Annali d'Italia, vol. 3 - 31

Dandolo[692], il più antico ed accurato degli storici veneziani, ci
rappresenta questi dogi con un differente aspetto, siccome vedremo
all'anno seguente. Intanto coll'autorità del medesimo Dandolo dirò che
_Fortunato patriarca di Grado_, già fuggito in Francia, ritornò in
Istria insieme con _Cristoforo d'Olivola_, e non attentandosi di andare
a Venezia, si fermò in Torcello. _Giovanni_, usurpatore dal vescovato di
Olivola, incautamente capitò colà, e fu messo in prigione, ma trovata
poi la maniera di fuggirsene, tornò a Venezia, e con rappresentare ai
dogi il trattamento a lui fatto, maggiormente gli attizzò contra del
patriarca. Ma qualora Torcello in questi anni fosse stato dipendente dal
ducato di Venezia, non sarebbe già probabile la dimora colà di Fortunato
patriarca. Noi abbiamo la lettera undecima[693] di papa Leone III
scritta a Carlo Magno, dove si parla d'esso Fortunato, che stava in
esilio in Francia _proter persecutionem Graecorum seu Veneticorum_. Fece
egli istanza ad esso Carlo di poter venir ad abitare nella città di Pola
e governar quella Chiesa vacante. Ne scrisse Carlo al papa, il quale
rispose d'esserne contento, purchè il patriarca, quando mai riuscisse ad
esso imperadore di rimetterlo nella sua sedia di Grado, lasciasse
intatti e liberi tutti i beni e diritti della Chiesa di Pola, in favore
del vescovo che quivi potesse essere eletto. Per altro soggiugne d'aver
poco buone informazioni d'esso patriarca, come di persona mal provveduta
di costumi ecclesiastici; e che se i cortigiani gliel lodavano, era
perchè i regali li faceano parlare.
In quest'anno poi l'imperador Carlo spedì il figliuolo _Carlo_ con
un'armata[694] contra degli Sclavi Sorabi, dimoranti di là dal fiume
Elba. In questa spedizione _Miliduco_, capitano e duca di quella
nazione, restò morto, e un gran guasto si fece di campagne e città:
laonde si trattò di pace, e que' popoli si sottomisero. Fu anche inviato
in quest'anno ai danni della Boemia un esercito composto di Bavaresi,
Alamanni e Borgognoni, che dato un nuovo guasto a gran tratto di quel
paese, se ne tornarono poi a casa senza aver provato incontro o danno
alcuno. Il _re Lodovico_ anch'egli fece una spedizion militare contra
de' Mori spagnuoli in Catalogna, che mise a ferro e fuoco quel paese
fino a Tortosa. Una gran perdita fece in quest'anno il ducato di
Benevento, perchè venne a morte _Grimoaldo_ principe, ossia duca di
quelle contrade, dotato di rara accortezza e senno, e di non minor
valore, a cui nè la forza de' Greci, nè la potenza maggiore di Carlo
Magno e di Pippino re d'Italia giunsero con tutti i loro sforzi e
maneggi al vanto di averlo potuto spogliare della sovranità e
indipendenza negli ampii suoi stati. L'Annalista lambeciano mette la di
lui morte sotto quest'anno; e Camillo Pellegrino[695] anch'egli
consente; e però l'Annalista sassone, che la riferisce allo anno
susseguente, verisimilmente non è qui da ascoltare. Riscosse Grimoaldo
in morendo un universal tributo di lagrime dai suoi popoli, e le lodi
sue si leggono nell'epitaffio a lui posto in Salerno, dove ebbe
sepoltura, a noi conservato dallo Anonimo salernitano[696]. Ivi si dice
che egli era della stirpe de' _Longobardi_, e riportò vittoria de'
Greci. Si aggiugne dipoi:
PERTVLIT ADVERSAS FRANCORVM SAEPE PHALANGAS
SALVAVIT PATRIAM SED BENEVENTE TVAM.
SED QVID PLVRA FERAM? GALLORVM FORTIA REGNA
NON VALVERE HVJVS SVBDERE COLLA SIBI.
Perchè questo principe mancò di vita[697] senza lasciar dopo di sè prole
maschile, fu eletto per suo successore un altro _Grimoaldo_ già suo
tesoriere, cognominato _Storesaiz_. L'Anonimo salernitano ci spiega
questa parola, con dire al cap. 29: _Defuncto itaque Grimoald, Ildrici
filius Grimoald (qui lingua theodisca, qua olim Langobardi utebantur,
Storeseyz fuit appellatus; et nos in nostro eloquio: Qui ante obtutum
principum et regum milites hinc inde sedendo praeordinat, possumus
vocilare) in principali dignitate est elevatus_. Di costui dice gran
bene Erchemperto, all'incontro gran male l'Anonimo salernitano, siccome
vedremo andando innanzi. Si vuol anche avvertire che fra i regolamenti
fatti da Carlo Magno per l'Italia, vi fu ancora quello della zecca, cioè
il privilegio e diritto di battere moneta. Di questo godeva ab antiquo
la città di _Roma_, e i romani pontefici cominciarono a battere soldi e
denari d'oro, d'argento e di rame col nome proprio e con quello
dell'imperadore sovrano. Altrettanto faceano _Pavia_ e _Milano_, e
_Lucca_ nella Toscana. Ho io ultimamente scoperto che la città di
_Trivigi_ avea anch'essa la zecca pel ducato del Friuli. Verisimilmente
anche _Spoleti_ godea la stessa prerogativa, ma senza che fin qui moneta
si sia trovata spettante a quel ducato. Non vollero essere da meno i
principi di _Benevento_, siccome quelli che si sforzarono di ritenere la
sovranità: però si truovano anche le loro monete. In questo secolo
ancora, oppure nel susseguente, anche i dogi di _Venezia_ cominciarono a
battere moneta, siccome parimente i duchi di _Napoli_. Di tutto ciò ho
io recate le pruove nelle mie Antichità italiane[698].
NOTE:
[684] Baron., Annal. Eccl.
[685] Baluz., Capitular., tom. 1, p. 439.
[686] Johann. Lucius, de Regno Dalmat. lib. 1.
[687] Antiquit. Ital., Dissert. XXI.
[688] Chron. Farfense, P. II, tom. 2 Rer. Ital.
[689] Campelli, Storia di Spoleti, lib. 15.
[690] Antiquit. Ital., Dissert. LXVII.
[691] Mabill., Annal. Benedictin. ad ann. 806.
[692] Dandulus, in Chron., tom. 12 Rer. Italic.
[693] Labbe, Concilior., tom. 7.
[694] Annal. Francor. Metenses. Eginhard., in Annal. Francor. Annal.
Francor., Moissiacens.
[695] Peregrinus, Hist. Princ. Langobard. P. I, tom. 2 Rer. Ital.
[696] Anonymus Salernit. Paralipomen. P. II, tom. 2 Rer. Ital.
[697] Erchempertus, Hist. Princip. Langobard.
[698] Antiquit. Ital., Dissert. XXVII.


Anno di CRISTO DCCCVII. Indizione XV.
LEONE III papa 13.
CARLO MAGNO imperadore 8.
PIPPINO re d'Italia 27.

Secondo l'attestato di tutti gli Annali de' Franchi[699], vennero in
quest'anno a trovar _Carlo imperadore_ in Aquisgrana gli ambasciatori di
_Abdela_ re di Persia e califa de' Saraceni, insieme con due monaci,
spediti dal patriarca di Gerusalemme. Nel nome di questo re pare ad
alcuni che abbiano fallato quegli storici, perchè allora dominava
tuttavia in Persia _Aronne_, sopra da noi memorato. Nulladimeno è da
osservare, che morto Aronne, per quanto si crede nell'anno seguente, fu
disputato quel regno fra _Almanana_ e _Abdela_ suoi figliuoli, per
attestato di Elmacino; e però potrebbe essere che piuttosto in
quest'anno fosse mancato di vita _Aronne_, e che _Abdela_ cercasse
l'amicizia di Carlo Magno. Portarono costoro dei sontuosi regali a
Carlo, cioè un padiglione col suo atrio di mirabil grandezza e bellezza,
tutto di bisso, fino le corde; e dei drappi di seta, odori, unguenti e
balsami preziosi. Soprattutto cagionò ammirazione un orologio di ottone
mirabilmente lavorato, che coll'acqua misurava il corso di dodici ore,
avendo altrettante palle di bronzo che, terminata un'ora, cadevano sopra
un sottoposto tamburo con farlo sonare. Eranvi ancora dodici statuette
d'uomini a cavallo, che, compiuta cadauna ora, uscivano fuori per dodici
finestre, e con tal empito uscivano, che chiudevano altrettante finestre
che prima erano aperte. Altri ingegnosi lavori si miravano in
quell'orologio, che, siccome cose non più vedute in Occidente, diedero
un gran pascolo alla curiosità della gente. Eranvi ancora due
candellieri d'ottone di sterminata grandezza ed altezza. Spedì poscia in
questo anno l'Augusto Carlo Burcardo suo contestabile con una flotta ed
assai brigate di soldati in Corsica, isola già venuta in suo dominio,
acciocchè la difendesse dai Mori di Spagna, che negli anni addietro
erano più volte sbarcati colà, ed avevano fatto varii saccheggi in quel
paese. Tornarono infatti costoro al solito lor giuoco, e prima si
provarono di bottinar nella Sardegna, ma i Sardi sì bravamente uscirono
alla battaglia, che fama corse d'essere rimasti estinti nel campo circa
tremila di quegl'infedeli. Passarono dipoi in Corsica, e con loro venne
alle mani Burcardo colla sua flotta. Quivi ancora restarono sconfitti
colla perdita di tredici navi, e con lasciarvi molti morti e feriti.
Merita qui d'essere registrato un passo della lettera ottava[700]
scritta da papa Leone a Carlo Magno, da cui pare che si ricavi, avere
esso imperadore donata alla santa Chiesa romana anche la suddetta isola
di _Corsica_; e però vien pregato dal papa di prenderne la difesa. _De
autem insula Corsica_, dice egli, _unde et in scriptis et per missos
vestros nobis emisistis, in vestrum arbitrium et dispositum committimus,
atque in ore posuimus Helmengaudi comitis, ut vestra donatio semper
firma et stabilis permaneat, et insidiis inimicorum tuta persistat_. Se
avesse effetto questa donazione, l'andremo cercando nel proseguimento
della storia. Quando poi appartenesse a questi tempi (il che io non so)
la lettera suddetta, da essa ancora apprenderemmo che il _re Pippino_
pensava di portarsi a Roma dopo Pasqua; laonde papa Leone si preparava
per fargli un degno accoglimento. Il motivo di questo viaggio era per
dar fine ad alcuni dissapori insorti fra esso papa e il medesimo re
Pippino, probabilmente a cagion della giurisdizione, o dei confini.
_Ubi_ (scrive Leone) _ambobus placuisset, nobis obviam occurrisset_
(Pippino)_; ut quod vos omni modo optatis, cum Dei adjutorio veniat ad
perfectionem: idest ut pax et concordia inter nos firma et stabilis
constituatur._ Protesta poi di non avere alcun mal animo col re Pippino,
e provenir la voce della discordia dai seminatori di zizzanie che
faceano de' falsi rapporti all'Augusto Carlo e a Pippino suo figliuolo.
Duravano tuttavia, forse anche andavano crescendo le dissensioni già
insorte nel popolo di Venezia e nelle città marittime della Dalmazia, sì
per i maneggi segreti di _Fortunato patriarca di Grado_, il quale s'era
messo in braccio de' Franzesi, come per le minacce o controversie mosse
da Pippino re d'Italia, il quale avea tuttodì in mente dei nuovi
acquisti. La corte di Costantinopoli, che non trascurava i suoi diritti
in quelle parti, spedì colà _Niceta patrizio_ con una armata navale, che
si fermò nella città di Venezia. Quivi stando quello stuolo, il greco
comandante trattò di tregua col re Pippino, e la conchiuse sino al mese
di agosto: dopo di che si restituì a Costantinopoli. Le notizie, che di
questi fatti ebbe il Dandolo[701], sono, che al patriarca Fortunato
riuscì in fine di tornarsene alla sua chiesa di Grado dopo aver placato
lo sdegno de' suoi compatrioti. Ma giunto che fu in quelle bande Niceta
patrizio colla flotta, portando soccorso ai Veneziani, il patriarca di
nuovo scappò in Francia per timore de' Greci; laonde Giovanni diacono,
che già avea usurpato il vescovato d'Olivola, si fece tosto eleggere
patriarca (coll'appoggio del greco ministro, e forse per ordin suo),
quasichè quella chiesa fosse restata vacante. Oltre a ciò, Niceta, per
maggiormente attaccare all'imperio orientale i dogi di Venezia, allorchè
si portò colà, presentò al doge _Obelerio_ la patente di _spatario
imperiale_. Parimente _Beato_ doge, fratello dell'altro, per consiglio
dei Veneziani, andò col patrizio Niceta per la seconda volta sino a
Costantinopoli, seco menando _Cristoforo vescovo d'Olivola_, cioè della
stessa Venezia, e Felice tribuno, banditi da essa Venezia, perchè pareva
che aderissero al partito de' Franchi. Fu ricevuto con molto onore Beato
da Niceforo Augusto ed essendo stato onorato col titolo di _ipato_,
ossia di _console_, se ne ritornò tutto lieto alla patria. Amendue poi
questi dogi ottennero dal popolo che _Valentino_ terzo loro fratello
fosse anche egli costituito _doge_. Dalle memorie del monistero farfense
si ha[702] che Ardemanno e Gaidualdo _missi Karoli imperatoris, et domni
regis Pipini_, giudicarono nella città di Rieti una causa in favore di
que' monaci. _Rieti_ era città del ducato di Spoleti.
NOTE:
[699] Eginhardus, Annal. Franc. Annales Franc. Bertiniani. Annales
Franc. Metenses.
[700] Labbe, Concilior., tom. 7.
[701] Dandulus, in Chron., tom. 12 Rer. Italic.
[702] Antiquit. Ital., Dissert. LXVII.


Anno di CRISTO DCCCVIII. Indizione I.
LEONE III papa 14.
CARLO MAGNO imperadore 9.
PIPPINO re d'Italia 28.

Servì di esercizio in quest'anno alle milizie di Carlo imperadore la
guerra insorta con _Gotifredo re di Danimarca_[703]. Mosse questi le sue
armi contra gli Sclavi Obotriti, collegati de' Franchi, e minacciava
ancora i confini della Sassonia. Fu dunque spedito contra di lui il
principe o re _Carlo_, primogenito d'esso imperadore, con un forte
esercito di Franchi e Sassoni. Venne bensì fatto al suddetto Gotifredo
di spignere fuor del paese _Trasicone_ re o duca degli Obotriti, e di
espugnar molte castella; ma con pagar caro queste prodezze, perchè vi
perdette un suo nipote coi suoi migliori soldati. Il principe Carlo,
dopo aver fatto delle scorrerie nel paese nemico, formato ed assicurato
con due fortezze un ponte sull'Elba, se ne ritornò indietro coll'armata
sana e salva. Essendo intanto stato cacciato dal suo regno _Eardulfo re
di Nortumbria_ nella gran Bretagna, venne egli a trovare Carlo Magno,
che l'indirizzò a Roma a _papa Leone_, avendo, come io credo, conosciuto
che la di lui disgrazia era proceduta dalla mala intelligenza che
passava tra esso re ed _Eanbaldo arcivescovo di Jorch_, e i vescovi del
regno. Si adoperò efficacemente il sommo pontefice perchè Eardulfo fosse
rimesso sul trono, avendo spedito apposta colà Adolfo diacono, coi
legati di Carlo Augusto. Dalla lettera decima di papa Leone[704] consta
che l'imperadore fece non poche doglianze contra di questo diacono,
perchè tornando indietro non si lasciò vedere alla sua corte. Seguì
parimente in quest'anno una spedizione dell'esercito cristiano in
Catalogna contro la città di Tortosa per ordine di _Lodovico re
d'Aquitania_[705], ma con poco successo. E perciocchè aveano negli anni
addietro i _Normanni_ cominciato ad infestar colle loro navi armate i
litorali della Francia, male che, come vedremo, crebbe di poi in
infinito; il saggio imperador Carlo, che ben previde quel che poscia
avvenne, cominciò a pensare di buon'ora al rimedio. Sotto nome di
_Normanni_, significante _uomini del Nord_, cioè del Settentrione,
venivano allora i Danesi, gli Svezzesi, e tutti, a mio credere, gli
abitanti verso il mar Baltico, e parte probabilmente anche della Russia.
Si diedero que' Barbari alla pirateria, scorrendo per mare ora nella
Bretagna, ed ora nella Germania e nella Gallia; e trovando gusto in
questo infame mestiere, tuttodì andavano aumentando le lor forze, di
modo che, essendo pochi sulle prime, arrivarono poi a formar delle
flotte formidabili pel concorso di quelle settentrionali nazioni, che
tornavano sempre cariche di spoglie e di ricchezze ai lor poveri e
freddi paesi. Ora l'imperador Carlo ordinò in quest'anno che per tutti i
fiumi della sua monarchia, là dove sboccavano in mare, si fabbricassero
e tenessero pronte molte navi, per opporsi, quando occorreva, alle
incursioni de' Normanni. Ma le precauzioni di questo saggio Augusto o
furono mal eseguite, o non valsero col tempo a reprimere la potenza e il
furore di que' nefandi corsari. Benchè non si sappia il tempo preciso,
in cui papa Leone scrisse la lettera duodecima[706] a Carlo Magno, pure
sia lecito a me di farne qui menzione. Leggonsi quivi le seguenti
parole: _Misit igitur pia Serenitas vestra missos suos, ut justitiam
nobis facere debuissent, sed magis damnum fecerunt._ Il prega poi
d'interrogare di quanto era accaduto i medesimi suoi messi, e _Giovanni
arcivescovo_ spedito dal papa, dai quali potrà intendere, _quia omnia,
quidquid per vestrum pium ac legale judicium, de caussa videlicet
palatii ravennatis recollectamus, unde et jussistis, ut nullus quilibet
homo in posterum conquassare, aut in judicio promovere praesumeret, tam
de vulgaria, quam etiam de mansis, quos per vestrum dispositum Herminus
fidelis vester nobis reconsignavit: omnia cum casis, vineis, seu
laboribus, atque peculiis abstulerunt, et nihil exinde nobis remansit.
Quamobrem quaesumus vestram imperialem clementiam, ut sic de vestra a
Deo accepta donatione quam praedicto Dei Apostolo obtulistis peragere
jubeatis, quatenus in nulla minuatur parte._ Possono farci queste parole
maggiormente intendere il sistema dell'esarcato di Ravenna in questi
tempi: cioè averne bensì il vecchio Pippino fatta la donazione alla
Chiesa romana, ma con ritenerne l'alto dominio. Quivi perciò godevano i
sommi pontefici l'utile signoril dominio. Ma o i ministri
dell'imperadore, che anche allora si credeano di farsi merito col
patrone in procurando per diritto o per traverso di vantaggiare il
fisco; o pure i Ravegnani stessi si misero a disputare al papa alcune
rendite della camera di Ravenna, pertinenti a lui, cioè la _vulgaria_,
che possiam credere un tributo pagato dal volgo, o pure dai contadini, e
molte case e poderi colle lor vigne e bestiami. Fu al tribunale di Carlo
Magno dedotta questa lite, e ne uscì solenne decreto in favore del
pontefice, con essergliene anche dato il possesso da Ermino ministro
dell'imperadore. Furono poi suscitate nuove cabale contra questo decreto
e possesso; e Carlo Augusto per le istanze del papa spedì dei messi con
autorità ed ordine di fargli giustizia. La bella giustizia, che costoro
gli fecero, fu di spogliarlo di nuovo di que' diritti. Però il pontefice
Leone di loro si lagna, e prega l'imperadore che non permetta che sia
sminuita la donazione fatta a san Pietro.
Certo è poi che all'anno presente appartiene l'epistola settima del
medesimo papa Leone, perchè ivi si parla della cacciata del regno di
Eardulfo. Fra le altre cose scrive egli a Carlo Magno: _Nescimus enim,
si vestra fuit demandatio_ (comandamento, commessione) _quod missi
vestri, qui venerunt ad justitiam faciendam, detulerunt secum homines
plures, et per singulas civitates constituerunt. Quia omnia, secundum
quod solebat dux, qui erat a nobis constitutus per distractionem
caussarum tollere, et nobis more solito annue tribuere_ (leggo
_districtionem caussarum_, cioè le pene pecuniarie) _ipsi eorum homines
peregerunt; et multam collectionem_ (cioè una colletta di danaro)
_fecerunt de ipso populo: unde ipsi duces minime possunt suffragium_
(aiuto di danaro) _nobis plenissime praesentare_. Coerente a questa
lettera è anche la terza del medesimo papa, in cui si duole, perchè
gente maligna abbia rappresentato all'imperador Carlo che niun de' messi
spediti dall'imperadore dava mai nel genio d'esso papa, e che di tutti
il papa sparlava: cosa ch'egli niega affatto, avendo ricevuto col dovuto
onore tutti i messi imperiali, e però il prega di non prestar fede a
questi iniqui seminatori di zizzanie e calunniatori. Intorno a che è da
osservare, che stando sommamente a cuore a Carlo Magno l'esercizio della
giustizia fra i popoli, e ben conoscendo egli come facilmente
inferociscano i prepotenti, e sieno trasandate ed anche assassinate le
cause de' poveri, con gloriosa saviezza ne inventò un efficace rimedio.
Cioè introdusse l'uso di spedire per le provincie di tanto in tanto
degl'inquisitori, ispettori, o vogliam dire giudici straordinarii, per
osservar come era fatta giustizia, per rifare occorrendo il mal fatto,
elevare gli abusi e disordini pregiudiziali ai diritti e alla quiete sì
del pubblico che de' privati, con far loro protestare d'essere inviati
_ad singularum hominum caussas audiendas ac deliberandas_. Erano questi
appellati _missi regii, missi dominici_, persone nobili, scelte dalla
corte, o dal clero, o dai monisteri, credute le più disinteressate, di
petto forte, e d'animo incapace d'essere sedotto dalle parzialità, dai
riguardi, dai regali: cioè vescovi, abati, diaconi, conti, vassalli e
simili. Un solo talvolta, ma per lo più due si mandavano, l'un laico e
l'altro ecclesiastico; ed era la loro autorità di tale estensione, che
chiamavano al loro tribunale anche i duchi governatori delle provincie,
e i conti governatori delle città e gli ecclesiastici. Era tassata un
discreta contribuzione pel mantenimento e per i viaggi loro, ripartita
sulla provincia. Dappertutto dove si trovavano, teneano _placiti_
particolari, o pur generali, chiamati _malli_, cioè giudizii, dove dovea
intervenire il popolo, affinchè chi reclamava avesse pronti i rei citati
a rispondere. Se non erano liti molto scabrose e di lunga ispezione,
d'ordinario su due piedi decidevano le controversie, ora stando nel
palazzo della città, ora alla campagna sotto degli alberi, ed ora in
case private, con dichiarar nondimeno ne' loro giudicati di aver quivi
alzato tribunale _per data licenzia_ del padrone d'essa casa. Venivano
invitati a questi placiti o giudizii il vescovo, il conte, e vi
assistevano sempre varii giudici bene informati delle leggi, che
proferivano i lor voti, e molte persone onorate, acciocchè molti fossero
informati del fatto e delle ragioni della sentenza. Di tali messi e dei
lor malli e placiti ho io più diffusamente trattato nelle Antichità
italiche; e volesse Dio che ne durasse l'uso ancora ai nostri tempi! Ora
siccome _Pippino re d'Italia_ per ordine del padre inviava di questi
messi pel regno italico, e ne abbiam già veduti gli esempli nel ducato
di Spoleti dipendente da esso re, così Carlo Magno ne spediva per tutte
le provincie della sua monarchia; e dalla suddetta lettera settima di
papa Leone abbiam appreso: che se ne mandavano anche per gli stati
posseduti e governati dai sommi pontefici: _Missi vestri, qui venerunt
ad justitiam faciendam_. E perciò ne' patti col papa si scorge che Carlo
Magno doveva essersi riserbato questo diritto della sovranità. Ma questi
messi parve a papa Leone che eccedessero i limiti della loro autorità;
mentre non contenti di _far la giustizia_, levavano via i giudici e
ministri del papa, e ve ne mettevano degli altri venuti con loro. Nelle
città pontificie si vede che il governatore messovi dal papa portava il
nome di _duca_, ed era suo uffizio di mandare a Roma le multe ossia pene
pecuniarie che si ricavavano dalle cause criminali. Ma i messi imperiali
se le erano appropriate, con far anche contribuire il popolo: il che
ridondava in danno della camera pontificia, e con ragione dispiaceva a
papa Leone; sebben egli ne scrive all'imperador con gran riguardo,
mostrando di non sapere, se per ordine suo avessero così operato i di
lui messi, e con astenersi da ogni ombra di doglianza.
NOTE:
[703] Eginhard., in Annal. Franc.
[704] Labbe, Concilior., tom. 7.
[705] Astronomus, in Vit. Ludovici Pii.
[706] Labbe, Concil., tom. 7.


Anno di CRISTO DCCCIX. Indizione II.
LEONE III papa 15.
CARLO MAGNO imperadore 10.
PIPPINO re d'Italia 29.

Fece gran rumore in quest'anno la teologica quistione della processione
dello Spirito Santo non solo dal Padre, ma anche dal Figliuolo, commossa
da un monaco in Gerusalemme. Fu perciò tenuto un concilio in Aquisgrana,
e rimessane la decisione al romano pontefice, che faticò non poco per
questo affare, nè volle permettere che il _Filioque_ si aggiugnesse al
simbolo della Fede per non irritare i Greci, non aderenti alla sentenza
della Chiesa latina. Intorno a ciò son da vedere il cardinal Baronio,
Natale Alessandro, il Pagi ed altri. Durò ancora in quest'anno la guerra
con _Gotifredo re di Danimarca_, il quale mostrò ben di voler placare
Carlo Magno, e fece istanza per un abboccamento fra i suoi ministri e
quei dell'imperadore, ma si sciolse in fumo tutto quel negoziato. Però
continuarono le azioni militari in quelle parti. _Trasicone_ duca degli
Sclavi Obotriti ricuperò il suo paese, ma restò poi ucciso per frode
degli uomini di Gotifredo. _Carlo Magno_ allora determinò di mettere un
po' di briglia alla tracotanza di costui, e prese ben le sue
misure[707]; piantò nel marzo dell'anno seguente una città di là dal
fiume Elba in un luogo appellato Essesfeld, e la fortificò. Per quel che
riguarda l'Italia, noi abbiamo da varii Annali de' Franchi[708] che in
quest'anno (il Cronista loiseliano ne parla all'anno precedente) spedita
da Costantinopoli un'armata navale sotto il comando di Paolo, venne
prima nella Dalmazia, e poscia alla città di Venezia, dove svernò. Ora
una parte d'essa per voglia e speranza di occupar l'isola e città di
Comacchio, posta al mare di là dal Po, grande in que' tempi, si portò
ostilmente colà. Ma fu sì ben ricevuta dalla guarnigione ivi tenuta dal
_re Pippino_, che messa in rotta fu forzata a salvarsi di nuovo in
Venezia. Per questo il comandante della flotta Paolo cominciò a trattare
con esso Pippino di pace, quasi che fosse stato unicamente spedito per
questo dall'imperador greco suo padrone. Ma perchè s'avvide che
_Obelerio doge di Venezia_ e i suoi fratelli non solamente con segrete
mine attraversavano i trattati d'essa pace, ma eziandio tramavano a lui
delle insidie, stimò miglior partito l'andarsene con Dio. Così gli
Annali de' Franchi. Raccontano i medesimi che parimente in quest'anno
dai Greci chiamati Orobioti, cioè montanari, fu presa e saccheggiata la
città di Populonia, situata sul lido del mare nella Toscana, di cui non
restano più le vestigia. Inoltre dicono che i Mori di Spagna, venuti
nell'isola di Corsica, nello stesso giorno santo di Pasqua, presero e
misero a sacco una città di quell'isola, di cui non sappiamo il nome.
Vien creduta _Aleria_ dal Sigonio, dal padre Pagi _Mariana_, o _Nebbio_.
A riserva del vescovo e di alcuni pochi vecchi ed infermi, condussero
via schiavi tutti quegl'infelici abitanti. Per attestato poi di
Teofane[709], in questi tempi _Niceforo imperador d'Oriente_ parea che
si studiasse a tutto suo potere di tirarsi addosso l'odio universale del
popolo: tante furono le gravezze ed avanie ch'egli introdusse,
annoverate da quello storico ad una ad una. Ma, siccome vedremo, non
andò molto che ne pagò il fio.
NOTE:
[707] Annal. Francor. Loiseliani.
[708] Annal. Francor. Bertiniani. Annales Francor. Metenses.
[709] Theoph., in Chronogr.


Anno di CRISTO DCCCX. Indizione III.
LEONE III papa 16.
CARLO MAGNO imperadore 11.

Tra l'ardente brama che nudriva _Pippino re d'Italia_ d'aggiugnere al
suo dominio anche la città, ossia le città di Venezia, e il trovarsi
egli mal soddisfatto dei dogi di quella città per le cagioni accennate
di sopra, in quest'anno prese la risoluzione di portar la guerra fin
dentro quella città. Formata perciò una potente flotta di navi (se
prestiam fede ad Eginardo[710]), andò per mare a quella volta; prese la
città; se gli arrenderono i dogi di Venezia; e di là passò in Dalmazia
con pensiero di sottomettere del pari quelle città marittime. Ma udito
Paolo governatore della Cefalonia (quel medesimo, secondo tutte le
apparenze, di cui s'è parlato nel precedente anno) veniva in soccorso
de' Dalmatini colla flotta de' Greci, giudicò miglior consiglio il
tornarsene indietro. Con questa relazione non s'accordano le storie
venete, le quali, sebben lontane da que' tempi per poterci dare
un'accertata notizia di quel fatto, non sono però da sprezzare. Andrea
Dandolo ne parla[711] come di cosa accaduta nell'_anno ottavo di Carlo
Magno_, quando è certo che correva allora l'_anno decimo_ del suo
imperio. Secondo lui, in potere di Pippino vennero Brondolo, Chiozza,
Palestrina e Malamocco. Ritiraronsi i Veneziani nell'isola di Rialto, e
quivi fecero fronte; nè Pippino aveva maniera di penetrar colà; perchè
pare, secondo il supposto di quello storico, che i Franchi andassero ai
luoghi suddetti _per litora_, cioè per la diga che separa la laguna di
Venezia dal mare. Ma se Pippino, come raccontano gli antichi Annalisti,
assalì _Venetiam bello terra marique_, bisogna che avesse delle navi; ed
è poi chiaro che non gli mancavano, perchè egli _classem ad Dalmatiae
litora vaslanda misit_. Ma forse era sprovveduto di quelle barche, delle
quali si può far buon uso nella laguna. Comunque sia, narra lo storico
Dandolo, aver Pippino fatto fabbricare un ponte di molte barchette, su