Annali d'Italia, vol. 3 - 28
conciare tante slogature con levar quell'anno, e credere tale atto
seguito nell'anno 799. Ma quello non è documento che si possa per verun
conto legittimare. Pippino mai non fu _re de' Franchi_; nè Carlo Magno
era _imperadore_ nel giugno di quell'anno, per tacere degli altri
spropositi, che non trattennero il Lilii nella storia di Camerino
dall'accogliere come tant'oro questa screditata carta. Abbiamo poi dalle
memorie del monistero di Farfa[604] che nella città di Spoleti _anno
Karoli, et Pippini regis XXIV et XVIII, mense majo, Indictione VI.
Mamiano_ abbate ed _Isembardo, missi domni regis_, giudicarono di una
causa in favore de' monaci farfensi.
NOTE:
[599] Apud Mabill., Saecul. IV Benedict., P. I.
[600] Annal. Franc. Loiselian.
[601] Anastas., in Vit. Leonis III.
[602] Ciampinius, de Musiv., P. II, cap. 23.
[603] Ughell., Ital. Sacr., tom. I, in Episc. Asculan.
[604] Antiquit. Ital., Dissert. LXVII.
Anno di CRISTO DCCXCIX. Indizione VII.
LEONE III papa 5.
IRENE imperadrice 3.
CARLO MAGNO re de' Franchi e Longobardi 26.
PIPPINO re d'Italia 19.
Siccome costa dalla confession di fede che _Felice_ vescovo d'Urgel
compose, allorchè finalmente tornò al grembo della Chiesa, sul principio
dell'anno presente, fu celebrato in Roma un concilio da papa _Leone
III_, e da cinquantasette vescovi, _praecipiente gloriosissimo ac
piissimo domino nostro Carolo_: parole degne di osservazione. Proferì la
sacra adunanza la scomunica contra del suddetto Felice, s'egli non
ritrattava l'eretical suo dogma, _in quo ausus est Filium Dei adoptivum
asserere_. Ma non andò molto che il buon papa Leone si vide involto in
una fiera calamità per la scellerata congiura di alcuni dei principali
Romani, i capi de' quali furono _Pasquale_ primicerio e _Campulo_
sacellario, ossia sagristano, nipote del fu papa Adriano I. Il motivo o
pretesto di tale iniquità l'hanno o ignorato o lasciato nella penna gli
antichi scrittori, non altro dicendo se non che costoro accusarono
poscia di varii delitti il papa, ma senza poterne provar nè pur uno.
Costoro nondimeno, che sotto il precedente pontificato erano avvezzi a
comandare, probabilmente non sofferivano di ubbidire sotto il nuovo
pontefice. Ora noi abbiamo da Anastasio bibliotecario[605], che mentre
nel dì di san Marco a dì 25 d'aprile papa Leone con tutto il clero e
buona parte del popolo faceva la solenne processione delle litanie
maggiori, allorchè egli fu arrivato davanti al monistero dei santi
Stefano e Silvestro, sbucarono fuori i due suddetti congiurati con una
mano di sgherri armati, e preso il pontefice, il gittarono per terra, e
lo spogliarono, sforzandosi con somma crudeltà a forza di pugnalate di
cavargli gli occhi e di tagliargli la lingua. In fatti credendo di
averlo accecato e renduto mutolo per sempre, il lasciarono così
malconcio in mezzo alla piazza. Poi ritornati più che prima infelloniti
a prenderlo, e condottolo avanti all'altare di quella chiesa, di nuovo
più barbaramente il trattarono, con fama che gli cavarono gli occhi e la
lingua, gli diedero delle bastonate e ferite, e mezzo morto ed intriso
nel proprio sangue il rinserrarono prigione in quello stesso monistero.
Tutto il popolo, che interveniva senz'armi alla processione, se ne fuggì
in fretta. Fu poi condotto da quei masnadieri il misero pontefice nel
monistero di sant'Erasmo, cioè in luogo creduto più sicuro. Quivi
miracolosamente, per quanto fu creduto, gli fu restituita da Dio la
vista e la lingua; e venne poi fatto ad Albino suo cameriere, unito con
altri fedeli, di nascostamente penetrar colà, e di condurlo via con
guidarlo alla basilica vaticana, dove si fortificarono. Intanto corsa
dappertutto la voce di così empio attentato, arrivò anche agli orecchi
di _Guinigiso_ duca di Spoleti, il quale probabilmente si trovava in
quelle vicinanze, perchè i confini del suo ducato arrivavano assai
presso a Roma. Anzi gli Annali bertiniani e metensi dei Franchi scrivono
ch'egli era in Roma, e che il papa scappò di notte _ad legatos regis,
qui tunc apud basilicam sancti Petri erant, Wirundum scilicet abbatem,
et Winigisum Spoletanorum ducem veniens, Spoletum ductus est_. Comunque
sia, non tardò punto Guinigiso ad accorrere in aiuto del papa con un
buon nerbo di soldatesche. Arrivato a san Pietro, e trovatovi, contra
l'espettazione, sano e salvo esso pontefice, seco con tutta venerazione
il condusse a Spoleti, dove concorsero da varie città vescovi, preti e
secolari di prima riga a seco congratularsi. Volarono presto al re Carlo
lettere del duca Guinigiso coll'avviso di sì orrido avvenimento; e il re
rispose che avrebbe veduto volentieri il pontefice, il quale perciò si
mise in viaggio per ire a trovarlo. Scrivono altri essere stato il
pontefice che desiderò d'andare in persona alla real corte, e fu
esaudito. Nè si dee tralasciar di dire, che, oltre ad Anastasio, varii
Annali de' Franchi raccontano essere di fatto stati cavati gli occhi e
tagliata la lingua a papa Leone da quei sicarii, e che miracolosa fu la
di lui guarigione. Ma non mancano scrittori antichi e contemporanei che
diversamente raccontano quel fatto, e in maniera più credibile, con dire
che tentarono bensì quegli scellerati l'enormità suddetta, ma o non
poterono, o non vollero compierla; e veggendosi poi papa Leone tuttavia
colla lingua e con gli occhi, vi si aggiunse il miracolo. Secondochè
abbiam da Eginardo[606], esso pontefice _equo dejectus, et erutis
oculis, ut aliquibus visum est, lingua quoque amputata, nudus ac
semivivus in platea relictus est_. Son parimente parole dell'Annalista
lambeciano e moissiacense le seguenti: _Romani comprehenderunt domnum
apostolicum Leonem, et absciderunt linguam ejus, et voluerunt eruere
oculos ejus, et eum morti tradere. Sed juxta Dei dispensationem malum
quod inchoaverant, non perfecerunt_. Odasi ora Giovanni Diacono[607],
autore vicino a questi tempi, nelle vite de' vescovi di Napoli, da me
date alla luce. _Conspirantes_, dice egli, _viri iniqui contra Leonem
tertium romanae sedis antistitem, comprehenderunt eum. Cujus quum
vellent oculos eruere, inter ipsos tumultus, sicut assolet fieri, unus
ei oculus paululum est laesus._ Quel che è più, il grande ornamento
della Francia in questi tempi Alcuino abbate, in iscrivendo al re Carlo
la lettera terzadecima intorno al fatto di papa Leone, dice, che _Deus
compescuit manus impias a pravo voluntatis effectu, volentes caecatis
mentibus lumen ejus extinguere_. Similmente Notchero[608] racconta che
alcuni empi tentarono di accecarlo, _sed divino nutu conterriti sunt et
retracti ut nequaquam oculos ejus eruerent_. Finalmente Teodolfo vescovo
di Orleans[609], scrittore contemporaneo, narra che ai suoi dì v'era chi
diceva cavati e miracolosamente restituiti gli occhi al papa; e chi lo
negava, confessando solamente che il tentativo fu fatto, ma non
eseguito. Però riflette egli:
_Reddita sunt? Mirum est. Mirum est, auferre nequisse,_
_Est tamen in dubio; hinc mirer, an inde magis._
Dimorava in Paderbona _Carlo Magno_ colla sua armata, allorchè ebbe
avviso della venuta di papa Leone; ed immantinente gli spedì
all'incontro prima _Adelbaldo_, ossia _Adelboldo_, arcivescovo primo di
Colonia, e poscia il figliuolo _Pippino_ re d'Italia con assai baroni e
molte squadre d'armati. Per dovunque passò il pontefice nel suo viaggio,
fu accolto dappertutto dal concorso de' popoli e dalla venerazione e
maraviglia d'ognuno; e finalmente ricevuto dal re Pippino, fu condotto
alla corte del padre. Resta tuttavia un poemetto, dato alla luce da
Arrigo Canisio[610], che tratta dell'arrivo d'esso papa a Paderbona.
Avea il re Carlo schierato tutto il suo fiorito esercito per onorare il
vegnente santo pastore, ed egli stesso a cavallo gli fu all'incontro.
Tutte le schiere, al comparire del venerabil padre prostrate in terra il
venerarono, chiedendogli la sua benedizione; e Carlo anch'egli sceso da
cavallo, dopo profondi inchini l'abbracciò e baciò. Andarono poi
unitamente al sacro tempio a rendere grazie all'Altissimo, indi al
palazzo; e ne' molti giorni che il papa si trattenne presso quel
monarca, i conviti e le feste furono continue. Senza fallo fra il papa e
il re si dovette più volte trattare della maniera di gastigare e mettere
in dovere i Romani. Fu consultato intorno a questo affare Alcuino da
Carlo Magno, siccome ricaviamo dalla di lui lettera undecima, in cui gli
dice, che i tempi son pericolosi, e che _nullatenus capitis_ (cioè del
romano pontefice) _cura omittenda est. Levius est pedes tollere quam
caput._ Tuttavia aggiugne: _Componatur pax cum populo nefando, si fieri
potest. Relinquantur aliquantulum minae, ne obdurati fugiant: sed et in
spe retineantur, donec salubri consilio ad pacem revocentur. Tenendum
est, quod habetur, ne propter acquisitionem minoris, quod majus est,
amittatur. Servetur ovile proprium, ne lupus rapax devastet illud. Ita
in alienis sudetur, ut in propriis damnum non patiatur._ Da queste
parole volle dedurre il padre Pagi[611] che Roma in questi tempi non
riconosceva nè imperadore greco, nè Carlo Magno per suo superiore. Ma da
queste medesime Giovan-Giorgio Eccardo[612] dedusse tutto il contrario,
con pretendere consigliato Carlo Magno a procedere senza rigore contro i
delinquenti Romani, per timore che questi, già in rivolta contro il
papa, non si rivoltassero anche contro d'esso Carlo, ed egli per
acquistare il _meno_, cioè per voler punire a tutta giustizia gli
offensori del papa, non perda il _più_, cioè il suo patriziato e dominio
in Roma; e per voler riparare i torti fatti ad _altrui_, cioè al
pontefice, non resti egli privo del _proprio_, cioè della sua signoria
in quell'insigne ducato; potendo temere che i _lupi rapaci_, cioè i
Greci e il duca di Benevento confinanti non si prevalessero di tale
occasione per occupar Roma, e i Romani troppo aspramente trattati non
corressero loro in braccio. Intanto i nemici del pontefice, siccome
aggiugne Anastasio[613], misero a sacco molti poderi di san Pietro, e
per giustificare l'esecrabile lor procedura, inviarono al re Carlo una
lista di varie infami accuse contra del papa, tali nondimeno, che di
niuna potevano addurre le pruove. Ora dopo essersi fermato per alcune
settimane o mesi col re papa Leone, visitato quivi e onorato dai vescovi
di quelle parti, e dai fedeli correnti da tutti que' paesi, e
suntuosamente regalato dal re e dalla sua corte, fu risoluto ch'egli se
ne tornasse a Roma, avendo il saggio monarca prese ben le sue misure,
affinchè vi potesse rientrare senza pericolo della sua persona e
dignità.
L'accompagnaron nel viaggio _Adeboldo_ arcivescovo di Colonia, _Arnone_
arcivescovo di Salisburgo, e quattro vescovi, cioè _Bernardo_ di
Vormazia, _Azzone_ di Frisinga, _Jesse_ di Amiens, e _Cuniberto_ non si
sa di qual città, siccome ancora Elmgeto, Rotegario e Germano conti. Per
tutte le città, dove egli passò, fu ricevuto come un apostolo; e
pervenuto che fu nelle vicinanze di Roma nella vigilia di santo Andrea,
tutto il clero, il senato e popolo romano colla milizia, colle monache,
diaconesse e le nobili matrone, e tutte le scuole de' forestieri, cioè
dei Franchi, Frisoni, Sassoni e Longobardi, gli andarono incontro fino
al ponte Milvio, oggidì _ponte Molle_, e colle bandiere ed insegne,
cantando inni spirituali, e con infinito giubilo il condussero alla
basilica vaticana, dove egli cantò messa solenne, e tutti presero la
comunione del Corpo e del Sangue del Signore, come si praticava in
questi tempi anche per gli secolari. Nel dì appresso entrò in Roma, e
tornò pacificamente ad abitare nel palazzo lateranense. Da lì a pochi
giorni i suddetti vescovi e conti, siccome messi del re Carlo patrizio
de' Romani (la cui autorità anche di qui risulta), alzarono il lor
tribunale nel triclinio di papa Leone; e citati i malfattori, per più
d'una settimana attesero a formare il processo. Pasquale e Campolo coi
lor seguaci vi comparvero, e nulla avendo che dire, o non potendo
provare quel che dicevano contra del papa, furono presi e mandati in
esilio in Francia. Così Anastasio bibliotecario; ma noi vedremo che più
tardi accadde la relegazion di costoro. In questa maniera finì per
allora l'abbominevol tragedia succeduta in Roma. Nell'anno presente
ancora ebbe da faticare il re Carlo nella Sassonia, e di nuovo una gran
moltitudine di quegli abitanti colle moglie e co' figliuoli trasse da
quelle contrade, con dividerla per varie altre parti della sua
monarchia. Avevano poi i popoli delle isole di Maiorica e Minorica,
perchè infestati dai Mori di Africa, o pure di Spagna, implorato ed
anche ottenuto soccorso da Carlo Magno, col mettersi sotto la sua
protezione e signoria. Tornarono loro addosso in quest'anno i
Saraceni[614], e venuti a battaglia coll'esercito franzese, rimasero
sconfitti, e le lor bandiere prese, presentate ad esso re Carlo, gli
servirono di molta consolazione. Ma non compensarono queste allegrezze
l'afflizione che egli provò per la perdita di due de' suoi più valorosi
e fedeli uffiziali. L'uno di essi fu _Geroldo_ presidente della Baviera,
che in una baruffa contro gli Unni della Pannonia restò miseramente
ucciso[615], ma non invendicato. Imperocchè sembra che in quest'anno
terminasse la guerra con que' Barbari, il paese de' quali restò in
potere del re Carlo, ridotto nondimeno ad una total desolazione, dopo
essere periti in sì lungo bellicoso contrasto tutti i nobili di quella
nazione, e dopo averne i Franchi asportate le immense ricchezze, che
coloro in tanti anni aveano raunate coi lor latrocinii. L'altro suo
uffiziale fu _Erico_, ossia _Enrico_ o _Arrigo_, duca o marchese del
Friuli, personaggio sopra da noi nominato, che in varii cimenti e
vittorie s'era dianzi acquistato un gran capitale di gloria. Questi
trovandosi nella Liburnia, provincia situata fra l'Istria e la Dalmazia,
i cui popoli s'erano già dati al re Carlo e attendendo nella città di
Tarsatica, oggidì Tarsacoz, a regolar quegli affari, da alcuni di que'
cittadini ammutinati fu privato di vita. In luogo suo succedette in
quella marca _Cadalo_, di cui parleremo altrove. Conghiettura fu
dell'Eccardo[616] e del p. de Rubeis[617] che questo _Enrico_ potesse
essere lo stesso che _Unroco_, o pure padre di Unroco conte, il cui
figlio _Everardo_ a suo tempo vedremo reggere la marca del Friuli, ed
essere stato padre di _Berengario_ imperadore.
NOTE:
[605] Anastas. Bibliothecar., in Vit. Leonis III.
[606] Eginhardus, in Annal. Franc.
[607] Rer. Ital., P. II, tom. 1.
[608] Notcher., in Vita C. M., lib. 1, cap. 28.
[609] Theodulph., lib. 3, Carm. VI.
[610] Canisius, edition. Bosnag. tom. 1, P. II.
[611] Pagius, in Critic. ad Annal. Baron.
[612] Eccard., Rer. Franc. lib. 25, cap. 11
[613] Anastas. Bibliot., in Leon. III.
[614] Monachus Engolismensis, in Vit. Caroli Magni.
[615] Eginhardus, in Vita Caroli Magni.
[616] Eccard. Bissor.
[617] De Rubeis, Monument. Eccl. Aquilejen.
Anno di CRISTO DCCC. Indizione VIII.
LEONE III papa 6.
CARLO MAGNO imperadore 1.
PIPPINO re d'Italia 20.
Dopo essersi sbrigato Carlo Magno dalle lunghe e fastidiose guerre de'
Sassoni e degli Unni, rivolse i suoi pensieri all'Italia. Non pareva a
lui peranche se non imperfettamente terminata la causa de' persecutori
di papa Leone. Oltre a ciò, _Grimoaldo_ duca di Benevento sostenea con
vigore l'indipendenza dal re Carlo, e coll'armi difendeva il suo
diritto. Nè volea finalmente esso re Carlo lasciare impunita la morte di
_Enrico_ duca del Friuli. Venne dunque alla determinazione d'imprendere
di nuovo il viaggio d'Italia[618]. Dopo Pasqua arrivò alla città di
Tours, accompagnato da _Carlo_ e _Pippino_ suoi figliuoli, e colà ancora
arrivò _Lodovico_, il terzo de' suoi figliuoli legittimi. Gli convenne
fermarsi quivi per la mala sanità della regina _Liutgarde_ sua moglie,
che diede ivi fine al corso di sua vita. Perch'egli non sapeva
passarsela senza una donna ai fianchi, tenne da lì innanzi l'una dopo
l'altra quattro concubine, nominate tutte dall'autor della sua vita
Eginardo. I padri Bollandisti ed altri, considerate tante virtù, e
massimamente la religion di questo gran principe, hanno sostenuto che sì
fatte concubine fossero mogli di coscienza; mogli, come suol dirsi,
della mano sinistra: e però lecite e non contrarie agl'insegnamenti
della Chiesa, la quale poi solamente nel concilio di Trento diede un
miglior regolamento al sacro contratto del matrimonio. Se ciò ben
sussista, ne lascerò io ad altri la decisione. Passò di là il re Carlo a
Magonza, e, secondochè abbiamo dagli Annali pubblicati dal
Lambecio[619], tenne ivi una gran dieta, dove espose le ingiurie fatte
al romano pontefice e i suoi motivi di passare in Italia, giacchè si
godeva la pace in tutta la monarchia franzese. Venne dunque l'invitto
re, guidando seco un poderoso esercito, ed, arrivato a Ravenna, vi prese
riposo per sette giorni[620]. Continuato dipoi il cammino sino ad
Ancona, di là spedì il figliuolo Pippino con parte della armata contra
del duca di Benevento, ma senza apparire che questi facesse per ora
impresa alcuna in quelle parti. Venne il pontefice Leone incontro al re
sino a Nomento, oggidì Lamentana, dodici miglia lungi da Roma, e dopo
avere desinato con lui, se ne ritornò a Roma, per riceverlo nel dì
seguente con più solennità. Arrivato il re con tutta la sua corte, trovò
esso papa che l'aspettava davanti alla basilica vaticana coi vescovi e
col clero, e fra i sacri cantici l'introdusse nel sacro tempio per
rendere grazie all'Altissimo. Abbiamo anche dal monaco engolismense[621]
che andarono fuor di Roma le milizie, le scuole ed altre persone ad
incontrare il re vegnente, come altre volte s'era praticato. Seguì
l'arrivo colà di Carlo Magno nel dì 24 di novembre[622]. Dopo sette
giorni raunatisi per ordine suo in s. Pietro gli arcivescovi, vescovi ed
abbati, e tutta la nobiltà sì franzese che romana, e postisi a sedere
esso re e il papa, con far anche sedere tutti i suddetti prelati, stando
in piedi gli altri sacerdoti e nobili, fu intimato l'esame de' reati che
venivano apposti ad esso papa Leone. Allora tutti i vescovi ed abbati
concordemente protestarono che niuno ardiva di chiamare in giudizio il
sommo pontefice; perchè la Sede apostolica, capo di tutte le Chiese, è
bensì giudice di tutti gli ecclesiastici, ma essa non è giudicata da
alcuno, come sempre s'era praticato in addietro. E il papa soggiunse che
voleva seguitare il rito de' suoi predecessori. In fatti nel giorno
appresso, giacchè niuno compariva che osasse provar que' pretesi
delitti, il papa davanti a tutta quella grande assemblea, e presente il
popolo romano, salito sull'ambone, ossia sul pulpito, tenendo in mano il
libro de' santi Vangeli, con chiara voce protestò che in sua coscienza
non sapea d'aver commesso que' falli, de' quali veniva imputato da
alcuni de' Romani suoi persecutori, e tal protesta autenticò col
giuramento. Il che fatto, e canonicamente terminato quel difficil
affare, tutto il clero, intonato il _Te Deum_, diede grazie
all'Altissimo, alla Vergine santa, a san Pietro e a tutti i Santi. Negli
Annali pubblicati dal Lambecio e scritti da autore contemporaneo,
abbiamo che molto ben comparvero in quell'assemblea gli accusatori del
papa; ma conosciuto che da invidia e malizia procedevano quelle
imputazioni, fu risoluto da tutti che il papa da sè stesso si purgasse
da que' falsi reati. Leggesi presso il cardinal Baronio[623] la formula
usata in quella congiuntura da esso papa Leone.
Venuto poi il giorno del natale del Signor nostro, seguì una mutazione
di sommo riguardo per Roma e per l'Occidente tutto. Cantò il papa
secondo il solito messa solenne nella basilica vaticana coll'intervento
di Carlo Magno e di un immenso popolo, quando eccoti indirizzarsi esso
pontefice al re, nel mentre che volea partirsi, e mettergli sul capo una
preziosissima corona, e nello stesso tempo concordemente tutto il clero
e popolo intonar la solenne acclamazione, che si usava nella creazion
degli imperadori, cioè: _A Carlo piissimo Augusto coronato da Dio,
grande e pacifico imperadore, vita e vittoria_. Tre volte detta fu
questa acclamazione, e in tal maniera si vide costituito da tutti il
buon re Carlo imperadore de' Romani; e il pontefice immediatamente unse
coll'olio santo esso Augusto e il re Pippino suo figliuolo. Di questa
unzione non parlano alcuni Annali de' Franchi, ma solamente della
coronazione, e delle acclamazioni e delle lodi suddette: dopo le quali
aggiungono che il papa fu il primo a far riverenza a Carlo, come si
costumava con gli antichi imperadori. _A pontifice more antiquorum
principum adoratus est._ Perciò esso Carlo, da lì innanzi lasciato il
nome di patrizio, cominciò ad usar quello d'_imperador de' Romani_ e di
_Augusto_. E qui convien rammentar le parole di Eginardo[624] che di lui
scrive: _Romam veniens, propter reparandum, qui nimis conturbatus erat,
Ecclesiae statum, ibi totum hyemis tempus protraxit. Quo tempore et
Imperatoris et Augusti nomen accepit: quod primo in tantum aversatus
est, ut affirmaret, se eo die quamvis praecipua festivitas esset.
Ecclesiam non intraturum fuisse, si consilium pontificis praescire
potuisset_. Benchè Eginardo sia scrittore di somma autorità per questi
tempi ed affari, pure non ha saputo persuadere nè al Sigonio, nè al
padre Daniello, nè ad altri storici, che potesse mai seguire una tal
funzione senza contezza, anzi con ripugnanza di Carlo Magno, che pur fu
principe sì voglioso di gloria. E se il clero e popolo tutto era
preparato per cantare le acclamazioni poco fa riferite, come mai non
potè traspirar la notizia di sì gran preparamento e disegno ad esso
monarca? Nè mancano scrittori antichi che il tennero ben informato della
dignità che gli si voleva conferire. Giovanni Diacono[625], autore
contemporaneo, nelle vite de' vescovi di Napoli lasciò scritto che papa
Leone _fugiens ad regem Carolum, spopondit ei, si de suis illum
defenderet inimicis, augustali eum diademate coronaret_. Molto più
chiaramente parlano gli Annali del Lambecio e moissiacensi colle
seguenti parole: _Visum est et ipsi apostolico Leoni, et universis
sanctis patribus, qui in ipso concilio_ (cioè nel romano poco fu
accennato) _seu reliquo christiano populo, ut ipsum Carolum regem
Francorum IMPERATOREM nominare debuissent, QUI IPSAM ROMAM TENEBAT, ubi
semper Caesares sedere soliti erant, seu reliquas sedes, quas ipse per
Italiam, seu Galliam, nec non et Germaniam TENEBAT: quia Deus omnipotens
has omnes sedes in POTESTATEM EJUS concessit; ideo justum eis esse
videbatur, ut ipse cum Dei adjutorio, et universo christiano populo
petente ipsum nomen haberet. Quorum petitionem ipse rex Carolus denegare
noluit, sed cum omni humilitate subjectus Deo et petitioni sacerdotum,
et universi christiani populi, in ipsa nativitate Domini nostri Jesu
Christi ipsum nomen IMPERATORIS cum consecratione domni Leonis papae
suscepit_. L'Annalista lambeciano scriveva queste cose ne' medesimi
tempi, e però di gran peso è la sua asserzione.
Vo' io immaginando che molto ben fosse proposto dal papa e da quel gran
consesso al re Carlo Magno di dichiararlo imperador de' Romani, ma
ch'egli ripugnasse sulle prime, per non disgustare i greci imperadori,
asserendo appunto Eginardo che dopo il fatto se l'ebbero molto a male
gli Augusti orientali. _Constantinopolitanis tamen imperatoribus super
hoc indignantibus, magna tulit patientia, vicitque magnanimitate, qua
eis procul dubio praestantior erat, mittendo ad eos crebras legationes,
et in epistolis fratres eos appellando._ Ma il pontefice Leone dovette
concertare col clero e popolo di cogliere inaspettatamente esso Carlo
nella solenne funzione del santo Natale; e vedendo poi egli la concordia
e risoluzion del papa e de' Romani, senza più fare resistenza si
accomodò al loro volere, ed accettò il nome d'imperadore. Dissi il nome,
colle parole degli storici suddetti; perciocchè per conto di Roma e del
suo ducato, gli stessi Annali ci han già fatto sapere ch'egli anche
solamente patrizio ne era padrone: _ipsam Romam tenebat_. E come padrone
appunto mandò i suoi messi prima, e poi venne egli a far giustizia
contro i calunniatori e persecutori del papa. Che se talun chiede, che
guadagnò allora Carlo Magno in questa mutazione, consistente, come si
pretende, in un solo titolo e nome, hassi da rispondere: che fino a
questi tempi era stata una prerogativa degl'imperadori romani la
superiorità d'onore sopra i re cristiani di Spagna, Francia, Borgogna ed
Italia. Scrivendo essi re agli Augusti, davano loro il titolo di _padre_
e di _signore_. E i primi re di Francia e d'Italia, per giustificare i
lor dominio in tante provincie occupate al romano imperio, non ebbero
difficoltà di riconoscersi come dipendenti dagl'imperadori, con aversi
procacciato da loro il titolo di _patrizii_. Laonde gli stessi Augusti
greci ritenevano qualche diritto, o almeno un possesso d'onore sopra i
re e regni ch'erano stati del romano imperio. Inoltre fin qui erano
stati riguardati come sovrani di Roma, e il nome loro compariva negli
atti pubblici, come si usò per tanti secoli in addietro. Ora creato
Carlo Magno imperador d'Occidente, veniva a levarsi al greco Augusto
ogni diritto sopra Roma, e l'antica onorificenza nelle contrade
occidentali, perchè trasfusa nel novello imperador d'Occidente. Infatti
da lì innanzi Carlo Magno, per attestato di Eginardo, non più col titolo
di _padre_, ma con quel di _fratello_ cominciò a scrivere ai greci
imperadori, siccome divenuto loro eguale nell'altezza del grado, e così
ancora ne' pubblici atti di Roma si cominciò a scrivere il di lui nome
d'imperadore. Ecco la cagione per cui essi Augusti greci, fino allora
rispettati anche in Roma, s'ebbero tanto a male questa novità. E di qui
è avere scritto Teofane[626] che ora solamente _in Francorum potestatem
Roma cessit_, perchè in addietro avevano i Greci conservato l'alto
dominio in Roma, e questo cessò nel costituire imperador de' Romani il
re Carlo. Per altro i motivi del romano pontefice, e del senato e popolo
romano, per rinnovare nella persona di Carlo Magno il romano imperio,
son chiaramente accennati dagli antichi scrittori. Non v'era allora
imperadore. Una donna, cioè _Irene_, comandava le feste, e si intitolava
_imperadrice de' Romani_. Vollero perciò il papa e i Romani ripigliare
l'antico loro diritto, e farsi un imperadore. E tanto più perchè i Greci
non faceano più alcun bene, anzi si studiavano di far del male ai
Romani; ed era ben più nobile e potente de' Greci il monarca franzese.
Tornava anche in maggior decoro di essi Romani che il lor padrone non
più usasse l'inferior titolo di _patrizio_, ed assumesse il nobilissimo
ed indipendente d'_imperadore_, con cui veniva parimente ad acquistare
una specie di diritto, se non di giurisdizione, almeno di onore, sopra i
re e regni di occidente. Per conto poi de' papi non si può ben
discernere, se ne' precedenti anni avessero dominio, o qual dominio
temporale avessero in Roma. Da qui innanzi bensì chiara cosa è ch'essi
furono signori temporali della stessa città e del suo ducato, secondo i
patti che dovettero seguire col novello imperadore: con podestà
nondimeno subordinata all'alto dominio degli Augusti latini, potendo noi
molto bene immaginare che papa Leone stabilisse tale accordo con Carlo
Magno prima di cotanto esaltarlo, e guadagnasse anch'egli dal canto suo
e dei suoi successori. Il perchè da lì innanzi cominciarono i papi a
battere moneta col nome lor proprio nell'una parte dei soldi e denari, e
nell'altra col nome dell'imperadore regnante, come si può vedere ne'
libri pubblicati dal Blanc franzese, e dagli abbati Vignoli e
Fioravanti. Rito appunto indicante la sovranità di Carlo Magno e de'
suoi successori in Roma stessa, non lasciandone dubitare lo esempio
sopra da noi veduto di Grimoaldo duca di Benevento.
Dopo così strepitosa funzione l'imperador Carlo attese a regolar gli
affari di Roma, e ripigliò fra gli altri quello de' congiurati ed
offensori di papa Leone[627]. Furono costoro di nuovo esaminati, e
secondo le leggi romane, venne proferita sentenza di morte contra di
loro. Ma il misericordioso pontefice s'interpose in lor favore appresso
seguito nell'anno 799. Ma quello non è documento che si possa per verun
conto legittimare. Pippino mai non fu _re de' Franchi_; nè Carlo Magno
era _imperadore_ nel giugno di quell'anno, per tacere degli altri
spropositi, che non trattennero il Lilii nella storia di Camerino
dall'accogliere come tant'oro questa screditata carta. Abbiamo poi dalle
memorie del monistero di Farfa[604] che nella città di Spoleti _anno
Karoli, et Pippini regis XXIV et XVIII, mense majo, Indictione VI.
Mamiano_ abbate ed _Isembardo, missi domni regis_, giudicarono di una
causa in favore de' monaci farfensi.
NOTE:
[599] Apud Mabill., Saecul. IV Benedict., P. I.
[600] Annal. Franc. Loiselian.
[601] Anastas., in Vit. Leonis III.
[602] Ciampinius, de Musiv., P. II, cap. 23.
[603] Ughell., Ital. Sacr., tom. I, in Episc. Asculan.
[604] Antiquit. Ital., Dissert. LXVII.
Anno di CRISTO DCCXCIX. Indizione VII.
LEONE III papa 5.
IRENE imperadrice 3.
CARLO MAGNO re de' Franchi e Longobardi 26.
PIPPINO re d'Italia 19.
Siccome costa dalla confession di fede che _Felice_ vescovo d'Urgel
compose, allorchè finalmente tornò al grembo della Chiesa, sul principio
dell'anno presente, fu celebrato in Roma un concilio da papa _Leone
III_, e da cinquantasette vescovi, _praecipiente gloriosissimo ac
piissimo domino nostro Carolo_: parole degne di osservazione. Proferì la
sacra adunanza la scomunica contra del suddetto Felice, s'egli non
ritrattava l'eretical suo dogma, _in quo ausus est Filium Dei adoptivum
asserere_. Ma non andò molto che il buon papa Leone si vide involto in
una fiera calamità per la scellerata congiura di alcuni dei principali
Romani, i capi de' quali furono _Pasquale_ primicerio e _Campulo_
sacellario, ossia sagristano, nipote del fu papa Adriano I. Il motivo o
pretesto di tale iniquità l'hanno o ignorato o lasciato nella penna gli
antichi scrittori, non altro dicendo se non che costoro accusarono
poscia di varii delitti il papa, ma senza poterne provar nè pur uno.
Costoro nondimeno, che sotto il precedente pontificato erano avvezzi a
comandare, probabilmente non sofferivano di ubbidire sotto il nuovo
pontefice. Ora noi abbiamo da Anastasio bibliotecario[605], che mentre
nel dì di san Marco a dì 25 d'aprile papa Leone con tutto il clero e
buona parte del popolo faceva la solenne processione delle litanie
maggiori, allorchè egli fu arrivato davanti al monistero dei santi
Stefano e Silvestro, sbucarono fuori i due suddetti congiurati con una
mano di sgherri armati, e preso il pontefice, il gittarono per terra, e
lo spogliarono, sforzandosi con somma crudeltà a forza di pugnalate di
cavargli gli occhi e di tagliargli la lingua. In fatti credendo di
averlo accecato e renduto mutolo per sempre, il lasciarono così
malconcio in mezzo alla piazza. Poi ritornati più che prima infelloniti
a prenderlo, e condottolo avanti all'altare di quella chiesa, di nuovo
più barbaramente il trattarono, con fama che gli cavarono gli occhi e la
lingua, gli diedero delle bastonate e ferite, e mezzo morto ed intriso
nel proprio sangue il rinserrarono prigione in quello stesso monistero.
Tutto il popolo, che interveniva senz'armi alla processione, se ne fuggì
in fretta. Fu poi condotto da quei masnadieri il misero pontefice nel
monistero di sant'Erasmo, cioè in luogo creduto più sicuro. Quivi
miracolosamente, per quanto fu creduto, gli fu restituita da Dio la
vista e la lingua; e venne poi fatto ad Albino suo cameriere, unito con
altri fedeli, di nascostamente penetrar colà, e di condurlo via con
guidarlo alla basilica vaticana, dove si fortificarono. Intanto corsa
dappertutto la voce di così empio attentato, arrivò anche agli orecchi
di _Guinigiso_ duca di Spoleti, il quale probabilmente si trovava in
quelle vicinanze, perchè i confini del suo ducato arrivavano assai
presso a Roma. Anzi gli Annali bertiniani e metensi dei Franchi scrivono
ch'egli era in Roma, e che il papa scappò di notte _ad legatos regis,
qui tunc apud basilicam sancti Petri erant, Wirundum scilicet abbatem,
et Winigisum Spoletanorum ducem veniens, Spoletum ductus est_. Comunque
sia, non tardò punto Guinigiso ad accorrere in aiuto del papa con un
buon nerbo di soldatesche. Arrivato a san Pietro, e trovatovi, contra
l'espettazione, sano e salvo esso pontefice, seco con tutta venerazione
il condusse a Spoleti, dove concorsero da varie città vescovi, preti e
secolari di prima riga a seco congratularsi. Volarono presto al re Carlo
lettere del duca Guinigiso coll'avviso di sì orrido avvenimento; e il re
rispose che avrebbe veduto volentieri il pontefice, il quale perciò si
mise in viaggio per ire a trovarlo. Scrivono altri essere stato il
pontefice che desiderò d'andare in persona alla real corte, e fu
esaudito. Nè si dee tralasciar di dire, che, oltre ad Anastasio, varii
Annali de' Franchi raccontano essere di fatto stati cavati gli occhi e
tagliata la lingua a papa Leone da quei sicarii, e che miracolosa fu la
di lui guarigione. Ma non mancano scrittori antichi e contemporanei che
diversamente raccontano quel fatto, e in maniera più credibile, con dire
che tentarono bensì quegli scellerati l'enormità suddetta, ma o non
poterono, o non vollero compierla; e veggendosi poi papa Leone tuttavia
colla lingua e con gli occhi, vi si aggiunse il miracolo. Secondochè
abbiam da Eginardo[606], esso pontefice _equo dejectus, et erutis
oculis, ut aliquibus visum est, lingua quoque amputata, nudus ac
semivivus in platea relictus est_. Son parimente parole dell'Annalista
lambeciano e moissiacense le seguenti: _Romani comprehenderunt domnum
apostolicum Leonem, et absciderunt linguam ejus, et voluerunt eruere
oculos ejus, et eum morti tradere. Sed juxta Dei dispensationem malum
quod inchoaverant, non perfecerunt_. Odasi ora Giovanni Diacono[607],
autore vicino a questi tempi, nelle vite de' vescovi di Napoli, da me
date alla luce. _Conspirantes_, dice egli, _viri iniqui contra Leonem
tertium romanae sedis antistitem, comprehenderunt eum. Cujus quum
vellent oculos eruere, inter ipsos tumultus, sicut assolet fieri, unus
ei oculus paululum est laesus._ Quel che è più, il grande ornamento
della Francia in questi tempi Alcuino abbate, in iscrivendo al re Carlo
la lettera terzadecima intorno al fatto di papa Leone, dice, che _Deus
compescuit manus impias a pravo voluntatis effectu, volentes caecatis
mentibus lumen ejus extinguere_. Similmente Notchero[608] racconta che
alcuni empi tentarono di accecarlo, _sed divino nutu conterriti sunt et
retracti ut nequaquam oculos ejus eruerent_. Finalmente Teodolfo vescovo
di Orleans[609], scrittore contemporaneo, narra che ai suoi dì v'era chi
diceva cavati e miracolosamente restituiti gli occhi al papa; e chi lo
negava, confessando solamente che il tentativo fu fatto, ma non
eseguito. Però riflette egli:
_Reddita sunt? Mirum est. Mirum est, auferre nequisse,_
_Est tamen in dubio; hinc mirer, an inde magis._
Dimorava in Paderbona _Carlo Magno_ colla sua armata, allorchè ebbe
avviso della venuta di papa Leone; ed immantinente gli spedì
all'incontro prima _Adelbaldo_, ossia _Adelboldo_, arcivescovo primo di
Colonia, e poscia il figliuolo _Pippino_ re d'Italia con assai baroni e
molte squadre d'armati. Per dovunque passò il pontefice nel suo viaggio,
fu accolto dappertutto dal concorso de' popoli e dalla venerazione e
maraviglia d'ognuno; e finalmente ricevuto dal re Pippino, fu condotto
alla corte del padre. Resta tuttavia un poemetto, dato alla luce da
Arrigo Canisio[610], che tratta dell'arrivo d'esso papa a Paderbona.
Avea il re Carlo schierato tutto il suo fiorito esercito per onorare il
vegnente santo pastore, ed egli stesso a cavallo gli fu all'incontro.
Tutte le schiere, al comparire del venerabil padre prostrate in terra il
venerarono, chiedendogli la sua benedizione; e Carlo anch'egli sceso da
cavallo, dopo profondi inchini l'abbracciò e baciò. Andarono poi
unitamente al sacro tempio a rendere grazie all'Altissimo, indi al
palazzo; e ne' molti giorni che il papa si trattenne presso quel
monarca, i conviti e le feste furono continue. Senza fallo fra il papa e
il re si dovette più volte trattare della maniera di gastigare e mettere
in dovere i Romani. Fu consultato intorno a questo affare Alcuino da
Carlo Magno, siccome ricaviamo dalla di lui lettera undecima, in cui gli
dice, che i tempi son pericolosi, e che _nullatenus capitis_ (cioè del
romano pontefice) _cura omittenda est. Levius est pedes tollere quam
caput._ Tuttavia aggiugne: _Componatur pax cum populo nefando, si fieri
potest. Relinquantur aliquantulum minae, ne obdurati fugiant: sed et in
spe retineantur, donec salubri consilio ad pacem revocentur. Tenendum
est, quod habetur, ne propter acquisitionem minoris, quod majus est,
amittatur. Servetur ovile proprium, ne lupus rapax devastet illud. Ita
in alienis sudetur, ut in propriis damnum non patiatur._ Da queste
parole volle dedurre il padre Pagi[611] che Roma in questi tempi non
riconosceva nè imperadore greco, nè Carlo Magno per suo superiore. Ma da
queste medesime Giovan-Giorgio Eccardo[612] dedusse tutto il contrario,
con pretendere consigliato Carlo Magno a procedere senza rigore contro i
delinquenti Romani, per timore che questi, già in rivolta contro il
papa, non si rivoltassero anche contro d'esso Carlo, ed egli per
acquistare il _meno_, cioè per voler punire a tutta giustizia gli
offensori del papa, non perda il _più_, cioè il suo patriziato e dominio
in Roma; e per voler riparare i torti fatti ad _altrui_, cioè al
pontefice, non resti egli privo del _proprio_, cioè della sua signoria
in quell'insigne ducato; potendo temere che i _lupi rapaci_, cioè i
Greci e il duca di Benevento confinanti non si prevalessero di tale
occasione per occupar Roma, e i Romani troppo aspramente trattati non
corressero loro in braccio. Intanto i nemici del pontefice, siccome
aggiugne Anastasio[613], misero a sacco molti poderi di san Pietro, e
per giustificare l'esecrabile lor procedura, inviarono al re Carlo una
lista di varie infami accuse contra del papa, tali nondimeno, che di
niuna potevano addurre le pruove. Ora dopo essersi fermato per alcune
settimane o mesi col re papa Leone, visitato quivi e onorato dai vescovi
di quelle parti, e dai fedeli correnti da tutti que' paesi, e
suntuosamente regalato dal re e dalla sua corte, fu risoluto ch'egli se
ne tornasse a Roma, avendo il saggio monarca prese ben le sue misure,
affinchè vi potesse rientrare senza pericolo della sua persona e
dignità.
L'accompagnaron nel viaggio _Adeboldo_ arcivescovo di Colonia, _Arnone_
arcivescovo di Salisburgo, e quattro vescovi, cioè _Bernardo_ di
Vormazia, _Azzone_ di Frisinga, _Jesse_ di Amiens, e _Cuniberto_ non si
sa di qual città, siccome ancora Elmgeto, Rotegario e Germano conti. Per
tutte le città, dove egli passò, fu ricevuto come un apostolo; e
pervenuto che fu nelle vicinanze di Roma nella vigilia di santo Andrea,
tutto il clero, il senato e popolo romano colla milizia, colle monache,
diaconesse e le nobili matrone, e tutte le scuole de' forestieri, cioè
dei Franchi, Frisoni, Sassoni e Longobardi, gli andarono incontro fino
al ponte Milvio, oggidì _ponte Molle_, e colle bandiere ed insegne,
cantando inni spirituali, e con infinito giubilo il condussero alla
basilica vaticana, dove egli cantò messa solenne, e tutti presero la
comunione del Corpo e del Sangue del Signore, come si praticava in
questi tempi anche per gli secolari. Nel dì appresso entrò in Roma, e
tornò pacificamente ad abitare nel palazzo lateranense. Da lì a pochi
giorni i suddetti vescovi e conti, siccome messi del re Carlo patrizio
de' Romani (la cui autorità anche di qui risulta), alzarono il lor
tribunale nel triclinio di papa Leone; e citati i malfattori, per più
d'una settimana attesero a formare il processo. Pasquale e Campolo coi
lor seguaci vi comparvero, e nulla avendo che dire, o non potendo
provare quel che dicevano contra del papa, furono presi e mandati in
esilio in Francia. Così Anastasio bibliotecario; ma noi vedremo che più
tardi accadde la relegazion di costoro. In questa maniera finì per
allora l'abbominevol tragedia succeduta in Roma. Nell'anno presente
ancora ebbe da faticare il re Carlo nella Sassonia, e di nuovo una gran
moltitudine di quegli abitanti colle moglie e co' figliuoli trasse da
quelle contrade, con dividerla per varie altre parti della sua
monarchia. Avevano poi i popoli delle isole di Maiorica e Minorica,
perchè infestati dai Mori di Africa, o pure di Spagna, implorato ed
anche ottenuto soccorso da Carlo Magno, col mettersi sotto la sua
protezione e signoria. Tornarono loro addosso in quest'anno i
Saraceni[614], e venuti a battaglia coll'esercito franzese, rimasero
sconfitti, e le lor bandiere prese, presentate ad esso re Carlo, gli
servirono di molta consolazione. Ma non compensarono queste allegrezze
l'afflizione che egli provò per la perdita di due de' suoi più valorosi
e fedeli uffiziali. L'uno di essi fu _Geroldo_ presidente della Baviera,
che in una baruffa contro gli Unni della Pannonia restò miseramente
ucciso[615], ma non invendicato. Imperocchè sembra che in quest'anno
terminasse la guerra con que' Barbari, il paese de' quali restò in
potere del re Carlo, ridotto nondimeno ad una total desolazione, dopo
essere periti in sì lungo bellicoso contrasto tutti i nobili di quella
nazione, e dopo averne i Franchi asportate le immense ricchezze, che
coloro in tanti anni aveano raunate coi lor latrocinii. L'altro suo
uffiziale fu _Erico_, ossia _Enrico_ o _Arrigo_, duca o marchese del
Friuli, personaggio sopra da noi nominato, che in varii cimenti e
vittorie s'era dianzi acquistato un gran capitale di gloria. Questi
trovandosi nella Liburnia, provincia situata fra l'Istria e la Dalmazia,
i cui popoli s'erano già dati al re Carlo e attendendo nella città di
Tarsatica, oggidì Tarsacoz, a regolar quegli affari, da alcuni di que'
cittadini ammutinati fu privato di vita. In luogo suo succedette in
quella marca _Cadalo_, di cui parleremo altrove. Conghiettura fu
dell'Eccardo[616] e del p. de Rubeis[617] che questo _Enrico_ potesse
essere lo stesso che _Unroco_, o pure padre di Unroco conte, il cui
figlio _Everardo_ a suo tempo vedremo reggere la marca del Friuli, ed
essere stato padre di _Berengario_ imperadore.
NOTE:
[605] Anastas. Bibliothecar., in Vit. Leonis III.
[606] Eginhardus, in Annal. Franc.
[607] Rer. Ital., P. II, tom. 1.
[608] Notcher., in Vita C. M., lib. 1, cap. 28.
[609] Theodulph., lib. 3, Carm. VI.
[610] Canisius, edition. Bosnag. tom. 1, P. II.
[611] Pagius, in Critic. ad Annal. Baron.
[612] Eccard., Rer. Franc. lib. 25, cap. 11
[613] Anastas. Bibliot., in Leon. III.
[614] Monachus Engolismensis, in Vit. Caroli Magni.
[615] Eginhardus, in Vita Caroli Magni.
[616] Eccard. Bissor.
[617] De Rubeis, Monument. Eccl. Aquilejen.
Anno di CRISTO DCCC. Indizione VIII.
LEONE III papa 6.
CARLO MAGNO imperadore 1.
PIPPINO re d'Italia 20.
Dopo essersi sbrigato Carlo Magno dalle lunghe e fastidiose guerre de'
Sassoni e degli Unni, rivolse i suoi pensieri all'Italia. Non pareva a
lui peranche se non imperfettamente terminata la causa de' persecutori
di papa Leone. Oltre a ciò, _Grimoaldo_ duca di Benevento sostenea con
vigore l'indipendenza dal re Carlo, e coll'armi difendeva il suo
diritto. Nè volea finalmente esso re Carlo lasciare impunita la morte di
_Enrico_ duca del Friuli. Venne dunque alla determinazione d'imprendere
di nuovo il viaggio d'Italia[618]. Dopo Pasqua arrivò alla città di
Tours, accompagnato da _Carlo_ e _Pippino_ suoi figliuoli, e colà ancora
arrivò _Lodovico_, il terzo de' suoi figliuoli legittimi. Gli convenne
fermarsi quivi per la mala sanità della regina _Liutgarde_ sua moglie,
che diede ivi fine al corso di sua vita. Perch'egli non sapeva
passarsela senza una donna ai fianchi, tenne da lì innanzi l'una dopo
l'altra quattro concubine, nominate tutte dall'autor della sua vita
Eginardo. I padri Bollandisti ed altri, considerate tante virtù, e
massimamente la religion di questo gran principe, hanno sostenuto che sì
fatte concubine fossero mogli di coscienza; mogli, come suol dirsi,
della mano sinistra: e però lecite e non contrarie agl'insegnamenti
della Chiesa, la quale poi solamente nel concilio di Trento diede un
miglior regolamento al sacro contratto del matrimonio. Se ciò ben
sussista, ne lascerò io ad altri la decisione. Passò di là il re Carlo a
Magonza, e, secondochè abbiamo dagli Annali pubblicati dal
Lambecio[619], tenne ivi una gran dieta, dove espose le ingiurie fatte
al romano pontefice e i suoi motivi di passare in Italia, giacchè si
godeva la pace in tutta la monarchia franzese. Venne dunque l'invitto
re, guidando seco un poderoso esercito, ed, arrivato a Ravenna, vi prese
riposo per sette giorni[620]. Continuato dipoi il cammino sino ad
Ancona, di là spedì il figliuolo Pippino con parte della armata contra
del duca di Benevento, ma senza apparire che questi facesse per ora
impresa alcuna in quelle parti. Venne il pontefice Leone incontro al re
sino a Nomento, oggidì Lamentana, dodici miglia lungi da Roma, e dopo
avere desinato con lui, se ne ritornò a Roma, per riceverlo nel dì
seguente con più solennità. Arrivato il re con tutta la sua corte, trovò
esso papa che l'aspettava davanti alla basilica vaticana coi vescovi e
col clero, e fra i sacri cantici l'introdusse nel sacro tempio per
rendere grazie all'Altissimo. Abbiamo anche dal monaco engolismense[621]
che andarono fuor di Roma le milizie, le scuole ed altre persone ad
incontrare il re vegnente, come altre volte s'era praticato. Seguì
l'arrivo colà di Carlo Magno nel dì 24 di novembre[622]. Dopo sette
giorni raunatisi per ordine suo in s. Pietro gli arcivescovi, vescovi ed
abbati, e tutta la nobiltà sì franzese che romana, e postisi a sedere
esso re e il papa, con far anche sedere tutti i suddetti prelati, stando
in piedi gli altri sacerdoti e nobili, fu intimato l'esame de' reati che
venivano apposti ad esso papa Leone. Allora tutti i vescovi ed abbati
concordemente protestarono che niuno ardiva di chiamare in giudizio il
sommo pontefice; perchè la Sede apostolica, capo di tutte le Chiese, è
bensì giudice di tutti gli ecclesiastici, ma essa non è giudicata da
alcuno, come sempre s'era praticato in addietro. E il papa soggiunse che
voleva seguitare il rito de' suoi predecessori. In fatti nel giorno
appresso, giacchè niuno compariva che osasse provar que' pretesi
delitti, il papa davanti a tutta quella grande assemblea, e presente il
popolo romano, salito sull'ambone, ossia sul pulpito, tenendo in mano il
libro de' santi Vangeli, con chiara voce protestò che in sua coscienza
non sapea d'aver commesso que' falli, de' quali veniva imputato da
alcuni de' Romani suoi persecutori, e tal protesta autenticò col
giuramento. Il che fatto, e canonicamente terminato quel difficil
affare, tutto il clero, intonato il _Te Deum_, diede grazie
all'Altissimo, alla Vergine santa, a san Pietro e a tutti i Santi. Negli
Annali pubblicati dal Lambecio e scritti da autore contemporaneo,
abbiamo che molto ben comparvero in quell'assemblea gli accusatori del
papa; ma conosciuto che da invidia e malizia procedevano quelle
imputazioni, fu risoluto da tutti che il papa da sè stesso si purgasse
da que' falsi reati. Leggesi presso il cardinal Baronio[623] la formula
usata in quella congiuntura da esso papa Leone.
Venuto poi il giorno del natale del Signor nostro, seguì una mutazione
di sommo riguardo per Roma e per l'Occidente tutto. Cantò il papa
secondo il solito messa solenne nella basilica vaticana coll'intervento
di Carlo Magno e di un immenso popolo, quando eccoti indirizzarsi esso
pontefice al re, nel mentre che volea partirsi, e mettergli sul capo una
preziosissima corona, e nello stesso tempo concordemente tutto il clero
e popolo intonar la solenne acclamazione, che si usava nella creazion
degli imperadori, cioè: _A Carlo piissimo Augusto coronato da Dio,
grande e pacifico imperadore, vita e vittoria_. Tre volte detta fu
questa acclamazione, e in tal maniera si vide costituito da tutti il
buon re Carlo imperadore de' Romani; e il pontefice immediatamente unse
coll'olio santo esso Augusto e il re Pippino suo figliuolo. Di questa
unzione non parlano alcuni Annali de' Franchi, ma solamente della
coronazione, e delle acclamazioni e delle lodi suddette: dopo le quali
aggiungono che il papa fu il primo a far riverenza a Carlo, come si
costumava con gli antichi imperadori. _A pontifice more antiquorum
principum adoratus est._ Perciò esso Carlo, da lì innanzi lasciato il
nome di patrizio, cominciò ad usar quello d'_imperador de' Romani_ e di
_Augusto_. E qui convien rammentar le parole di Eginardo[624] che di lui
scrive: _Romam veniens, propter reparandum, qui nimis conturbatus erat,
Ecclesiae statum, ibi totum hyemis tempus protraxit. Quo tempore et
Imperatoris et Augusti nomen accepit: quod primo in tantum aversatus
est, ut affirmaret, se eo die quamvis praecipua festivitas esset.
Ecclesiam non intraturum fuisse, si consilium pontificis praescire
potuisset_. Benchè Eginardo sia scrittore di somma autorità per questi
tempi ed affari, pure non ha saputo persuadere nè al Sigonio, nè al
padre Daniello, nè ad altri storici, che potesse mai seguire una tal
funzione senza contezza, anzi con ripugnanza di Carlo Magno, che pur fu
principe sì voglioso di gloria. E se il clero e popolo tutto era
preparato per cantare le acclamazioni poco fa riferite, come mai non
potè traspirar la notizia di sì gran preparamento e disegno ad esso
monarca? Nè mancano scrittori antichi che il tennero ben informato della
dignità che gli si voleva conferire. Giovanni Diacono[625], autore
contemporaneo, nelle vite de' vescovi di Napoli lasciò scritto che papa
Leone _fugiens ad regem Carolum, spopondit ei, si de suis illum
defenderet inimicis, augustali eum diademate coronaret_. Molto più
chiaramente parlano gli Annali del Lambecio e moissiacensi colle
seguenti parole: _Visum est et ipsi apostolico Leoni, et universis
sanctis patribus, qui in ipso concilio_ (cioè nel romano poco fu
accennato) _seu reliquo christiano populo, ut ipsum Carolum regem
Francorum IMPERATOREM nominare debuissent, QUI IPSAM ROMAM TENEBAT, ubi
semper Caesares sedere soliti erant, seu reliquas sedes, quas ipse per
Italiam, seu Galliam, nec non et Germaniam TENEBAT: quia Deus omnipotens
has omnes sedes in POTESTATEM EJUS concessit; ideo justum eis esse
videbatur, ut ipse cum Dei adjutorio, et universo christiano populo
petente ipsum nomen haberet. Quorum petitionem ipse rex Carolus denegare
noluit, sed cum omni humilitate subjectus Deo et petitioni sacerdotum,
et universi christiani populi, in ipsa nativitate Domini nostri Jesu
Christi ipsum nomen IMPERATORIS cum consecratione domni Leonis papae
suscepit_. L'Annalista lambeciano scriveva queste cose ne' medesimi
tempi, e però di gran peso è la sua asserzione.
Vo' io immaginando che molto ben fosse proposto dal papa e da quel gran
consesso al re Carlo Magno di dichiararlo imperador de' Romani, ma
ch'egli ripugnasse sulle prime, per non disgustare i greci imperadori,
asserendo appunto Eginardo che dopo il fatto se l'ebbero molto a male
gli Augusti orientali. _Constantinopolitanis tamen imperatoribus super
hoc indignantibus, magna tulit patientia, vicitque magnanimitate, qua
eis procul dubio praestantior erat, mittendo ad eos crebras legationes,
et in epistolis fratres eos appellando._ Ma il pontefice Leone dovette
concertare col clero e popolo di cogliere inaspettatamente esso Carlo
nella solenne funzione del santo Natale; e vedendo poi egli la concordia
e risoluzion del papa e de' Romani, senza più fare resistenza si
accomodò al loro volere, ed accettò il nome d'imperadore. Dissi il nome,
colle parole degli storici suddetti; perciocchè per conto di Roma e del
suo ducato, gli stessi Annali ci han già fatto sapere ch'egli anche
solamente patrizio ne era padrone: _ipsam Romam tenebat_. E come padrone
appunto mandò i suoi messi prima, e poi venne egli a far giustizia
contro i calunniatori e persecutori del papa. Che se talun chiede, che
guadagnò allora Carlo Magno in questa mutazione, consistente, come si
pretende, in un solo titolo e nome, hassi da rispondere: che fino a
questi tempi era stata una prerogativa degl'imperadori romani la
superiorità d'onore sopra i re cristiani di Spagna, Francia, Borgogna ed
Italia. Scrivendo essi re agli Augusti, davano loro il titolo di _padre_
e di _signore_. E i primi re di Francia e d'Italia, per giustificare i
lor dominio in tante provincie occupate al romano imperio, non ebbero
difficoltà di riconoscersi come dipendenti dagl'imperadori, con aversi
procacciato da loro il titolo di _patrizii_. Laonde gli stessi Augusti
greci ritenevano qualche diritto, o almeno un possesso d'onore sopra i
re e regni ch'erano stati del romano imperio. Inoltre fin qui erano
stati riguardati come sovrani di Roma, e il nome loro compariva negli
atti pubblici, come si usò per tanti secoli in addietro. Ora creato
Carlo Magno imperador d'Occidente, veniva a levarsi al greco Augusto
ogni diritto sopra Roma, e l'antica onorificenza nelle contrade
occidentali, perchè trasfusa nel novello imperador d'Occidente. Infatti
da lì innanzi Carlo Magno, per attestato di Eginardo, non più col titolo
di _padre_, ma con quel di _fratello_ cominciò a scrivere ai greci
imperadori, siccome divenuto loro eguale nell'altezza del grado, e così
ancora ne' pubblici atti di Roma si cominciò a scrivere il di lui nome
d'imperadore. Ecco la cagione per cui essi Augusti greci, fino allora
rispettati anche in Roma, s'ebbero tanto a male questa novità. E di qui
è avere scritto Teofane[626] che ora solamente _in Francorum potestatem
Roma cessit_, perchè in addietro avevano i Greci conservato l'alto
dominio in Roma, e questo cessò nel costituire imperador de' Romani il
re Carlo. Per altro i motivi del romano pontefice, e del senato e popolo
romano, per rinnovare nella persona di Carlo Magno il romano imperio,
son chiaramente accennati dagli antichi scrittori. Non v'era allora
imperadore. Una donna, cioè _Irene_, comandava le feste, e si intitolava
_imperadrice de' Romani_. Vollero perciò il papa e i Romani ripigliare
l'antico loro diritto, e farsi un imperadore. E tanto più perchè i Greci
non faceano più alcun bene, anzi si studiavano di far del male ai
Romani; ed era ben più nobile e potente de' Greci il monarca franzese.
Tornava anche in maggior decoro di essi Romani che il lor padrone non
più usasse l'inferior titolo di _patrizio_, ed assumesse il nobilissimo
ed indipendente d'_imperadore_, con cui veniva parimente ad acquistare
una specie di diritto, se non di giurisdizione, almeno di onore, sopra i
re e regni di occidente. Per conto poi de' papi non si può ben
discernere, se ne' precedenti anni avessero dominio, o qual dominio
temporale avessero in Roma. Da qui innanzi bensì chiara cosa è ch'essi
furono signori temporali della stessa città e del suo ducato, secondo i
patti che dovettero seguire col novello imperadore: con podestà
nondimeno subordinata all'alto dominio degli Augusti latini, potendo noi
molto bene immaginare che papa Leone stabilisse tale accordo con Carlo
Magno prima di cotanto esaltarlo, e guadagnasse anch'egli dal canto suo
e dei suoi successori. Il perchè da lì innanzi cominciarono i papi a
battere moneta col nome lor proprio nell'una parte dei soldi e denari, e
nell'altra col nome dell'imperadore regnante, come si può vedere ne'
libri pubblicati dal Blanc franzese, e dagli abbati Vignoli e
Fioravanti. Rito appunto indicante la sovranità di Carlo Magno e de'
suoi successori in Roma stessa, non lasciandone dubitare lo esempio
sopra da noi veduto di Grimoaldo duca di Benevento.
Dopo così strepitosa funzione l'imperador Carlo attese a regolar gli
affari di Roma, e ripigliò fra gli altri quello de' congiurati ed
offensori di papa Leone[627]. Furono costoro di nuovo esaminati, e
secondo le leggi romane, venne proferita sentenza di morte contra di
loro. Ma il misericordioso pontefice s'interpose in lor favore appresso
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