Annali d'Italia, vol. 4 - 52
Boemia, a cui poco prima avea conferito le insegne e il titolo di re,
_Federigo duca_ di Suevia, figliuolo del re Corrado, _Corrado duca_
palatino del Reno suo fratello, con varii arcivescovi, marchesi e conti.
La prima città, in cui sul principio del mese di luglio si scaricò
questo terribil nembo d'armati, fu Brescia. Benchè forte di mura, benchè
provveduta di gran copia di forti cittadini[2047], fece ben qualche
opposizione sulle prime al re di Boemia, che non tardò a devastare i
suoi contorni; ma giunto che fu l'imperadore in persona, e fermatosi
circa quindici giorni in quelle parti, con saccheggiare e bruciar molte
castella e ville, mandarono i Bresciani a trattare d'accordo, e con
dargli sessanta ostaggi e una grossa somma di danaro, si procacciarono
il perdono e la pace da Federigo. Se vogliamo prestar fede al racconto
dell'Urspergense[2048] pagò quel popolo _sessantamila marche d'argento_;
ma forse quel _sessanta_ cade sopra gli ostaggi, sembrando eccessiva una
tal somma, giacchè vedremo in breve quanto meno costò ai Milanesi il
loro accordo. Stando sul Bresciano pubblicò l'Augusto Federigo le leggi
militari riferite da Radevico[2049], ed intimata la guerra contra di
Milano, fu consigliato dai savii e dottori d'allora a citar prima quel
popolo, per poter proferire legittimamente la sentenza contra di loro.
Comparvero gli avvocati milanesi, sfoderarono leggi e paragrafi con
grande eloquenza; ma a nulla servì. Fecero esibizione di molto danaro
all'imperadore, si raccomandarono a quanti principi vi erano: tutto
indarno. Convenne loro tornarsene colle mani vote, e nel consiglio de'
più valenti giurisconsulti d'Italia, chiamati colà, fu proferita contra
de' Milanesi la sentenza, e tutti messi al bando dell'imperio.
Incamminossi dipoi la formidabil armata alla volta dell'Adda, per
passarlo[2050]. Non v'era che il ponte di Cassano per cui si potesse
transitare; ma dall'altra parte del ponte v'era un buon corpo di
Milanesi con assaissimi villani alla guardia: sicchè si credette
disperato il passaggio. Ma venendo il re di Boemia e Corrado duca di
Dalmazia all'ingiù dietro il fiume, parve loro di avere scoperto un bel
guado; e senza pensarvi più che tanto, spinsero i cavalli nell'acqua.
Molti se ne annegarono, ma molti ancora salirono felicemente all'altra
riva. Visti costoro di là dal fiume, e portatone l'avviso ai Milanesi
che custodivano l'altra testa del ponte: addio, buon pro a chi ebbe
migliori le gambe. Allora con tutto suo comodo passò l'imperadore colla
nobiltà per quel ponte. Passò anche parte dell'esercito; ma sul più
bello una parte d'esso ponte pel troppo peso si ruppe, e precipitarono
in acqua molti cavalieri e scudieri. Quei poscia che erano già passati,
incalzarono i fuggitivi milanesi, ne uccisero alquanti, e molti ne
fecero prigioni. Ingrandì poi la fama talmente questo passaggio, che
l'Abbate Urspergense[2051] spacciò essersi accampato Federigo _juxta
flumen Padum_, in vece di dir presso l'_Adda_; e che mancandogli barca
da passare, salito a cavallo di un trave, sostenuto di qua e di là da
alcune aste, con pochi passò di là, ed assaliti i nemici, li mise in
fuga. Dovea lo storico pesar meglio sì bizzarro avvenimento. Recato a
Milano questo inaspettato avviso, quando si credeva che il fiume Adda
avesse a fermare i passi dell'armata nemica, riempiè di spavento, di
lagrime e d'urli il popolo imbelle, e cominciò a fuggire una gran
quantità d'uomini e donne plebee, e fino gl'infermi si faceano portar
fuori di città. Assediò Federigo il castello di Trezzo, e l'ebbe in poco
tempo a patti di buona guerra. Passò di là su quel di Lodi, ed eccoti
comparire alla sua presenza una folla di poveri Lodigiani in abito
compassionevole colle croci in mano, chiedendo giustizia contra de'
Milanesi che gli aveano cacciati dalle lor case e tolti i loro beni. Era
pur troppo la verità. Nell'antecedente gennaio aveano i Milanesi voluto
obbligare il popolo di Lodi a prestare un nuovo giuramento di fedeltà.
Erano pronti i Lodigiani, ma vi voleano inserire la clausola _salva
imperatoris fidelitate_, stante il giuramento da essi fatto
all'imperadore con licenza degli stessi consoli di Milano. Ostinatisi i
Milanesi di volere una fedeltà senza eccezion di persone, e minacciando
l'esilio e la perdita dei beni, amò piuttosto quasi tutto quell'infelice
popolo di abbandonar le lor case e tenute, che di contravvenire al già
fatto giuramento; e si ritirò chi a Pizzighettone e chi a Cremona, ma
con lasciar molti d'essi la vita in quelle parti per le troppe miserie.
Compassionò forte l'imperadore lo stato infelice di quel popolo, e gli
assegnò un luogo presso il fiume Adda, appellato Monte Ghezone, per
potervi fabbricare la nuova loro città, giacchè il vecchio Lodi, lontano
di là quattro miglia, era stato diroccato dai Milanesi.
Mentre si tratteneva l'Augusto Federigo sul Lodigiano[2052], isperanzito
il _conte Echeberto_ di Butena di far qualche bel colpo, senza chiederne
licenza, si portò con circa mille cavalieri ben armati fin quasi alle
porte di Milano. Uscirono i Milanesi per dimandargli colle lance e spade
ciò che egli andasse cercando; ed attaccata la zuffa, che fu ben dura e
sanguinosa per l'una parte e per l'altra, restò in essa ucciso il conte
con _Giovanni duca_ di Traversara, il più nobile dell'esarcato di
Ravenna, e con altri. Si salvò con una veloce ritirata il rimanente de'
Tedeschi. Federigo condannò la di lui disubbidienza, e provvide per
l'avvenire. Aveva esso Augusto preventivamente mandato ordine pel regno
d'Italia[2053], che gli atti all'armi venissero all'oste per l'impresa
di Milano. Però giunsero colà assaissimi armati dalle città di _Parma,
Cremona, Pavia, Novara, Asti, Vercelli, Como, Vicenza, Trevigi, Padova,
Verona, Ferrara, Ravenna, Bologna, Reggio, Modena e Brescia_, e molti
altri della Toscana. Erano allora tutte queste città del regno d'Italia.
Sire Raul fa conto che ascendessero a quindici mila cavalli, e fosse
innumerabile la fanteria. Radevico solamente scrive che l'armata passava
i cento mila combattenti. Passò l'imperadore con questo potentissimo
esercito all'assedio di Milano, se crediamo a Radevico, nel dì 25 di
luglio; ma più meritano fede Ottone Morena, che scrive ciò fatto nel dì
6 d'agosto, e Sire Raul, che lo riferisce al dì 5 d'esso mese. Intorno
alla città fu divisa in varii campi e quartieri l'armata. Trovavasi
quella nobilissima città guernita di forti mura, di altissime torri, e
di una profonda fossa piena d'acqua corrente. Il suo giro, per quanto
scrive Radevico, era _più di cento stadii_; del che io dubiterei. Nulla
mancava ai cittadini di valore e di sperienza nell'armi per ben
difendersi. Fecero eglino una sortita vigorosa addosso ai Boemi,
accampati al monistero di san Dionisio; e vi fu aspro combattimento; ma
accorso l'imperadore con altre molte squadre, furono obbligati a
retrocedere in fretta. Aveano essi Milanesi posta gente alla difesa
dell'Arco romano, che non era già un castello, come immaginò il padre
Pagi, ma una fabbrica di quattro archi con torrione di sopra[2054],
composta di grossissimi marmi fuori di Porta romana. Vi alloggiavano
quaranta soldati, che per otto giorni bravamente vi si mantennero; ma
non potendo resistere al continuo tirare dei balestrieri, in fine si
renderono. Colà sopra fece poi l'imperadore mettere una petriera che
incomodava forte i Milanesi; ma questi, con opporne un'altra, fecero
sloggiare di là i Tedeschi. Non pochi altri fatti d'armi succederono,
che io tralascio. Cresceva intanto nella città la penuria de' viveri per
la gran gente che vi s'era rifugiata. Entrò anche una fiera epidemia in
quel popolo, la quale mieteva le vite di molti. La Martesana, il Seprio,
anzi tutte le castella e ville del distretto Milanese andavano a sacco,
scorrendo dappertutto i Tedeschi, con tagliare anche gli alberi e le
viti, ma più de' Tedeschi sfogando i Pavesi e Cremonesi la rabbia loro
contro le case e tenute degli emuli Milanesi. In tale stato si trovava
la misera città, quando _Guido conte_ di Biandrate, uomo saggio, e che
per l'onoratezza sua era egualmente amato e stimato da' Tedeschi che da'
Milanesi, entrato in città, con tale facondia perorò, che indusse que'
cittadini ad implorare la misericordia dell'Augusto sovrano. Vennero
dunque i consoli e primi della città a trovare il re di Boemia e il duca
d'Austria, i quali, interpostisi coll'imperadore, ottennero il perdono e
la pace colle condizioni che Radevico distesamente riferisce[2055]. Le
principali furono di lasciare in libertà Como e Lodi; di pagar nove mila
marche d'argento, in oro, argento o altra moneta[2056]; di dare trecento
ostaggi; di rilasciare i prigioni; che i consoli sarebbono confermati
dall'imperadore; che il comune di Milano dimetterebbe all'imperadore le
regalie, come la zecca e le gabelle; che si rimetterebbono i Cremaschi
in grazia d'esso Augusto col pagamento di cento venti marche.
Sottoscritta che fu dalle parti questa convenzione nel dì 7 di
settembre, l'arcivescovo e il clero colle reliquie, i consoli e la
nobiltà in veste positiva, co' piedi nudi e colle spade sopra il collo,
e la plebe colle corde al collo, vennero nel dì seguente a chiedere
perdono al vincitore Augusto[2057], il quale s'era allontanato quasi
quattro miglia dalla città per maggior fasto, ed affinchè passassero i
supplichevoli per mezzo ai soldati sfilati per tutta la strada. Furono
poi rilasciati dai Milanesi i prigioni, fra i quali si contarono mille
Pavesi. La bandiera dell'imperadore fu alzata nella torre della
metropolitana di Milano, che era la più alta di tutte le fabbriche di
Lombardia.
Poscia portatosi l'Augusto Federigo _apud Modoicum, sedem regni italici,
coronatur,_ cioè a Monza. Giudicai io[2058] una volta che queste parole
di Radevico indicassero conferita allora la corona del regno italico a
Federigo; ma, secondo le osservazioni fatte di sopra, altro non vogliono
significare se non che egli comparve in pubblico colla corona in capo.
_In die Nativitatis beatae Mariae Virginis imperiali diademate processit
coronatus_, dice l'Abbate Urspergense. Avea Turisendo, cittadino
veronese, occupato il castello regale di Garda, nè volendolo rendere i
Veronesi all'imperadore, giacchè il comandar colle lettere non giovava,
andò Federigo colà con un corpo di milizie, e, passato l'Adige, cominciò
le ostilità nel loro territorio: il che è da credere gl'inducesse ad
ubbidire. Volle poi ostaggi da tutte le città del regno; e tutte
gl'inviarono, fuorchè Ferrara. All'improvviso arrivò a quella città
_Ottone conte_ palatino di Baviera, e, dopo aver ivi regolate le
faccende, seco condusse quaranta Ferraresi per ostaggi. Tenne poi
Federigo in Roncaglia per la festa di san Martino la general dieta del
regno italico, dove intervennero tutti i vescovi, principe i consoli, e
furono anche chiamati gli allora quattro famosi lettori delle leggi
nello studio di Bologna, cioè _Bulgaro, Martino Gossia, Jacopo_ ed
_Ugone_ da Porta Ravegnana, tutti e quattro discepoli di quell'Irnerio
ossia Guarnieri che di sopra vedemmo primo interprete delle leggi in
Bologna. Interrogati costoro di chi fossero le regalie, cioè i ducati, i
marchesati, le contee, i consolati, le zecche, i dazii, le gabelle, i
porti, mulini, le pescagioni ed altri simili proventi: _Tutto, tutto_,
gridarono que' gran dottori, _è dell'imperadore_. E però niuno vi fu di
quei principi e signori, il quale, cedendo alla potenza, non dimettesse
le regalie in mano di Federigo. Egli ne rilasciò una parte a quei
solamente che con buoni documenti mostrarono di goderle per indulto e
concessione degl'imperadori. Fu giudicato il resto del fisco,
consistente in una rendita annua di trenta mila talenti. Nè si dee
tacere una particolarità, di cui poscia fu fatta strepitosa menzione da
molti legisti e storici. Cioè, che cavalcando un dì l'imperador Federigo
fra Bulgaro e Martino, due de' suddetti dottori, dimandò loro, s'egli
giuridicamente fosse _padrone del mondo_[2059]. Rispose Bulgaro, _che
non ne era padrone quanto alla proprietà_; ma il testardo Martino disse
_che sì_. Smontato poi l'imperadore, donò ad esso Martino il palafreno
su cui era stato: laonde Bulgaro disse poi queste parole: _Amisi equum,
quia dixi aequum, quod non fuit aequum_.
Guadagnò ben Federigo con poca fatica il dominio di tutto il mondo.
Sarebbe stato prima da vedere se i Franzesi, Spagnuoli, Inglesi, e molto
più se i Greci, Persiani, i Cinesi, ec. l'intendessero così. Ah che
l'adulazion sempre è stata e sempre sarà la ben veduta nelle corti dei
principi! Pubblicò poscia Federigo alcune leggi per la conservazion
della pace, e intorno ai feudi, con proibirne specialmente
l'alienazione, e il lasciargli alle chiese; il che operò che non più da
lì innanzi agli ecclesiastici, se non difficilmente, pervenissero
marchesati, contee, castella ed altri feudi. Portate le doglianze de'
Cremonesi dei danni loro inferiti dai Piacentini, contra di questi
ultimi, fu proferito il bando imperiale. Per liberarsene, convenne loro
pagar grossa somma di danaro, ed atterrare i bastioni fatti nei tre anni
addietro alla lor città, siccome ancora le antiche torri delle loro
mura. Levò inoltre Federigo Monza dalla suggezion di Milano; ed,
accostatosi ai confini del Genovesato, obbligò quel popolo a pagar mille
e dugento marche d'argento al suo fisco, e di dismettere la fabbrica
delle lor mura. Racconta Caffaro[2060], uno degli ambasciatori spediti a
Federigo dai Genovesi, le ragioni addotte in lor favore, per non
soggiacere alle rigorose leggi pubblicate allora dal fisco imperiale,
allegando massimamente le gravi spese occorrenti a quella città per
difendere quelle coste dai nemici dell'imperio: perlochè erano e
meritavano d'essere privilegiati. Sì fatte ragioni non furono addotte in
vano. Ma nulla dice Caffaro delle mura della città; anzi, secondo lui,
queste furono perfezionate nell'anno appresso. Grande imperadore,
insigne eroe, gridavano tutti i Tedeschi, allorchè videro con tanta
felicità imposto un sì pesante giogo da Federigo agli Italiani; ma fra
gl'Italiani coloro ancora che erano amici dell'imperadore, ne' lor cuori
ben diversamente parlavano.
Celebrò poi Federigo nella città di Alba il santo Natale; spedì alcuni
dei suoi principi a mettere i consoli nelle città. Ed avendo trovato che
le rendite dei beni della contessa Matilda erano state disperse e
trascurate dal _duca Guelfo_ suo zio, le raccolse e rendè al medesimo
duca. Tali furono le imprese di Federigo Barbarossa in quest'anno:
principe che s'era messo in pensiero di ridurre l'Italia presso a poco
come era al tempo dei Longobardi e de' Franchi, per non dire in
ischiavitù, e che cominciò a trovar la fortuna favorevole a così vasti
disegni. Neppure la Puglia andò in questi tempi esente da
turbolenze[2061]. _Andrea conte_ di Rupecanina, uno de' baroni
fuorusciti, di cui parlammo di sopra, dopo aver preso il contado di
Fondi ed altri luoghi, fatta l'Epifania di quest'anno, andò alla città
di San Germano, e se ne impadronì, con far prigioni circa dugento
soldati del _re Guglielmo_. Essendo fuggito il resto al monistero di
Monte Casino, passò colà Andrea, e diede più battaglie a quel luogo.
L'Anonimo Casinense scrive che nol potè avere. Giovanni da Ceccano,
nella Cronica di Fossanuova, attesta il contrario; ma amendue concordano
ch'egli nel seguente marzo, senza sapersene il motivo, abbandonò quelle
contrade, e ritirossi in Ancona, ubbidiente allora ai Greci. Intanto
_Manuello imperador_ d'essi Greci spedì una formidabil flotta da
Costantinopoli[2062], siccome fu creduto, a' danni del re di Sicilia.
Aveva il re Guglielmo anche egli allestita una potente flotta, la quale,
secondo l'asserzione del Dandolo[2063], inviata in Egitto, diede il
sacco alla città di Tani ossia Tanne alla foce del Nilo. Ma, udito il
movimento de' Greci[2064], venne Stefano ammiraglio d'essa flotta, e
fratello di Maione, in cerca dei nemici; e trovatili nell'Arcipelago,
tuttochè inferiore di forze, valorosamente gli assalì, e gloriosamente
gli sconfisse, con bruciar molti de' loro legni. Tale era allora il
valore e la potenza de' Siciliani. Rimase prigione in tal congiuntura
Costantino Angelo generale della greca flotta, e zio dell'imperadore,
con Alessio Comneno, Giovanni duca e molt'altra nobiltà e gente, che fu
inviata in Sicilia. Scorse poi la vittoriosa armata fino a Negroponte, a
cui diede il sacco; e dopo aver fatto altri mali alle contrade dei
Greci, se ne tornò trionfante in Sicilia nel mese di settembre. Servì
questa sconfitta ad abbassare talmente l'orgoglio dell'Augusto Manuello,
che sospirò da lì innanzi di aver pace col re Guglielmo. A questo fine
spedì egli ad Ancona Alessio Ausuca, uomo di gran destrezza, che
intavolò il trattato, e conchiuse una tregua per trent'anni fra esso
Guglielmo e l'Augusto greco: con che si può credere che fossero
rilasciati i prigioni fatti nella suddetta sconfitta.
NOTE:
[2046] Radevicus, de Gest. Frider. I, lib. 1, cap. 15.
[2047] Otto Morena, Histor. Laudens.
[2048] Abbas Urspergensis, in Chron.
[2049] Radevicus, de Gest. Friderici I, lib. 1, cap. 26.
[2050] Otto Morena, Sire Raul.
[2051] Abbas Urspergens., in Chronico.
[2052] Rad., lib. 1, cap. 31.
[2053] Caffari, Annal. Genuens., lib. 1, tom. 6 Rer. Ital. Sire Raul, in
Histor.
[2054] Radev. Otto Moren.
[2055] Radev., de Gest. Friderici I, lib. 1, cap. 41.
[2056] Caffari, Annal. Genuens., lib. 1, tom. 4 Rer. Italic.
[2057] Abbas Urspergens., in Chron. Otto Morena, Hist. Laud., tom. 6
Rer. Italic.
[2058] Commentar. de Corona Ferrea, tom. 2. Anecdot. Latin.
[2059] Otto Morena, in Histor. Laud., tom. 6 Rer. Italic.
[2060] Caffar., Annal. Genuens., lib. 1.
[2061] Anonymus Casinens., in Chron. Johann. de Ceccano, in Chron.
Fossaenovae.
[2062] Nicetas, in Hist.
[2063] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.
[2064] Romualdus Salernitanus, in Chron., tom. 7 Rer. Ital.
Anno di CRISTO MCLIX. Indizione VII.
ALESSANDRO III papa 1.
FEDERIGO I re 8, imperad. 5.
Insorsero sul principio di quest'anno principii di nuova discordia fra
papa _Adriano IV_ e L'Augusto _Federigo_. Radevico scrive[2065] che il
papa mendicava i pretesti per romperla, senza considerare se fossero
giuste o no le doglianze dello stesso pontefice. Lagnavasi Adriano dei
messi dell'imperadore, che con somma insolenza esigevano il fodro negli
Stati della Chiesa romana, e molto più perchè Federigo avesse coll'aspra
legge delle regalie non solamente aggravati i principi e le città
d'Italia, ma ancora i vescovi ed abbati. E intorno a ciò gli spedì una
lettera, che in apparenza parea amorevole, ma in sostanza era alquanto
risentita, per mezzo di una persona bassa, la quale appena l'ebbe
presentata, che se la colse. Essendo giovane allora Federigo,
l'alterigia si potea chiamare il suo primo mobile; però gli fumò forte
questa bravata. Accadde, che morto in questi giorni _Anselmo
arcivescovo_ di Ravenna, _Guido_ figliuolo del conte di Biandrate,
protetto dall'imperadore, fu eletto con voti concordi dal clero e popolo
di Ravenna per loro arcivescovo. Ma essendo egli cardinale suddiacono
della Chiesa romana, senza licenza speciale del papa non poteva passare
ad altra chiesa. Ne scrisse per questo l'imperadore ad Adriano, il quale
rispose con belle parole sì, ma senza volerlo compiacere. Sdegnato
Federigo, ordinò al suo cancelliere che da lì innanzi, scrivendo lettere
al papa, anteponesse il nome dell'imperadore, come si facea co' semplici
vescovi: rituale contrario all'uso di più secoli, e ingiurioso di troppo
alla santa Sede. Due lettere che rapporta il Baronio[2066] su questo
proposito, copiate dal Nauclero, l'una del papa all'imperadore, e
l'altra di Federigo al pontefice, a me sembrano fatture di qualche
ozioso dei secoli susseguenti, oppur finte allora da qualche sciocco
ingegno. In somma andavano crescendo i semi della discordia, e tanto più
perchè corse voce d'essere state intercette lettere del papa che
incitava di nuovo alla ribellione i Milanesi. Prese poi maggior fuoco la
contesa, perchè Adriano inviò a Federigo quattro cardinali, cioè
_Ottaviano_ prete del titolo di santa Cecilia, _Arrigo_ de' santi Nereo
ed Achilleo, _Guglielmo_ diacono e _Guido_ da Crema, anch'esso diacono
cardinale. Proposero questi varie pretensioni della corte romana, cioè
che l'imperadore non avesse a mandare suoi messi a Roma ad amministrar
giustizia, senza saputa del romano pontefice, perchè tutte le regalie e
i magistrati di Roma sono del papa. Che non si dovessero esigere fodro
dai beni patrimoniali della Chiesa romana, se non al tempo della
coronazione imperiale. Che i vescovi d'Italia avessero bensì da prestare
il giuramento di fedeltà all'imperadore, ma senza omaggio. Che i nunzii
dell'imperadore non alloggiassero per forza ne' palagi de' vescovi. Che
si avessero a restituire i poderi della Chiesa romana e i tributi di
Ferrara, Massa, Figheruolo, e di tutta la terra della contessa Matilda,
e di tutta quella che è da Acquapendente sino a Roma, e del ducato di
Spoleti, e della Corsica e Sardegna. Rispose Federigo che starebbe di
tali pretensioni al giudizio d'uomini saggi, al che i legati pontificii
non vollero acconsentire, per non sottomettere il pontefice all'altrui
giudizio. All'incontro pretendeva egli che Adriano avesse mancato alla
concordia stabilita, per cui era vietato il ricevere senza comune
consentimento ambasciatori greci, siciliani e romani; e che non fosse
permesso ai cardinali di andare per gli Stati imperiali senza permission
dell'imperadore, aggravando essi troppo le chiese; e che si mettesse
freno alle ingiuste appellazioni, con altre simili pretensioni e
querele. Non si trovò ripiego; e Federigo mostrò specialmente
dell'indignazione della prima proposizion dei legati, parendogli di
diventare un imperador dei Romani di solo nome e da scena, quando se gli
volessero levare ogni potere e dominio in Roma. Intanto assai informato
il senato romano di queste dissensioni, prese la palla al balzo per
rimettersi in grazia di Federigo, e gli spedì nunzii, che furono ben
ricevuti, con isprezzo e sfregio dell'autorità pontificia.
Ma da questi guai ed imbrogli del mondo venne la morte a liberare il
papa _Adriano IV_, il quale, se si ha da credere all'Abbate Urspergense
e a Sire Raul, avea giù conchiusa lega coi Milanesi, Piacentini e
Cremaschi contra di Federigo, meditando anche di fulminare contra di lui
la scomunica. Passò egli a miglior vita per infiammazion di gola nel
primo dì di settembre, mentre era alla villeggiatura d'Anagni, con
lasciar dopo di sè gran lode di pietà, di prudenza e di zelo, e molte
opere della sua pia e principesca liberalità. Ma da ben più gravi
malanni fu seguitata la morte sua. Nel dì 4 del mese suddetto, raunatisi
i vescovi e cardinali per dare un successore al defunto pontefice, dopo
tre giorni di scrutinio convennero nella persona di _Rolando_ da Siena,
prete cardinale del titolo di san Callisto, e cancelliere della santa
romana Chiesa[2067], che ripugnò forte, e prese in fine il nome di
_Alessandro III_. Univansi in questo personaggio le più eminenti virtù
morali, la dottrina e la sperienza del mondo, di maniera che tutti i
buoni il riguardarono tosto per un bel regalo fatto alla Chiesa di Dio;
ed anche san Bernardo, quando era in vita, ne avea conosciuto ed
esaltato il merito singolare. Ma l'ambizione del cardinal _Ottaviano_
quella fu che sconcertò così bella armonia, con dar principio e fomento
ad un detestabile scisma. V'ebbe segretamente mano anche Federigo, il
quale dacchè si mise in testa di aggirare ad un solo suo cenno tutta
l'Italia, conoscendo di qual importanza fosse l'avere amico e non nemico
il romano pontefice, si studiò di mettere sulla sedia di san Pietro una
persona a lui ben nota e confidente; e dovette preventivamente farne
maneggi non solamente allorchè Ottaviano fu alla sua corte, ma anche
allorchè i Romani nel precedente anno furono in sua grazia rimessi. Era
presente all'elezione suddetta esso Ottaviano cardinale di santa
Cecilia, di nazione Romano, ed ebbe anche pel pontificato due miseri
voti da _Giovanni_ cardinale di san Martino e da _Guido_ da Crema
cardinale di san Callisto. Costui invasato dalla voglia d'essere papa,
quando si vide deluso, strappò di dosso ad Alessandro il manto
pontificale, e sel mise egli furiosamente addosso; ma toltogli questo da
un senatore, se ne fece tosto portare un altro preparato da un suo
cappellano, e frettolosamente se ne coprì, ma al rovescio, mettendo al
collo ciò che dovea andare da piedi: il che dicono che eccitò le risa di
tutti, se pur vi fu chi potesse ridere a così orrida tragedia. Assunse
Ottaviano antipapa il nome di _Vittore IV_, e con guardie d'armati tenne
rinserrato il legittimo papa in un sito forte della basilica di san
Pietro insieme coi cardinali per molti giorni. Ma il popolo romano, non
potendo sofferire tanta iniquità, unito coi Frangipani rimise in libertà
Alessandro, il quale ritiratosi fuor di Roma con essi cardinali alla
terra di Ninfe, quivi fu consecrato papa dal vescovo d'Ostia nel dì 20
di settembre.
Attese intanto l'antipapa a guadagnar dei voti nel clero e popolo;
trasse dalla sua due vescovi, ed anche _Jomaro_ vescovo tuscolano, che
prima aveva eletto Alessandro, e da lui nel monistero di Farfa si fece
consecrare nella prima domenica di ottobre. Due altri cardinali si
veggono nominati per lui in una lettera rapportata dal cardinal
Baronio[2068]. Come prendesse questo affare l'imperador Federigo, si
accennerà fra poco, esigendo intanto il racconto che si parli prima di
una rotta fra lui e i Milanesi[2069]. Mandò egli nel gennaio del
presente anno a Milano _Rinaldo_ suo cancelliere, che fu poi arcivescovo
di Colonia, e _Ottone conte_ palatino di Baviera, per crear quivi un
podestà, ed abolire i consoli: rito che Federigo cominciò ad introdurre
nelle città italiane, molte delle quali per forza vi si accomodarono.
Erano esacerbati forte i Milanesi contra di questo imperadore, che
null'altro cercava tuttodì se non di abbatterli sempre più, e di mettere
loro addosso i piedi. Già gli avea spogliati del dominio di Como e di
Lodi nella capitolazione; poi contra la capitolazione avea smembrata dal
loro contado la nobil terra di Monza, e tutto il Seprio e la Martesana,
provincie da lungo tempo sottoposte a Milano. S'aggiunse quest'altra
pretensione, di non voler più che potessero eleggere i consoli; il che
era chiaramente contrario ai patti riferiti da Radevico, nei quali si
legge: _Venturi consules a populo eligantur, et ab ipso imperatore
confirmentur_. Diedero perciò nelle smanie i Milanesi, chiamando
Federigo mancator di parola, ed infuriati quasi misero le mani addosso
ai ministri imperiali, che si salvarono colla fuga. Il cancelliere
Rinaldo mai più loro non la perdonò. Similmente avea Federigo nello
stesso mese inviati i suoi messi a Crema, con intimare a quel popolo,
suddito o collegato de' Milanesi, che prima della festa della
Purificazion della Vergine avessero smantellate le mura e spianate le
fosse della lor terra. Ancor questo era contro ai patti; ma i Cremonesi,
per guadagnar questo punto, aveano promesso all'imperadore quindici mila
marche d'argento. A così inaspettata e dura proposizione i Cremaschi non
si poterono contenere; e dato all'armi, poco mancò che non trucidassero
i messi cesarei, i quali se ne scapparono a ragguagliar l'imperadore di
quanto era loro accaduto.
Federigo per allora dissimulò la sua collera. Ma nel dì 21 di marzo si
trovava egli in Luzzara, terra nel distretto di Reggio, dove confermò
tutti i suoi privilegii e diritti alla città di Mantova[2070]. Di là
venne a Bologna, dove celebrò la santa Pasqua nel dì 12 d'aprile. In
questo mentre i Milanesi, credendosi disobbligati dai patti, giacchè il
primo a romperli era stato Federigo, e considerando ch'egli amico non
macchinava se non la loro totale schiavitù e rovina, determinarono di
volerlo piuttosto nemico. Adunque nel sabbato dopo Pasqua andarono
coll'esercito loro all'assedio del castello di Trezzo, dove era un buon
presidio di Tedeschi. Talmente insisterono all'espugnazion di quel luogo
con un castello di legno, con petriere e continui assalti, che
v'entrarono vittoriosi. Fu dato il sacco, presa una gran somma di danaro
_Federigo duca_ di Suevia, figliuolo del re Corrado, _Corrado duca_
palatino del Reno suo fratello, con varii arcivescovi, marchesi e conti.
La prima città, in cui sul principio del mese di luglio si scaricò
questo terribil nembo d'armati, fu Brescia. Benchè forte di mura, benchè
provveduta di gran copia di forti cittadini[2047], fece ben qualche
opposizione sulle prime al re di Boemia, che non tardò a devastare i
suoi contorni; ma giunto che fu l'imperadore in persona, e fermatosi
circa quindici giorni in quelle parti, con saccheggiare e bruciar molte
castella e ville, mandarono i Bresciani a trattare d'accordo, e con
dargli sessanta ostaggi e una grossa somma di danaro, si procacciarono
il perdono e la pace da Federigo. Se vogliamo prestar fede al racconto
dell'Urspergense[2048] pagò quel popolo _sessantamila marche d'argento_;
ma forse quel _sessanta_ cade sopra gli ostaggi, sembrando eccessiva una
tal somma, giacchè vedremo in breve quanto meno costò ai Milanesi il
loro accordo. Stando sul Bresciano pubblicò l'Augusto Federigo le leggi
militari riferite da Radevico[2049], ed intimata la guerra contra di
Milano, fu consigliato dai savii e dottori d'allora a citar prima quel
popolo, per poter proferire legittimamente la sentenza contra di loro.
Comparvero gli avvocati milanesi, sfoderarono leggi e paragrafi con
grande eloquenza; ma a nulla servì. Fecero esibizione di molto danaro
all'imperadore, si raccomandarono a quanti principi vi erano: tutto
indarno. Convenne loro tornarsene colle mani vote, e nel consiglio de'
più valenti giurisconsulti d'Italia, chiamati colà, fu proferita contra
de' Milanesi la sentenza, e tutti messi al bando dell'imperio.
Incamminossi dipoi la formidabil armata alla volta dell'Adda, per
passarlo[2050]. Non v'era che il ponte di Cassano per cui si potesse
transitare; ma dall'altra parte del ponte v'era un buon corpo di
Milanesi con assaissimi villani alla guardia: sicchè si credette
disperato il passaggio. Ma venendo il re di Boemia e Corrado duca di
Dalmazia all'ingiù dietro il fiume, parve loro di avere scoperto un bel
guado; e senza pensarvi più che tanto, spinsero i cavalli nell'acqua.
Molti se ne annegarono, ma molti ancora salirono felicemente all'altra
riva. Visti costoro di là dal fiume, e portatone l'avviso ai Milanesi
che custodivano l'altra testa del ponte: addio, buon pro a chi ebbe
migliori le gambe. Allora con tutto suo comodo passò l'imperadore colla
nobiltà per quel ponte. Passò anche parte dell'esercito; ma sul più
bello una parte d'esso ponte pel troppo peso si ruppe, e precipitarono
in acqua molti cavalieri e scudieri. Quei poscia che erano già passati,
incalzarono i fuggitivi milanesi, ne uccisero alquanti, e molti ne
fecero prigioni. Ingrandì poi la fama talmente questo passaggio, che
l'Abbate Urspergense[2051] spacciò essersi accampato Federigo _juxta
flumen Padum_, in vece di dir presso l'_Adda_; e che mancandogli barca
da passare, salito a cavallo di un trave, sostenuto di qua e di là da
alcune aste, con pochi passò di là, ed assaliti i nemici, li mise in
fuga. Dovea lo storico pesar meglio sì bizzarro avvenimento. Recato a
Milano questo inaspettato avviso, quando si credeva che il fiume Adda
avesse a fermare i passi dell'armata nemica, riempiè di spavento, di
lagrime e d'urli il popolo imbelle, e cominciò a fuggire una gran
quantità d'uomini e donne plebee, e fino gl'infermi si faceano portar
fuori di città. Assediò Federigo il castello di Trezzo, e l'ebbe in poco
tempo a patti di buona guerra. Passò di là su quel di Lodi, ed eccoti
comparire alla sua presenza una folla di poveri Lodigiani in abito
compassionevole colle croci in mano, chiedendo giustizia contra de'
Milanesi che gli aveano cacciati dalle lor case e tolti i loro beni. Era
pur troppo la verità. Nell'antecedente gennaio aveano i Milanesi voluto
obbligare il popolo di Lodi a prestare un nuovo giuramento di fedeltà.
Erano pronti i Lodigiani, ma vi voleano inserire la clausola _salva
imperatoris fidelitate_, stante il giuramento da essi fatto
all'imperadore con licenza degli stessi consoli di Milano. Ostinatisi i
Milanesi di volere una fedeltà senza eccezion di persone, e minacciando
l'esilio e la perdita dei beni, amò piuttosto quasi tutto quell'infelice
popolo di abbandonar le lor case e tenute, che di contravvenire al già
fatto giuramento; e si ritirò chi a Pizzighettone e chi a Cremona, ma
con lasciar molti d'essi la vita in quelle parti per le troppe miserie.
Compassionò forte l'imperadore lo stato infelice di quel popolo, e gli
assegnò un luogo presso il fiume Adda, appellato Monte Ghezone, per
potervi fabbricare la nuova loro città, giacchè il vecchio Lodi, lontano
di là quattro miglia, era stato diroccato dai Milanesi.
Mentre si tratteneva l'Augusto Federigo sul Lodigiano[2052], isperanzito
il _conte Echeberto_ di Butena di far qualche bel colpo, senza chiederne
licenza, si portò con circa mille cavalieri ben armati fin quasi alle
porte di Milano. Uscirono i Milanesi per dimandargli colle lance e spade
ciò che egli andasse cercando; ed attaccata la zuffa, che fu ben dura e
sanguinosa per l'una parte e per l'altra, restò in essa ucciso il conte
con _Giovanni duca_ di Traversara, il più nobile dell'esarcato di
Ravenna, e con altri. Si salvò con una veloce ritirata il rimanente de'
Tedeschi. Federigo condannò la di lui disubbidienza, e provvide per
l'avvenire. Aveva esso Augusto preventivamente mandato ordine pel regno
d'Italia[2053], che gli atti all'armi venissero all'oste per l'impresa
di Milano. Però giunsero colà assaissimi armati dalle città di _Parma,
Cremona, Pavia, Novara, Asti, Vercelli, Como, Vicenza, Trevigi, Padova,
Verona, Ferrara, Ravenna, Bologna, Reggio, Modena e Brescia_, e molti
altri della Toscana. Erano allora tutte queste città del regno d'Italia.
Sire Raul fa conto che ascendessero a quindici mila cavalli, e fosse
innumerabile la fanteria. Radevico solamente scrive che l'armata passava
i cento mila combattenti. Passò l'imperadore con questo potentissimo
esercito all'assedio di Milano, se crediamo a Radevico, nel dì 25 di
luglio; ma più meritano fede Ottone Morena, che scrive ciò fatto nel dì
6 d'agosto, e Sire Raul, che lo riferisce al dì 5 d'esso mese. Intorno
alla città fu divisa in varii campi e quartieri l'armata. Trovavasi
quella nobilissima città guernita di forti mura, di altissime torri, e
di una profonda fossa piena d'acqua corrente. Il suo giro, per quanto
scrive Radevico, era _più di cento stadii_; del che io dubiterei. Nulla
mancava ai cittadini di valore e di sperienza nell'armi per ben
difendersi. Fecero eglino una sortita vigorosa addosso ai Boemi,
accampati al monistero di san Dionisio; e vi fu aspro combattimento; ma
accorso l'imperadore con altre molte squadre, furono obbligati a
retrocedere in fretta. Aveano essi Milanesi posta gente alla difesa
dell'Arco romano, che non era già un castello, come immaginò il padre
Pagi, ma una fabbrica di quattro archi con torrione di sopra[2054],
composta di grossissimi marmi fuori di Porta romana. Vi alloggiavano
quaranta soldati, che per otto giorni bravamente vi si mantennero; ma
non potendo resistere al continuo tirare dei balestrieri, in fine si
renderono. Colà sopra fece poi l'imperadore mettere una petriera che
incomodava forte i Milanesi; ma questi, con opporne un'altra, fecero
sloggiare di là i Tedeschi. Non pochi altri fatti d'armi succederono,
che io tralascio. Cresceva intanto nella città la penuria de' viveri per
la gran gente che vi s'era rifugiata. Entrò anche una fiera epidemia in
quel popolo, la quale mieteva le vite di molti. La Martesana, il Seprio,
anzi tutte le castella e ville del distretto Milanese andavano a sacco,
scorrendo dappertutto i Tedeschi, con tagliare anche gli alberi e le
viti, ma più de' Tedeschi sfogando i Pavesi e Cremonesi la rabbia loro
contro le case e tenute degli emuli Milanesi. In tale stato si trovava
la misera città, quando _Guido conte_ di Biandrate, uomo saggio, e che
per l'onoratezza sua era egualmente amato e stimato da' Tedeschi che da'
Milanesi, entrato in città, con tale facondia perorò, che indusse que'
cittadini ad implorare la misericordia dell'Augusto sovrano. Vennero
dunque i consoli e primi della città a trovare il re di Boemia e il duca
d'Austria, i quali, interpostisi coll'imperadore, ottennero il perdono e
la pace colle condizioni che Radevico distesamente riferisce[2055]. Le
principali furono di lasciare in libertà Como e Lodi; di pagar nove mila
marche d'argento, in oro, argento o altra moneta[2056]; di dare trecento
ostaggi; di rilasciare i prigioni; che i consoli sarebbono confermati
dall'imperadore; che il comune di Milano dimetterebbe all'imperadore le
regalie, come la zecca e le gabelle; che si rimetterebbono i Cremaschi
in grazia d'esso Augusto col pagamento di cento venti marche.
Sottoscritta che fu dalle parti questa convenzione nel dì 7 di
settembre, l'arcivescovo e il clero colle reliquie, i consoli e la
nobiltà in veste positiva, co' piedi nudi e colle spade sopra il collo,
e la plebe colle corde al collo, vennero nel dì seguente a chiedere
perdono al vincitore Augusto[2057], il quale s'era allontanato quasi
quattro miglia dalla città per maggior fasto, ed affinchè passassero i
supplichevoli per mezzo ai soldati sfilati per tutta la strada. Furono
poi rilasciati dai Milanesi i prigioni, fra i quali si contarono mille
Pavesi. La bandiera dell'imperadore fu alzata nella torre della
metropolitana di Milano, che era la più alta di tutte le fabbriche di
Lombardia.
Poscia portatosi l'Augusto Federigo _apud Modoicum, sedem regni italici,
coronatur,_ cioè a Monza. Giudicai io[2058] una volta che queste parole
di Radevico indicassero conferita allora la corona del regno italico a
Federigo; ma, secondo le osservazioni fatte di sopra, altro non vogliono
significare se non che egli comparve in pubblico colla corona in capo.
_In die Nativitatis beatae Mariae Virginis imperiali diademate processit
coronatus_, dice l'Abbate Urspergense. Avea Turisendo, cittadino
veronese, occupato il castello regale di Garda, nè volendolo rendere i
Veronesi all'imperadore, giacchè il comandar colle lettere non giovava,
andò Federigo colà con un corpo di milizie, e, passato l'Adige, cominciò
le ostilità nel loro territorio: il che è da credere gl'inducesse ad
ubbidire. Volle poi ostaggi da tutte le città del regno; e tutte
gl'inviarono, fuorchè Ferrara. All'improvviso arrivò a quella città
_Ottone conte_ palatino di Baviera, e, dopo aver ivi regolate le
faccende, seco condusse quaranta Ferraresi per ostaggi. Tenne poi
Federigo in Roncaglia per la festa di san Martino la general dieta del
regno italico, dove intervennero tutti i vescovi, principe i consoli, e
furono anche chiamati gli allora quattro famosi lettori delle leggi
nello studio di Bologna, cioè _Bulgaro, Martino Gossia, Jacopo_ ed
_Ugone_ da Porta Ravegnana, tutti e quattro discepoli di quell'Irnerio
ossia Guarnieri che di sopra vedemmo primo interprete delle leggi in
Bologna. Interrogati costoro di chi fossero le regalie, cioè i ducati, i
marchesati, le contee, i consolati, le zecche, i dazii, le gabelle, i
porti, mulini, le pescagioni ed altri simili proventi: _Tutto, tutto_,
gridarono que' gran dottori, _è dell'imperadore_. E però niuno vi fu di
quei principi e signori, il quale, cedendo alla potenza, non dimettesse
le regalie in mano di Federigo. Egli ne rilasciò una parte a quei
solamente che con buoni documenti mostrarono di goderle per indulto e
concessione degl'imperadori. Fu giudicato il resto del fisco,
consistente in una rendita annua di trenta mila talenti. Nè si dee
tacere una particolarità, di cui poscia fu fatta strepitosa menzione da
molti legisti e storici. Cioè, che cavalcando un dì l'imperador Federigo
fra Bulgaro e Martino, due de' suddetti dottori, dimandò loro, s'egli
giuridicamente fosse _padrone del mondo_[2059]. Rispose Bulgaro, _che
non ne era padrone quanto alla proprietà_; ma il testardo Martino disse
_che sì_. Smontato poi l'imperadore, donò ad esso Martino il palafreno
su cui era stato: laonde Bulgaro disse poi queste parole: _Amisi equum,
quia dixi aequum, quod non fuit aequum_.
Guadagnò ben Federigo con poca fatica il dominio di tutto il mondo.
Sarebbe stato prima da vedere se i Franzesi, Spagnuoli, Inglesi, e molto
più se i Greci, Persiani, i Cinesi, ec. l'intendessero così. Ah che
l'adulazion sempre è stata e sempre sarà la ben veduta nelle corti dei
principi! Pubblicò poscia Federigo alcune leggi per la conservazion
della pace, e intorno ai feudi, con proibirne specialmente
l'alienazione, e il lasciargli alle chiese; il che operò che non più da
lì innanzi agli ecclesiastici, se non difficilmente, pervenissero
marchesati, contee, castella ed altri feudi. Portate le doglianze de'
Cremonesi dei danni loro inferiti dai Piacentini, contra di questi
ultimi, fu proferito il bando imperiale. Per liberarsene, convenne loro
pagar grossa somma di danaro, ed atterrare i bastioni fatti nei tre anni
addietro alla lor città, siccome ancora le antiche torri delle loro
mura. Levò inoltre Federigo Monza dalla suggezion di Milano; ed,
accostatosi ai confini del Genovesato, obbligò quel popolo a pagar mille
e dugento marche d'argento al suo fisco, e di dismettere la fabbrica
delle lor mura. Racconta Caffaro[2060], uno degli ambasciatori spediti a
Federigo dai Genovesi, le ragioni addotte in lor favore, per non
soggiacere alle rigorose leggi pubblicate allora dal fisco imperiale,
allegando massimamente le gravi spese occorrenti a quella città per
difendere quelle coste dai nemici dell'imperio: perlochè erano e
meritavano d'essere privilegiati. Sì fatte ragioni non furono addotte in
vano. Ma nulla dice Caffaro delle mura della città; anzi, secondo lui,
queste furono perfezionate nell'anno appresso. Grande imperadore,
insigne eroe, gridavano tutti i Tedeschi, allorchè videro con tanta
felicità imposto un sì pesante giogo da Federigo agli Italiani; ma fra
gl'Italiani coloro ancora che erano amici dell'imperadore, ne' lor cuori
ben diversamente parlavano.
Celebrò poi Federigo nella città di Alba il santo Natale; spedì alcuni
dei suoi principi a mettere i consoli nelle città. Ed avendo trovato che
le rendite dei beni della contessa Matilda erano state disperse e
trascurate dal _duca Guelfo_ suo zio, le raccolse e rendè al medesimo
duca. Tali furono le imprese di Federigo Barbarossa in quest'anno:
principe che s'era messo in pensiero di ridurre l'Italia presso a poco
come era al tempo dei Longobardi e de' Franchi, per non dire in
ischiavitù, e che cominciò a trovar la fortuna favorevole a così vasti
disegni. Neppure la Puglia andò in questi tempi esente da
turbolenze[2061]. _Andrea conte_ di Rupecanina, uno de' baroni
fuorusciti, di cui parlammo di sopra, dopo aver preso il contado di
Fondi ed altri luoghi, fatta l'Epifania di quest'anno, andò alla città
di San Germano, e se ne impadronì, con far prigioni circa dugento
soldati del _re Guglielmo_. Essendo fuggito il resto al monistero di
Monte Casino, passò colà Andrea, e diede più battaglie a quel luogo.
L'Anonimo Casinense scrive che nol potè avere. Giovanni da Ceccano,
nella Cronica di Fossanuova, attesta il contrario; ma amendue concordano
ch'egli nel seguente marzo, senza sapersene il motivo, abbandonò quelle
contrade, e ritirossi in Ancona, ubbidiente allora ai Greci. Intanto
_Manuello imperador_ d'essi Greci spedì una formidabil flotta da
Costantinopoli[2062], siccome fu creduto, a' danni del re di Sicilia.
Aveva il re Guglielmo anche egli allestita una potente flotta, la quale,
secondo l'asserzione del Dandolo[2063], inviata in Egitto, diede il
sacco alla città di Tani ossia Tanne alla foce del Nilo. Ma, udito il
movimento de' Greci[2064], venne Stefano ammiraglio d'essa flotta, e
fratello di Maione, in cerca dei nemici; e trovatili nell'Arcipelago,
tuttochè inferiore di forze, valorosamente gli assalì, e gloriosamente
gli sconfisse, con bruciar molti de' loro legni. Tale era allora il
valore e la potenza de' Siciliani. Rimase prigione in tal congiuntura
Costantino Angelo generale della greca flotta, e zio dell'imperadore,
con Alessio Comneno, Giovanni duca e molt'altra nobiltà e gente, che fu
inviata in Sicilia. Scorse poi la vittoriosa armata fino a Negroponte, a
cui diede il sacco; e dopo aver fatto altri mali alle contrade dei
Greci, se ne tornò trionfante in Sicilia nel mese di settembre. Servì
questa sconfitta ad abbassare talmente l'orgoglio dell'Augusto Manuello,
che sospirò da lì innanzi di aver pace col re Guglielmo. A questo fine
spedì egli ad Ancona Alessio Ausuca, uomo di gran destrezza, che
intavolò il trattato, e conchiuse una tregua per trent'anni fra esso
Guglielmo e l'Augusto greco: con che si può credere che fossero
rilasciati i prigioni fatti nella suddetta sconfitta.
NOTE:
[2046] Radevicus, de Gest. Frider. I, lib. 1, cap. 15.
[2047] Otto Morena, Histor. Laudens.
[2048] Abbas Urspergensis, in Chron.
[2049] Radevicus, de Gest. Friderici I, lib. 1, cap. 26.
[2050] Otto Morena, Sire Raul.
[2051] Abbas Urspergens., in Chronico.
[2052] Rad., lib. 1, cap. 31.
[2053] Caffari, Annal. Genuens., lib. 1, tom. 6 Rer. Ital. Sire Raul, in
Histor.
[2054] Radev. Otto Moren.
[2055] Radev., de Gest. Friderici I, lib. 1, cap. 41.
[2056] Caffari, Annal. Genuens., lib. 1, tom. 4 Rer. Italic.
[2057] Abbas Urspergens., in Chron. Otto Morena, Hist. Laud., tom. 6
Rer. Italic.
[2058] Commentar. de Corona Ferrea, tom. 2. Anecdot. Latin.
[2059] Otto Morena, in Histor. Laud., tom. 6 Rer. Italic.
[2060] Caffar., Annal. Genuens., lib. 1.
[2061] Anonymus Casinens., in Chron. Johann. de Ceccano, in Chron.
Fossaenovae.
[2062] Nicetas, in Hist.
[2063] Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.
[2064] Romualdus Salernitanus, in Chron., tom. 7 Rer. Ital.
Anno di CRISTO MCLIX. Indizione VII.
ALESSANDRO III papa 1.
FEDERIGO I re 8, imperad. 5.
Insorsero sul principio di quest'anno principii di nuova discordia fra
papa _Adriano IV_ e L'Augusto _Federigo_. Radevico scrive[2065] che il
papa mendicava i pretesti per romperla, senza considerare se fossero
giuste o no le doglianze dello stesso pontefice. Lagnavasi Adriano dei
messi dell'imperadore, che con somma insolenza esigevano il fodro negli
Stati della Chiesa romana, e molto più perchè Federigo avesse coll'aspra
legge delle regalie non solamente aggravati i principi e le città
d'Italia, ma ancora i vescovi ed abbati. E intorno a ciò gli spedì una
lettera, che in apparenza parea amorevole, ma in sostanza era alquanto
risentita, per mezzo di una persona bassa, la quale appena l'ebbe
presentata, che se la colse. Essendo giovane allora Federigo,
l'alterigia si potea chiamare il suo primo mobile; però gli fumò forte
questa bravata. Accadde, che morto in questi giorni _Anselmo
arcivescovo_ di Ravenna, _Guido_ figliuolo del conte di Biandrate,
protetto dall'imperadore, fu eletto con voti concordi dal clero e popolo
di Ravenna per loro arcivescovo. Ma essendo egli cardinale suddiacono
della Chiesa romana, senza licenza speciale del papa non poteva passare
ad altra chiesa. Ne scrisse per questo l'imperadore ad Adriano, il quale
rispose con belle parole sì, ma senza volerlo compiacere. Sdegnato
Federigo, ordinò al suo cancelliere che da lì innanzi, scrivendo lettere
al papa, anteponesse il nome dell'imperadore, come si facea co' semplici
vescovi: rituale contrario all'uso di più secoli, e ingiurioso di troppo
alla santa Sede. Due lettere che rapporta il Baronio[2066] su questo
proposito, copiate dal Nauclero, l'una del papa all'imperadore, e
l'altra di Federigo al pontefice, a me sembrano fatture di qualche
ozioso dei secoli susseguenti, oppur finte allora da qualche sciocco
ingegno. In somma andavano crescendo i semi della discordia, e tanto più
perchè corse voce d'essere state intercette lettere del papa che
incitava di nuovo alla ribellione i Milanesi. Prese poi maggior fuoco la
contesa, perchè Adriano inviò a Federigo quattro cardinali, cioè
_Ottaviano_ prete del titolo di santa Cecilia, _Arrigo_ de' santi Nereo
ed Achilleo, _Guglielmo_ diacono e _Guido_ da Crema, anch'esso diacono
cardinale. Proposero questi varie pretensioni della corte romana, cioè
che l'imperadore non avesse a mandare suoi messi a Roma ad amministrar
giustizia, senza saputa del romano pontefice, perchè tutte le regalie e
i magistrati di Roma sono del papa. Che non si dovessero esigere fodro
dai beni patrimoniali della Chiesa romana, se non al tempo della
coronazione imperiale. Che i vescovi d'Italia avessero bensì da prestare
il giuramento di fedeltà all'imperadore, ma senza omaggio. Che i nunzii
dell'imperadore non alloggiassero per forza ne' palagi de' vescovi. Che
si avessero a restituire i poderi della Chiesa romana e i tributi di
Ferrara, Massa, Figheruolo, e di tutta la terra della contessa Matilda,
e di tutta quella che è da Acquapendente sino a Roma, e del ducato di
Spoleti, e della Corsica e Sardegna. Rispose Federigo che starebbe di
tali pretensioni al giudizio d'uomini saggi, al che i legati pontificii
non vollero acconsentire, per non sottomettere il pontefice all'altrui
giudizio. All'incontro pretendeva egli che Adriano avesse mancato alla
concordia stabilita, per cui era vietato il ricevere senza comune
consentimento ambasciatori greci, siciliani e romani; e che non fosse
permesso ai cardinali di andare per gli Stati imperiali senza permission
dell'imperadore, aggravando essi troppo le chiese; e che si mettesse
freno alle ingiuste appellazioni, con altre simili pretensioni e
querele. Non si trovò ripiego; e Federigo mostrò specialmente
dell'indignazione della prima proposizion dei legati, parendogli di
diventare un imperador dei Romani di solo nome e da scena, quando se gli
volessero levare ogni potere e dominio in Roma. Intanto assai informato
il senato romano di queste dissensioni, prese la palla al balzo per
rimettersi in grazia di Federigo, e gli spedì nunzii, che furono ben
ricevuti, con isprezzo e sfregio dell'autorità pontificia.
Ma da questi guai ed imbrogli del mondo venne la morte a liberare il
papa _Adriano IV_, il quale, se si ha da credere all'Abbate Urspergense
e a Sire Raul, avea giù conchiusa lega coi Milanesi, Piacentini e
Cremaschi contra di Federigo, meditando anche di fulminare contra di lui
la scomunica. Passò egli a miglior vita per infiammazion di gola nel
primo dì di settembre, mentre era alla villeggiatura d'Anagni, con
lasciar dopo di sè gran lode di pietà, di prudenza e di zelo, e molte
opere della sua pia e principesca liberalità. Ma da ben più gravi
malanni fu seguitata la morte sua. Nel dì 4 del mese suddetto, raunatisi
i vescovi e cardinali per dare un successore al defunto pontefice, dopo
tre giorni di scrutinio convennero nella persona di _Rolando_ da Siena,
prete cardinale del titolo di san Callisto, e cancelliere della santa
romana Chiesa[2067], che ripugnò forte, e prese in fine il nome di
_Alessandro III_. Univansi in questo personaggio le più eminenti virtù
morali, la dottrina e la sperienza del mondo, di maniera che tutti i
buoni il riguardarono tosto per un bel regalo fatto alla Chiesa di Dio;
ed anche san Bernardo, quando era in vita, ne avea conosciuto ed
esaltato il merito singolare. Ma l'ambizione del cardinal _Ottaviano_
quella fu che sconcertò così bella armonia, con dar principio e fomento
ad un detestabile scisma. V'ebbe segretamente mano anche Federigo, il
quale dacchè si mise in testa di aggirare ad un solo suo cenno tutta
l'Italia, conoscendo di qual importanza fosse l'avere amico e non nemico
il romano pontefice, si studiò di mettere sulla sedia di san Pietro una
persona a lui ben nota e confidente; e dovette preventivamente farne
maneggi non solamente allorchè Ottaviano fu alla sua corte, ma anche
allorchè i Romani nel precedente anno furono in sua grazia rimessi. Era
presente all'elezione suddetta esso Ottaviano cardinale di santa
Cecilia, di nazione Romano, ed ebbe anche pel pontificato due miseri
voti da _Giovanni_ cardinale di san Martino e da _Guido_ da Crema
cardinale di san Callisto. Costui invasato dalla voglia d'essere papa,
quando si vide deluso, strappò di dosso ad Alessandro il manto
pontificale, e sel mise egli furiosamente addosso; ma toltogli questo da
un senatore, se ne fece tosto portare un altro preparato da un suo
cappellano, e frettolosamente se ne coprì, ma al rovescio, mettendo al
collo ciò che dovea andare da piedi: il che dicono che eccitò le risa di
tutti, se pur vi fu chi potesse ridere a così orrida tragedia. Assunse
Ottaviano antipapa il nome di _Vittore IV_, e con guardie d'armati tenne
rinserrato il legittimo papa in un sito forte della basilica di san
Pietro insieme coi cardinali per molti giorni. Ma il popolo romano, non
potendo sofferire tanta iniquità, unito coi Frangipani rimise in libertà
Alessandro, il quale ritiratosi fuor di Roma con essi cardinali alla
terra di Ninfe, quivi fu consecrato papa dal vescovo d'Ostia nel dì 20
di settembre.
Attese intanto l'antipapa a guadagnar dei voti nel clero e popolo;
trasse dalla sua due vescovi, ed anche _Jomaro_ vescovo tuscolano, che
prima aveva eletto Alessandro, e da lui nel monistero di Farfa si fece
consecrare nella prima domenica di ottobre. Due altri cardinali si
veggono nominati per lui in una lettera rapportata dal cardinal
Baronio[2068]. Come prendesse questo affare l'imperador Federigo, si
accennerà fra poco, esigendo intanto il racconto che si parli prima di
una rotta fra lui e i Milanesi[2069]. Mandò egli nel gennaio del
presente anno a Milano _Rinaldo_ suo cancelliere, che fu poi arcivescovo
di Colonia, e _Ottone conte_ palatino di Baviera, per crear quivi un
podestà, ed abolire i consoli: rito che Federigo cominciò ad introdurre
nelle città italiane, molte delle quali per forza vi si accomodarono.
Erano esacerbati forte i Milanesi contra di questo imperadore, che
null'altro cercava tuttodì se non di abbatterli sempre più, e di mettere
loro addosso i piedi. Già gli avea spogliati del dominio di Como e di
Lodi nella capitolazione; poi contra la capitolazione avea smembrata dal
loro contado la nobil terra di Monza, e tutto il Seprio e la Martesana,
provincie da lungo tempo sottoposte a Milano. S'aggiunse quest'altra
pretensione, di non voler più che potessero eleggere i consoli; il che
era chiaramente contrario ai patti riferiti da Radevico, nei quali si
legge: _Venturi consules a populo eligantur, et ab ipso imperatore
confirmentur_. Diedero perciò nelle smanie i Milanesi, chiamando
Federigo mancator di parola, ed infuriati quasi misero le mani addosso
ai ministri imperiali, che si salvarono colla fuga. Il cancelliere
Rinaldo mai più loro non la perdonò. Similmente avea Federigo nello
stesso mese inviati i suoi messi a Crema, con intimare a quel popolo,
suddito o collegato de' Milanesi, che prima della festa della
Purificazion della Vergine avessero smantellate le mura e spianate le
fosse della lor terra. Ancor questo era contro ai patti; ma i Cremonesi,
per guadagnar questo punto, aveano promesso all'imperadore quindici mila
marche d'argento. A così inaspettata e dura proposizione i Cremaschi non
si poterono contenere; e dato all'armi, poco mancò che non trucidassero
i messi cesarei, i quali se ne scapparono a ragguagliar l'imperadore di
quanto era loro accaduto.
Federigo per allora dissimulò la sua collera. Ma nel dì 21 di marzo si
trovava egli in Luzzara, terra nel distretto di Reggio, dove confermò
tutti i suoi privilegii e diritti alla città di Mantova[2070]. Di là
venne a Bologna, dove celebrò la santa Pasqua nel dì 12 d'aprile. In
questo mentre i Milanesi, credendosi disobbligati dai patti, giacchè il
primo a romperli era stato Federigo, e considerando ch'egli amico non
macchinava se non la loro totale schiavitù e rovina, determinarono di
volerlo piuttosto nemico. Adunque nel sabbato dopo Pasqua andarono
coll'esercito loro all'assedio del castello di Trezzo, dove era un buon
presidio di Tedeschi. Talmente insisterono all'espugnazion di quel luogo
con un castello di legno, con petriere e continui assalti, che
v'entrarono vittoriosi. Fu dato il sacco, presa una gran somma di danaro
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