione imbarcatosi di nuovo a Genova papa
_Alessandro III_[2106], di colà passò a Magalona in Francia, e poscia a
Mompellieri, dove mandò il re _Lodovico VII_ a visitarlo e a rendergli
l'onore dovuto. Nel giugno si inviò a Chiaramonte. Alle glorie
dell'Augusto Federigo mancava quella solamente di terminar la lite del
pontificato romano a voglia sua. Mostrando egli in apparenza grande zelo
per l'unione della Chiesa, subito che intese l'arrivo in Francia di papa
Alessandro, scrisse al re Lodovico, proponendo un abboccamento con lui
per dar fine a questo importantissimo affare; e che a San Giovanni di
Laune, oppure a Besanzone si tenesse un concilio, dove si presentassero
i due contendenti, per esser ivi esaminate le ragioni d'ambedue le
parti. Covava nondimeno l'astuto imperadore il pensiero di burlar non
meno l'odiato Alessandro che l'antipapa Ottaviano. _Apud se cogitavit_
(lo abbiamo dalla vita di papa Alessandro), _sicut homo hujus saeculi
prudentissimus, sagax, et callidus, qualiter posset Alexandrum, et
idolum suum judicio universalis Ecclesiae pariter dejicere, atque
personam tertiam in romanum pontificem ordinare_. Trovaronsi insieme
papa Alessandro e il re Lodovico a Souvignì, e il re, principe che non
andava molto alla malizia, volle persuadere al papa di venir al
progettato congresso; ma Alessandro tenne il piè fermo, allegando che
non conveniva alla dignità della Sede apostolica il sottoporsi a quel
giudizio; e che giusto motivo avea di sospettar artifizii e superchierie
dalla parte di Federigo, che già era apposta passato in Borgogna. Di
grandi negoziati si fecero dipoi; ma volle Dio che scoperti in fine i
raggiri d'esso imperadore, il re di Francia si ritirasse dal contratto
impegno: perlochè fu quasi per nascere rottura di guerra fra que' due
monarchi, se non fosse accorso in aiuto del re Lodovico il re
d'Inghilterra: il che mise freno a Federigo, che oramai si credea di
potere dar legge a tutti, e pretendea che ai soli vescovi del suo
imperio appartenesse il giudicar dell'elezione del romano pontefice. In
somma esso Augusto, mal contento di tanti maneggi inutilmente fatti, fu
forzato dalla mancanza de' viveri a tornarsene coll'esercito in
Germania; e l'antipapa, veggendosi mal ricevuto in quelle parti, se ne
tornò in Italia. Rimandò poco dappoi Federigo in Italia l'eletto
arcivescovo di Colonia _Rinaldo_, principal arnese, ma arnese pessimo
della sua corte[2107], che fatto un viaggio per la Lombardia, Romagna,
marca di Verona e Toscana, si studiò di assodar tutte le città e
principi nell'ossequio verso l'imperadore. Intanto il miserabil popolo
di Milano[2108] escluso dalla sua patria, senza tetto dove ricoverarsi,
fu ripartito dal vescovo di Liegi in quattro siti, alcune miglia lungi
dalla città, con permissione di fabbricar ivi de' borghi per loro
alloggio. Tornò in Germania quel vescovo, e lasciò al governo d'esso
popolo Pietro di Cunin, che cominciò a far delle estorsioni in varie
maniere. Terminò in quest'anno il re di Sicilia la guerra di
Puglia[2109] colla presa di Taverna e di Monte Arcano; e, passato a
Salerno, senza volervi entrare, s'accampò sotto quella città. Era
inviperito contra di quel popolo, perchè esso dianzi avea consentito
alla congiura che divampò contro di lui. Pretese il re una gran somma di
danaro da que' cittadini; nè potendo eglino colla puntualità ricercata
soddisfare al pagamento, con questo pretesto minacciò Guglielmo l'ultimo
eccidio alla città. Ed era disposto ad eseguir la parola, quando sul bel
mezzo giorno e a ciel sereno, insorto un impetuoso turbine, seguitato
poi da una furiosa pioggia, schiantò quasi tutte le tende, e
specialmente la regale, in maniera che Guglielmo, il quale allora
dormiva, corse pericolo di riportarne gran danno. Se ne fuggì egli in
una picciola tenda che era rimasta in piedi, con raccomandarsi a san
Matteo apostolo, il cui corpo si pretende conservato in quella città. Fu
questo in fatti creduto un miracoloso ripiego del santo Apostolo, per
liberar da quel rischio il suo popolo; e però impaurito il re, nel dì
seguente sciolse le vele verso Palermo, nè altro male fece a quella
magnifica città. Insorse in quest'anno discordia fra i Pisani e i
Genovesi nella città di Costantinopoli. Avendo prevaluto i primi,
diedero il sacco al fondaco dei Genovesi, con asportarne il valore di
trenta mila perperi[2110]. Portatene le querele a Genova, il popolo in
furia spedì a Pisa, chiedendo soddisfazione, altrimenti intimavano la
guerra. Non essendo venuta alcuna buona risposta, i Genovesi con dodici
galere volarono a Porto Pisano a farne vendetta. Vi distrussero la torre
del porto, e presero molte navi coll'avere e cogli uomini. Accadde che
arrivò a Pisa il suddetto Rinaldo arcicancelliere ed arcivescovo eletto
in Colonia, che, informato di questa briga, mandò tosto a Genova ordine
che cessassero le offese, ed ottenne la liberazion de' prigioni. Ma
avendo dipoi i Pisani presi due legni dei Genovesi, si riaccese la
guerra che era per andare innanzi, se, interpostosi di nuovo
l'arcicancelliere, non avesse rimessa all'imperadore, che era a Torino,
la cognizion di questa controversia. Stabilì esso Augusto dipoi una
tregua fra loro. Di una tal discordia parlano gli Annali pisani all'anno
seguente.
NOTE:
[2093] Acerbus Morena, Hist. Laud., tom. 6 Rer. Italic.
[2094] Sire Raul, Histor., tom. 6 Rer. Ital.
[2095] Acerbus Morena. Sire Raul. Otto de Sancto Blasio.
[2096] Romualdus Salernitanus, in Chron.
[2097] Abbas Urspergensis, in Chron.
[2098] Ptolom. Lucens., in Annalib.
[2099] Dodech., in Append. ad Marian.
[2100] Robert. de Monte, in Append. ad Sigebert.
[2101] Gualvan. Flamma, Manipul. Flor.
[2102] Acerbus Morena, Histor. Laudens., tom. 6 Rer. Ital.
[2103] Sigon., de Regno Ital., lib. 13.
[2104] Caffari, Annal. Genuens., lib. 1, tom. 6 Rer. Italic.
[2105] Antiquit. Ital., Dissert. XLVIII et LXXII.
[2106] Cardin. de Aragon., in Vit. Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer.
Italic.
[2107] Acerbus Morena, Histor. Lauden., tom. 6 Rer. Ital. Romualdus
Salern., in Chron., tom. 7 Rer. Italic.
[2108] Sire Raul, Hist., tom. 6 Rer. Ital.
[2109] Romualdus Salernit., in Chron. Johann de Ceccano, Chron.
Fossaenovae.
[2110] Caffari, Annal. Genuens., lib. 1, tom. 6 Rer. Italic.
Anno di CRISTO MCLXIII. Indizione XI.
ALESSANDRO III papa 5.
FEDERIGO I re 12, imper. 9.
Dopo avere _papa Alessandro_ celebrata la festa del santo Natale nella
città di Tours[2111], venuta la domenica di settuagesima, passò a Parigi
per una conferenza con _Lodovico VII_ re di Francia. Gli venne incontro
il piissimo re coi baroni e colle sue guardie due leghe lungi dalla
città, e alla vista di lui smontato, corse a baciargli i piedi. Dopo di
che amendue continuarono il viaggio fino a Parigi, dove la processione
del clero col vescovo l'accolse. Dimorò ivi il pontefice per tutta la
quaresima, e vi solennizzò la Pasqua. Poscia, avvicinandosi il tempo
della celebrazion del concilio da lui intimato nella città di Tours,
colà si trasferì. Riguardevole fu quella sacra adunanza, a cui fu dato
principio nel dì 19 di maggio, perchè v'intervennero diciassette
cardinali, cento ventiquattro vescovi, quattrocento quattordici abbati,
e una copiosa moltitudine di clerici e laici. Furono ivi pubblicati
varii canoni di disciplina ecclesiastica, da' quali apparisce che era
già insorta nelle parti di Tolosa, e si andava dilatando, una setta
d'eretici, i quali, siccome accenneremo, infettarono in fine tutte
quelle contrade. Era anche passato in Francia lo studio delle leggi
civili, e molti monaci e canonici regolari, col pretesto d'insegnarle
nelle scuole, oppur di spiegare la fisica, o di praticar la medicina,
abbandonavano i loro chiostri. Questo fu proibito, e dichiarate nulle e
sacrileghe tutte le ordinazioni fatte e da farsi dall'antipapa e dagli
altri scismatici. E perciocchè l'andar girando il papa dovea riuscire di
non lieve aggravio alle chiese, gli fu fatto sapere che se volea più
lungamente fermarsi in Francia, eleggesse una dimora stabile nella città
che più gli fosse in grado: laonde egli scelse la città di Sens, dove si
trattenne dal principio d'ottobre fino alla Pasqua dell'anno 1165. Circa
questi tempi avendo _Ulrico_, novello patriarca di Aquileia, fatta
un'invasione nell'isola di Grado[2112], vi accorsero i Veneziani con uno
stuolo di galee, e il fecero prigione con assai nobili del Friuli
nell'ultimo giovedì del carnevale, e tutti li misero nelle carceri di
Venezia. Per liberarsi, egli si obbligò di mandare ogni anno da lì
innanzi nell'ultimo mercordì del carnevale al doge dodici porci grassi,
e dodici pani grossi in memoria della vittoria de' Veneti e della sua
liberazione. Allora fu fatto in Venezia uno statuto, che nel giovedì
suddetto in avvenire ad un toro e ad altri simili porci nella pubblica
piazza si dovesse tagliar la testa, il qual uso per conto del toro dura
tuttavia in essa città. Credevasi dalla plebe ciò istituito per denotare
che si tagliava il capo al suddetto arcivescovo e a dodici de' suoi
canonici; ma i saggi sapeano che pel solo fine suddetto si facea quello
spettacolo.
Era in questi tempi straziato l'infelice popolo milanese dai ministri
tedeschi, che tutti aveano nell'ossa il morbo dell'avarizia. Tanta era
la parte che il loro vice-governatore Pietro di Cunin esigeva dalle
rendite de' poderi[2113], che quasi nulla ne restava ai miseri padroni e
ai loro rustici. Oltre di che, da que' poderi che aveano i Milanesi sul
Lodigiano e Cremasco, nel Seprio, nella Martesana e in altri luoghi,
nulla poteano ricavare. Tutto sel divorano gli uffiziali
dell'imperadore. Fabbricarono costoro nel borgo di Noseta una gran torre
per far quivi la zecca, e guardarvi il danaro dell'imperatore. Ad un
magnifico palagio ancora per servigio d'esso Augusto fu dato principio
in Monza; e tutto il dì erano in volta gli strapazzati contadini colle
lor carra e buoi per condurre i materiali. Altrettanto si facea per la
fabbrica del castello di Landriano, e di un palazzo a Vigiantino. Per
queste e per altre doglianze della gente, il vescovo di Liegi richiamò
il Cunin, e mandò al governo un Federigo cherico, appellato mastro delle
scuole: che così era chiamata una dignità nelle cattedrali. La sperienza
mostrò che costui avea l'unghie anche più arrampinate che quelle del
precedente ministro. Arrivò poi a Lodi nel dì 29 d'agosto, di ritorno
dalla Germania l'imperador _Federigo_ coll'augusta sua consorte
_Beatrice_[2114] e con gran comitiva di baroni. Da lì a quattro giorni
vi giunse ancora l'antipapa, il quale nel dì 4 di novembre fece la
traslazione del corpo di san Bassiano da Lodi vecchio a Lodi nuovo. Lo
stesso Ottaviano, ed anche l'imperadore col patriarca d'Aquileia e
coll'abbate di Clugnì, ed altri vescovi ed arcivescovi portarono sulle
loro spalle la sacra cassa. Nel dì 16 d'esso mese essendosi trasferito a
Pavia esso Federigo, allora fu che i Pavesi fecero tante istanze,
avvalorate dal rinforzo di una buona somma di danaro, che ottennero di
potere smantellar le mura di Tortona, con rappresentare riedificata
quella città in obbrobrio dell'imperadore e di Pavia. Corsero dunque
all'esecuzion del decreto; nè contenti d'aver diroccato il muro, vi
distrussero ancora con fretta incredibile tutte le case, riducendo
quella sventurata città in un monte di pietre. Un alto di clemenza
esercitò poco appresso l'imperadore coi Milanesi, perchè rimise in
libertà i quattrocento loro ostaggi. Passando poi egli da Pavia a Monza
nel dì 5 di dicembre, il popolo milanese, confinato in uno dei borghi
nuovi, maschi e femmine gli andarono incontro sulla via. Era di notte, e
forte piovea. Prostrati a terra in mezzo al fango, gridavano
misericordia; e Federigo lasciò ivi _Rinaldo_ arcivescovo eletto di
Colonia, acciocchè gli ascoltasse. Questi ordinò che alcuni d'essi nel
dì seguente andassero a Monza, dove darebbe loro udienza. Fece anche
venir colà dodici di cadaun borgo, e udito che richiedevano la
restituzion de' loro poderi più colle lagrime che colla voce, dimandò,
cosa offerissero all'imperadore per ricuperarli. Si scusarono essi per
la somma loro povertà e per le tante miserie: il che fece montar in
collera l'iniquo arcivescovo, e intimar loro di pagare per tutto gennaio
prossimo venturo una somma di danaro, e bisognò sborsarla. Nel
precedente anno aveano i Pisani inviata un'ambasceria all'imperador
Federigo[2115], che ne mostrò molto piacere, e fece di molte carezze ai
loro ambasciatori. Nell'anno presente poi investì egli di tutte le
regalie quel popolo, che si obbligò di armare sessanta galee in aiuto
del medesimo Augusto per la guerra che si andava meditando contro il re
di Sicilia. Ma questo lor palese attaccamento a Federigo fu cagione che
non si poterono accordare coll'imperador de' Greci _Manuello Comneno_,
pretendente ch'essi rinunziassero all'amicizia di Federigo: al che mai
non vollero acconsentire. Ma peggio loro avvenne negli Stati del re di
Sicilia, perchè considerandoli il re Guglielmo come nemici della sua
corona, benchè avesse pace con loro, pure all'improvviso fece prendere
quanti Pisani si trovarono nelle sue contrade, ed occupar tutte le loro
mercatanzie. Corse un gran pericolo in quest'anno esso re Guglielmo in
Palermo[2116]. Folto era il numero de' prigionieri di Stato in quelle
carceri. Ebbero costoro maniera di uscire, ed usciti assalirono il
palazzo regale con disegno e gran voglia di trucidare il re. Fecero così
bene il loro uffizio le guardie, che andò fallito il colpo, e restarono
i più d'essi tagliati a pezzi.
NOTE:
[2111] Cardin. de Aragon., in Vit. Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer.
Ital.
[2112] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.
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